IV. TEMI DELL'EVOLUZIONISMO, TRA NATURA E SOCIETÀ
18. Malthus e la sua influenza sull'evoluzionismo
Opere come quelle di Godwin e Condorcet si erano spinte troppo oltre nel rimuovere l'uomo dalla natura e un altro intellettuale decise di rimettercelo una volta per tutte1. Si trattava di Robert Thomas Malthus (1766-1834), pastore anglicano e studioso di problemi sociali, che nel 1798 diede alle stampe un'opera anonima, intitolata An essay on the principle
of population as it affects the future improvement of society. Data la risonanza ottenuta, l'autore
ne confezionò cinque successive edizioni, non più anonime e ampliate con dati e dimostrazioni, nel 1803, 1806, 1807, 1817 e 18262. Col procedere delle edizioni, l'opera divenne sempre meno un libello critico delle teorie di perfettibilità umana, e sempre più un saggio sul principio di popolazione, non privo di accenni politici contingenti riferiti alla polemica sulle Poor Laws3.
Lo studio di Malthus si concentrava sui limiti che la natura poteva porre all'indefinito progresso dell'umanità. Non si trattava d'un tema inedito. Mezzo secolo prima Buffon aveva descritto il movimento della natura attorno a due «perni inamovibili»: l'illimitata fecondità e le innumerevoli difficoltà che portano alla distruzione dei prodotti in eccesso di quella stessa fecondità smodata4. Pure Condorcet si era posto il problema, se un momento sarebbe giunto in cui le risorse naturali non sarebbero più bastate a sostenere l'incremento demografico. Il filosofo francese aveva però ritenuto quel momento incerto e nel caso lontanissimo, e pensava che se pure fosse giunto, l'uomo – pervenuto a picchi allora impensabili di razionalità – avrebbe compreso che il suo dovere verso i posteri non era farli esistere, ma farli essere felici. Avrebbe, insomma, applicato un razionale controllo delle nascite per mantenere la stasi demografica5.
Al contrario Malthus descriveva il sovrapopolamento non come un problema futuro bensì come una costante storica6. L'ecclesiastico inglese scartava l'ipotesi di un progresso generale e illimitato dell'umanità. Essa, spiegava, si era sempre dovuta confrontare con penuria e povertà, a cagione di una tendenza comune a ogni specie vivente: quella a moltiplicarsi più delle risorse vitali di cui dispone. La popolazione aumenta in progressione geometrica (si raddoppia nello stesso tempo, a prescindere dal numero di partenza) mentre i mezzi di sussistenza risentono della scarsità di terra (un bene finito) e quindi aumentano sempre meno rapidamente (la crescita è cioè in proporzione 1 Cfr. R.M. YOUNG, Malthus and the evolutionists, cit., pp. 112-113.
2 T.R. MALTHUS, An essay on the principle of population as it affects the future improvement of society, 2 voll., John Murray, London, 1826. I riferimenti bibliografici rimandano alla seguente edizione italiana: Saggio sul principio di
popolazione, Utet, Torino, 1946.
3 Un regime assistenziale per i più poveri esisteva da secoli in Gran Bretagna, ma la crisi economica portata dal lungo scontro con la Francia rivoluzionaria ne mise in luce i costi e i difetti. Il tutto in una fase in cui la dottrina liberista e utilitarista convergevano nella critica delle Poor Laws denunciandole come troppo costose, discriminatorie verso i lavoratori occupati e inefficaci nell'eradicare la povertà. Bentham, Malthus e Ricardo furono i maggiori protagonisti di questa campagna contro le Poor Laws, che furono profondamente riformate nel 1834.
4 BUFFON, Histoire naturelle, général et particuliére, 36 voll., Imprimerie Royale, Paris, 1749-1804, vol. 6, p. 252. 5 CONDORCET, Esquisse d'un tableau historique, cit., pp. 356-359.
aritmetica)7. Da ciò derivava quella «legge universale e prepotente in natura» che ha nome di necessità che reprime il moltiplicarsi di tutte le specie (umana inclusa) oltre i limiti prescritti8. Malthus giudicava assurda la proposizione secondo cui un territorio limitato potesse nutrire una popolazione illimitata9; il principio di popolazione era una legge naturale cui si doveva sottostare, potendo solo decidere a quale ostacolo all'incremento demografico soggiacere: se alla miseria, al vizio o alla restrizione morale10.
La presa di posizione di Malthus suscitò un dibattito vivace per decenni e che nemmeno oggi possiamo considerare del tutto esaurito. William Paley, che in precedenza aveva indicato l'accrescimento della popolazione come il massimo fine politico e misurato la felicità collettiva come somma aritmetica di quella di ciascun membro della società11, fu uno dei convertiti dalle argomentazioni di Malthus. Pubblicando il suo più volte citato trattato di teologia naturale nel 1802, il chierico anglicano riproponeva il principio malthusiano, «esposto in un recente Trattato sulla Popolazione», come origine della povertà, sì, ma anche come «una parte della costituzione [della natura] che nessuno vorrebbe vedere alterata»12. Quella parte cui Paley faceva riferimento era la divina disposizione per cui l'uomo, non diversamente da ogni altro animale, si deve moltiplicare e perpetuare. La povertà diveniva così, nella sua formulazione, non solo inevitabile ma persino irrinunciabile.
Del resto Paley inglobava nella sua teoria tutta una serie di mali necessari, che andavano dalla morte al dolore; necessari a mantenere o ristabilire l'armonia della natura, faro della sua trattazione. La legge di necessità era anche in Malthus un male foriero di bene: nel suo caso, perché era il solo pungolo al lavoro; lo stato di natura dell'uomo era infatti l'indolenza, il riposo, e solo la necessità sapeva renderlo attivo13. Era la tendenza della popolazione a crescere illimitatamente a creare il bisogno, ossia i mali connessi a una legge naturale (o alla sua violazione, intesa come sovrapopolamento) a permettere il miglioramento delle facoltà umane, l'elevarsi al di sopra dello stato selvatico14. In ciò Malthus e Paley si discostavano: laddove il primo esaltava il lavoro frutto del bisogno come principio di incivilimento (differente dunque dal progresso illimitato di Godwin o Condorcet), Paley esaltava l'indolenza, «la vis inertiae che tiene le cose nel loro ordine», contrapposta alla «attività incessante, universale e infaticabile» che poteva minacciare la tranquillità sociale15. La tensione, fondamentale, era tra un quadro armonioso e più o meno fisso della realtà, quello dipinto da Paley, e la descrizione fattuale di un mondo in movimento e in lotta incessante con sé stesso, che usciva invece dalla penna di Malthus16.
Il primo dei Bridgewater Treatises, dedicato all'uomo, fu affidato al professore di teologia 7 Ivi, pp. 3-9.
8 Ivi, p. 4. 9 Ivi, p. 352. 10 Ivi, p. 445.
11 W. PALEY, The principles of moral and political philosophy, Faulder, London, 1785. 12 W. PALEY, Natural Theology, cit., pp. 372-373.
13 T.R. MALTHUS, Saggio sul principio di popolazione, cit., pp. 56, 301. 14 Ivi, pp. 450-451.
15 W. PALEY, Natural Theology, cit., pp. 377-378.
e ministro scozzese Thomas Chalmers (1780-1847)17. Chalmers, oltre che teologo, era anche un economista malthusiano, e nel suo pensiero le due discipline si fondevano. Egli mirava all'unificazione della dottrina religiosa e del laissez faire economico, persuaso che la condizione economica delle masse fosse un derivato della loro condizione morale. L'educazione cristiana, col suo portato di moralità e autocontrollo, era per Chalmers il solo antidoto alla povertà18. Egli rimproverava a molti teologi naturali, tra cui Paley, l'avere male interpretato gli attributi della bontà divina. In Dio risiedono tre eccellenze morali: la verità, la giustizia e la benevolenza. Molti però, lamentava Chalmers, volevano far rientrare le prime due nella terza: «il venerabile e il terribile [affondano] nell'amabile»19. I teologi naturali portavano dunque la responsabilità d'aver descritto Dio come un tenero padre che mira solo alla felicità delle proprie creature, ignorando ch'Egli è pure legislatore e giustiziere; ma così facendo si erano infilati da soli in un tranello, quello dello spiegare la presenza del male e della sofferenza in un mondo creato da una siffatta divinità20. Chalmers, conscio altresì della triplice natura di Dio e nelle conseguenti caratteristiche del suo universo, indicava nell'economia politica l'alleanza tra moralità e prudenza da un lato e il benessere fisico dall'altro, ossia tra l'economia della natura esterna e l'economia interna dell'uomo21. Laddove Paley si era limitato a incorporare il principio di popolazione nella propria architettura teorica, Chalmers l'aveva utilizzata come fondamento22: il mondo non era più uno d'armonia, in cui un Dio benevolo spargeva un pizzico di sofferenza affinché i piaceri fossero meglio apprezzati e goduti, ma diveniva un campo di prova, un terreno d'addestramento in cui un Dio severo ma giusto temprava la propria creatura prediletta in vista di un bene supremo ma ultraterreno. Chalmers aveva consumato la rottura della teologia naturale con l'ottimismo del XVIII secolo.
Una concezione simile del rapporto tra uomo e leggi naturali era stata proposta pochi anni prima (ma in un'opera che avrebbe ottenuto successo e riconoscimento solo in seguito) dal frenologo George Combe (1788-1858)23. Si trattava di un tentativo di sistematizzare quel rapporto secondo un quadro fondamentalmente religioso, per cui il rispetto delle leggi naturali si traduceva in ricompensa e il violarle in punizione: queste leggi, fisse e universali, erano lo strumento tramite cui la natura (ossia Dio) controllavano l'uomo. Il principio di popolazione di Malthus era citato tra gli esempi di possibile violazione di quella che Combe definiva «la legge sociale»24.
I semi lanciati da Malthus non ricaddero però solo sul terreno dell'economia politica e della teologia naturale. Young25 lo ha definito un biologo, «un ecologo umano», riconoscendogli il merito di aver contribuito al superamento di quella concezione che 17 T. CHALMERS, On the power, wisdom and goodness of God as manifested in the adaptation of external nature to
the moral and intellectual constitution of man, 2 voll., William Pickering, London, 1833.
18 R.M. YOUNG, Malthus and the evolutionists, cit., pp. 120-122.
19 T. CHALMERS, On the power, wisdom and goodness of God, vol. II, cit., pp. 97-100. 20 Ivi, pp. 101-104.
21 Ivi, pp. 49-51.
22 R.M. YOUNG, Malthus and the evolutionists, cit., p. 43.
23 G. COMBE, The constitution of man considered in relation to external objects, Longman, London, 1828 (le citazioni si riferiscono all'edizione Colyer, New York, 1843).
24 Ivi, p. 208.
voleva nell'uomo e nel suo ambiente uno stato di continua armonia. Malthus portò altresì a guardare all'essere umano come ad un animale. Agli occhi di Young, l'economista inglese era la fonte di quella visione della natura che avrebbe condotto al social-darwinismo. Di certo è che l'influenza di Malthus sia accertata per almeno due dei tre maggiori evoluzionisti britannici: Darwin, Wallace e forse pure Spencer26.
Nell'ottobre 1838 Darwin lesse per diletto l'opera di Malthus27. Era più di un anno che si dedicava all'indagine sulla questione che l'avrebbe reso famoso: aveva osservato l'ubiquitaria e incessante lotta per l'esistenza e compreso il preservarsi di variazioni favorevoli e la formazione di nuove specie. Aveva cioè compreso il principio del mutamento dalla selezione, ma faticava ancora a cogliere come applicare questo principio e secondo quale agente la selezione naturale operasse: proprio Malthus glielo suggerì sotto forma di eccesso riproduttivo e sopravvivenza dei più adatti28, ovvero (per usare la cruenta formulazione darwiniana) di «azione di sterminio all'opera con ogni organismo»29. Darwin applicava la dottrina malthusiana «con forza multiforme all'intero regno animale e vegetale»30. Tale dottrina era, nelle sue mani, ancora più potente perché applicata in primo luogo alle specie vegetali e animali diverse dall'uomo: in esse non poteva operare il freno morale e dunque le spinte espansive e distruttive potevano procedere a briglie sciolte31.
Anche Paley, come già riferito, aveva rappresentato un'importante fonte d'ispirazione per Darwin. Dai due autori il naturalista riceveva però suggestioni differenti: Paley evidenziava il perfetto adattamento delle creature alla natura, Malthus l'incessante conflitto. Darwin risolse il contrasto volgendo le risposte di Paley in problemi cui Malthus dava le soluzioni. Egli sapeva che l'adattamento all'ambiente non era dato, checché ne pensasse Paley, bensì acquisito; sul come fu l'immagine malthusiana del mondo in lotta a illuminarlo. Da Malthus e Paley Darwin ricavò una sintesi in cui, secondo le parole di Young, «la lotta a un tempo spiega e produce l'adattamento»32.
Malthus non fu certo il solo autore da cui Darwin trasse l'idea della natura come lotta per l'esistenza, ma rappresentò l'influenza più efficace, quella che seppe indicare l'intensità della lotta e la pressione che pone sugli organismi33. Darwin tuttavia citò anche la massima di A.P. De Candolle, secondo cui tutta la natura è in guerra, un organismo contro l'altro e tutti gli organismi con la natura che li circonda: una dottrina che gli appariva come «[quella] di Malthus applicata in molti casi con forza decuplicata»34. Anche in Lyell, autore
26 Nel caso di Herbert Spencer esistono visioni contrastanti: ad esempio J. BURROW (Evolution and society. A study
in Victorian social theory, Cambridge University Press, London-New York, 1966, p. 183) ritiene il principio
malthusiano di popolazione la sua ispirazione per il meccanismo evolutivo, mentre R.M. YOUNG (Malthus and the
evolutionists, cit., pp. 134-137) giudica l'impostazione di Spencer anti-malthusiana, poiché il fattore operante
nell'evoluzione è ritenuto quello dell'uso e disuso in un quadro di progresso teleologico. 27 F.. DARWIN, The life and letters of Charles Darwin, vol. 1, cit., p. 83.
28 DCP-LETT-2449, lettera di C.R. Darwin a A.R. Wallace, 6 aprile 1859; S.J. GOULD, Ever since Darwin, cit., p. 22. 29 C.R. DARWIN, The foundations of the Origin of species, cit., p. 28.
30 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1857, cit., p. 50.
31 R.M. YOUNG, Malthus and the evolutionists, cit., p. 118; cfr. anche pp. 126-127. 32 Ivi, p. 118; cfr. anche pp. 125-126.
33 G. DE BEER, M.J. ROWLANDS, B.M. SKRAMOVSKY (eds.), Darwin's notebooks on transmutation of species, part VI, “Bullettin of the British Museum (Natural History)”, Historical Series 3, n. 5 (1967), pp. 129-176, alla p. 134; J. SAPP, Genesis, cit., p. 23.
amatissimo da Darwin, l'idea della lotta per l'esistenza era esplicitamente presente. Nel secondo volume dei suoi Principles of Geology, che tennero compagnia a Darwin durante la lunga navigazione del Beagle, Lyell, discutendo della reticenza delle specie naturali a ibridarsi e della debolezza insita negli ibridi stessi, chiamava in causa «l'universale lotta per l'esistenza, [in cui] il diritto del più forte alfine prevale»35. Fissava anche taluni concetti che Darwin avrebbe in seguito sistematizzato: come quello per cui ogni specie, per diffondersi, deve diminuirne o del tutto estirparne qualcun'altra36 – fenomeno a giudizio del geologo esemplificata dall'estinzione di tribù selvagge sotto l'avanzata di più civili colonizzatori37. Un altro autore stimato da Darwin, Edward Blyth (1810-1873), negli anni '30 aveva descritto una lotta per l'esistenza che cancellava gli individui inadatti. L'aveva fatto tuttavia in una cornice fissista, in cui a essere spazzati via erano gli elementi divergenti dal prototipo che Dio aveva creato perfettamente adattato al suo ambiente.
Alfred Russell Wallace lesse Malthus intorno ai vent'anni d'età; negli anni immediatamente successivi, anche i Principles di Lyell e il Voyage of the Beagle di Darwin, oltre al trattato evoluzionista di Chambers. L'incontro letterario con Malthus era da Wallace equiparato a quello personale con Bates, punto di svolta nella sua esistenza38. Dei
Principles of Population restituì il ritratto di una lettura fondamentale, perché per la prima
volta vi aveva trovato affrontati i temi di «biologia filosofica» e perché, molti anni dopo, gli avrebbe fornito «l'indizio a lungo cercato sull'agente effettivo nell'evoluzione delle specie organiche»39. Fu infatti ripensando vent'anni più tardi al libro di Malthus, a come quei limiti descritti per l'uomo dovessero più prepotentemente operare sulle altre specie, che ebbe l'epifania sul funzionamento della selezione naturale, ossia la sopravvivenza del più adatto in un ciclo di continue e immani distruzioni biologiche40.
Wallace si rivelò però un discepolo di Malthus meno fedele rispetto a Darwin. Il gallese applicò il principio di popolazione alle altre specie, ma non volle farlo proprio a quella per cui invece erano state formulate. Egli nutriva infatti proprio quella credenza per rigettare la quale Malthus si era adoperato: che l'uomo fosse perfettibile. Si è già riferito come Wallace ritenesse di trovare le evidenze di una intelligenza superiore che aveva predisposto l'evoluzione dell'uomo; in tal modo, esso si sottraeva tanto alla selezione naturale quanto al principio di popolazione malthusiano. Quest'evoluzione del pensiero di Wallace, divergente da quello di Darwin, è rinvenibile fin dagli anni '60, ma una tappa
della comunicazione del 1858 alla Società Linneana, prima esternazione pubblica della teoria darwiniana (C.R. DARWIN e A.R. WALLACE, On the tendency of species to form varieties; and on the perpetuation of varieties and
species by natural means of selection, “Journal of the Proceedings of the Linnean Society of London. Zoology”, vol.
3, n. 9 [1858], pp. 45-50, alla p. 46). L'originale di tale citazione si trova in A.P. DE CANDOLLE, Géographie
botanique in AA.VV., Dictionnaire des sciences naturelles, vol. 18, Levrault-Le Normant, Strasbourg-Paris, 1820,
pp. 359-422, alla p. 384. L'autore francese si riferiva in realtà alla flora: «Tutte le piante di un paese, tutte quelle di un dato luogo, sono in uno stato di guerra le une con le altre». Darwin si prese la libertà di allargare il soggetto alla natura, rendendo così la sentenza a un tempo più generale e più espressiva.
35 C. LYELL, Principles of Geology, vol. II, cit., p. 56. 36 Ivi, p. 156.
37 Ivi, p. 175.
38 A.R. WALLACE, My life. A record of events and opinions, vol. 1, Chapman & Hall, London, 1905, p. 240. 39 Ivi, p. 232.
40 A.R. WALLACE, The wonderful century. Its successes and its failures, George Morang, Toronto, 1898, p. 140; A.R. WALLACE, My life, vol. 1, cit., pp. 361-362.
rilevante fu la lettura di Progress and poverty di Henry George nel 187941.
Il giornalista americano mirava a spiegare la contraddizione tra il progresso tecnologico e sociale e la perdurante povertà, spesso dentro quelle medesime città in cui si concentravano le ricchezze. La causa stava a suo avviso nell'accrescersi del valore della terra, quindi della rendita, dovuto proprio al progresso. Nell'attaccare l'ortodossia economica dell'epoca George prendeva di mira quella che considerava uno dei suoi pilastri: la teoria malthusiana, da lui ritenuta una fola contraria alla coscienza cristiana ma funzionale agli interessi delle classi abbienti42. Contraria alla coscienza cristiana perché assegnava la responsabilità della povertà non alla società umana bensì alle leggi del Creatore; e una fola perché George riteneva di poterla confutare, basandosi su dati e argomenti che oggi possiamo facilmente riconoscere fallaci (ad esempio, che la popolazione terrestre non fosse in crescita ma in declino rispetto all'Antichità, o che la legge dei rendimenti decrescenti fosse errata). Egli voleva dimostrare altresì che la crescita di popolazione umana avrebbe naturalmente portato alla crescita anche delle risorse, se non fosse stato per la corruzione della società. Una delle maggiori cause del successo del principio di popolazione malthusiano la individuava nell'analogia proposta col mondo animale e vegetale: anzi, quella teoria si era persino rafforzata col procedere del tempo perché «il pensiero moderno [stava] livellando le differenze tra le varie forme di vita»43. L'accenno polemico nient'affatto criptico puntava al darwinismo, una «nuova filosofia» che George, rifacendosi anche al creazionista americano Agassiz, guardava con sospetto, pur non osando avventurarsi in campo naturalistico44. Wallace del darwinismo era uno dei padri, ma non trovò contraddittorio farsi seguace di George proprio perché da tempo negava l'analogia incriminata: le sue convinzioni scientifiche, non meno delle credenze religiose, lo spingevano a ritenere che l'uomo rappresentasse una realtà totalmente a sé stante rispetto alle altre forme di vita organica.
Wallace incontrò George durante i viaggi di quest'ultimo in Inghilterra45. Scrisse con entusiasmo di quell'opera a Darwin, enucleando come – in maniera secondo lui convincente – il giornalista americano fosse riuscito a dimostrare la non applicabilità del principio di popolazione all'uomo. Darwin rispose promettendo d'ordinare l'opera, ma confessando una scarsa attrazione per i libri d'economia; notava anzi come Wallace si stesse volgendo verso la politica, «assai tentatrice», e con forse un po' di malizia s'augurava che non avrebbe rinnegato le scienze naturali46. Era, in ogni caso, l'ultima lettera di Darwin a Wallace: il naturalista di Shrewsbury sarebbe infatti morto di lì a meno di un anno, lasciando in sospeso il discorso relativo a George e Malthus. È comunque difficile credere che l'anziano Darwin si sarebbe lasciato persuadere dalle argomentazioni di George, che pur tanto avevano entusiasmato Wallace: alcuni anni prima, in una missiva privata, qualificava come «sciocchi» gli autori che cercavano di confutare Malthus, le cui 41 H. GEORGE, Progress and poverty. An inquiry into the cause of industrial depressions and of increase of want with