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IV. TEMI DELL'EVOLUZIONISMO, TRA NATURA E SOCIETÀ

24. Migrazioni e razze

Il primo studioso a elaborare la correlazione tra mutamento biologico e movimento geografico (quella che oggi è nota come “speciazione allopatrica” e riconosciuta dalla maggioranza degli studiosi come la forma più rilevante di differenziamento) fu il geologo tedesco Christian Leopold von Buch (1774-1853). Negli anni '30 dell'Ottocento espresse la convinzione che, grazie soprattutto a migrazione e isolamento, le varietà divenissero lentamente delle specie, incapaci di riprodursi con individui di altre varietà della specie originaria. È però al geografo ed esploratore tedesco Moritz Wagner (1813-1887) che si ricollega più frequentemente questa dottrina. Egli teorizzò che la speciazione avvenisse solo in regime di isolamento, laddove la popolazione variante non potesse regredire alla forma tipica tramite incrocio con la popolazione non variante. A suo avviso Darwin aveva del tutto sottostimato questo requisito. Wagner riteneva infatti che la selezione naturale fosse condizionata alla migrazione e all'isolamento: l'incrocio illimitato produce sempre uniformità, sicché ne selezione né tanto meno speciazione potrebbero aver luogo.

Darwin dovette affrontare la questione dell'isolamento soprattutto ragionando di quella tendenza, che allora (stante l'insufficiente comprensione delle leggi della genetica) si dava per assodata, alla regressione dei caratteri, ossia al ritorno alle forme ancestrali anche a distanza di svariate generazioni. Nell'abbozzo del 1844 annotava che, affinché una razza o una varietà divenga ereditaria nelle sue nuove caratteristiche appena manifestatesi, richiede in genere che sia isolata, ossia che non ci sia incrocio con gli individui di forma non variata1. La distribuzione degli organismi era giudicata in relazione con le barriere naturali che ne fermano il diffondersi: esse sono la causa che impedisce la fusione di due gruppi in uno solo, e all'origine della differenziazione dev'esservi stata una migrazione2. Infatti, le specie secondo Darwin sono sorte su una singola zona o area3 e la speciazione è favorita da luoghi isolati4: non a caso imputava alle isole una maggiore capacità di creare nuove specie5.

In Origin of species, discutendo dell'allevamento, notava che per selezionare nuove razze vanno impediti gli incroci, e ciò avviene di solito laddove i terreni sono suddivisi e recintati6. Asseriva inoltre che la variazione è maggiore tra gli animali che si spostano molto, permettendo ai mutanti di separarsi dai non mutati, e che una zona limitata e isolata favorisce il consolidarsi delle variazioni. Tale zona in quanto ristretta avrà infatti condizioni naturali uniformi dalle quali conseguirà una selezione unilineare; l'isolamento impedirà invece gli incroci con vicini o l'immigrazione di specie più forti7. Ciò malgrado, precisava che «né la migrazione né l'isolamento di per sé possono far molto», 1 C.R. DARWIN, The foundations of the Origin of species, cit., pp. 63-68, ribadito nel riassunto finale di p. 240. 2 Ivi, p. 155.

3 Ivi, p. 171 e On the origin of species, 1859, cit., pp. 353-354.

4 C.R. DARWIN, The foundations of the Origin of species, cit., pp. 183-184. 5 Ivi, p. 189.

6 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., p. 42. 7 Ivi, pp. 103-105.

rammentando come specie abbiano migrato su ampi spazi senza mutare granché: è il mutare dei rapporti con gli altri organismi (e in misura minore con le condizioni naturali circostanti) a far variare una specie8.

Darwin, soprattutto nella fase più matura della propria teorizzazione, non era disponibile a riconoscere all'isolamento più d'un ruolo facilitatore della speciazione. Egli asseriva che, essendo gli equilibri delle forze in una regione così ben bilanciati, anche una piccola variazione favorevole sia in grado di dare un netto vantaggio a chi la possieda; l'isolamento è altresì una condizione non comune, innecessaria affinché la selezione naturale svolga il proprio corso9. Nell'edizione finale di Origin riconosceva a Wagner di aver compreso meglio di lui l'importanza dell'isolamento nel prevenire gl'incroci di neo- varietà, ma rifiutava ancora la tesi della necessità di migrazioni e isolamento per la speciazione10. Al contrario, le specie più forti non sono per lui a rigor di logica quelle isolane ma quelle continentali, sorte in ampie regioni naturali che hanno potuto colonizzare rapidamente grazie all'assenza di barriera; così debbono essere riuscite a raggiungere più alte vette evolutive per reazione alla più agguerrita competizione11. Di tanto in tanto un certo isolamento può essere favorevole, ma in generale è una «severa concorrenza» a favorire l'insorgere di nuove specie e soprattutto il loro successo12.

Haeckel assecondava Wagner nel riconoscere alla migrazione l'effetto di accelerare la nascita di nuove specie. Ogni specie, spiegava, è nata una sola volta e in un solo punto del globo: il suo “centro di creazione” o, come prediligeva si dicesse, “patria primitiva” o “luogo d'origine”. A un certo livello di diffusione sopraggiunge la scarsità di risorse, che innesca la lotta per l'esistenza e spinge, per sottrarvisi, all'emigrazione. Da qui discende la diffusione d'una specie e la sua differenziazione: infatti, sono le specie che hanno più facilità di migrazione (come uccelli e insetti) a presentare una più spiccata variazione delle forme esteriori. Haeckel citava anche altri fattori di mobilità diversi dalla migrazione attiva: la migrazione passiva (soprattutto per piante e piccoli organismi), la storia geologica (movimento delle terre e pertanto degli organismi che vivono su di esse) e il mutamento climatico (che impone il movimento o l'adattamento) agli organismi. In un modo o nell'altro, una popolazione – che sia di piante, animali o uomini – si ritrova in un nuovo territorio, con un nuovo clima e nuovi organismi con cui interagire, e deve o adattarsi o perire. Il fatto di essersi staccati dal tronco originario della loro specie, e dunque di non potersi incrociare con gli individui non mutati, preserva questi adattamenti fino a cristallizzarne la somma in una nuova specie13.

Haeckel, tuttavia, dissentiva da Wagner sul punto che l'isolamento geografico fosse, oltreché vantaggioso, persino necessario per la selezione naturale. Innanzi tutto, spiegava cge tale regola non potesse logicamente porsi per gli organismi a riproduzione asessuata, che nei primordi dovevano essere la regola. Essa era tuttavia invalida anche per le specie 8 Ivi, p. 351.

9 Ivi, p. 82.

10 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1876, cit., pp. 81-82. 11 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., pp. 82-83. 12 Ivi, p. 326.

sessuate: la divisione del lavoro, tanto quella personale quanto quella cellulare, erano sufficienti per Haeckel a garantire la selezione naturale e la speciazione14. Le posizioni dello scienziato tedesco risultavano perciò più prossime a quelle di Darwin che a quelle di Moritz Wagner.

Spencer riteneva la segregazione un elemento importante nell'evoluzione che – nella sua particolare accezione – era la matrice di tutta la realtà. L'azione di forze uniformi – che possono essere il movimento di fluidi piuttosto che il magnetismo o le reazioni chimiche – su un insieme di elementi disomogenei porta inevitabilmente al loro separarsi e ridistribuirsi in base alle caratteristiche rilevanti per la forza agente: ad esempio, il vento separerà gli elementi più pesanti e quelli più leggeri. Analogamente in ambito biologico, spiegava Spencer, le forze che agiscono sui membri d'una specie tendono a dividerli, segregarli, staccando ed eliminando i meno adatti e mantenendo gli altri in un aggregato omogeneo. In cima all'elenco di queste forze ci sono le condizioni fisiche – come clima e alimentazione – che vanno a segregare chi risponde o meno a una determinata tipologia. Nell'uomo agisce anche un fattore mentale, l'attrazione verso il simile: perciò, argomentava Spencer, tutti quei processi sociali che tendono a incrementare l'omogeneità di gruppo, come l'educazione, hanno effetti segregativi15. Non va tuttavia trascurato che per Spencer l'evoluzione corrispondeva all'aumento dell'eterogeneità. Facendo riferimento all'omogeneità indotta dalla segregazione dei meno adatti alludeva al loro estinguersi, e non al fatto che i più adatti fossero indifferenziati tra loro.

La discussione relativa al peso che selezione naturale e segregazione fisica avevano all'interno del processo evolutivo concerneva la formazione e cristallizzazione di varietà. In ambito umano, quelle varietà erano costituire dalle razze. Fin dagli albori del trasmutazionismo, si era cercato di elaborare una teoria scientifica in relazione alla loro nascita e ai rapporti che le legavano. Il Conte di Buffon (1707-1788) e Johann Friedrich Blumenbach, tra la seconda metà del Settecento e la prima dell'Ottocento, proposero una visione degenerativa secondo la quale le varietà intra-specifiche erano da spiegarsi con una differenziazione, indotta dal clima, rispetto al tipo originale. Blumenbach, sulla scorta di studi anatomici principalmente craniometrici, divise l'umanità in cinque razze (bianca- caucasica, gialla-mongola, marrone-malayana, nera-etiopica e rossa-americana). Il genere umano erano nato, a suo avviso, bianco con Adamo ed Eva, ma fattori ambientali (come l'insolazione e la malnutrizione) e generativi (nisus formativus)16 avevano creato le altre razze, passibili di ritornare a quella caucasica se sottoposte per un periodo sufficientemente lungo a climi meno condizionanti.

La prospettiva di Buffon e Blumenbach era ancora tradizionale nel suo ambientalismo. Le razze erano da loro descritte come semplici variazioni sul tema, effetto della plasticità fenotipica dell'essere umano. Non ci si era ancora distanziati granché dalla scontata considerazione che la pelle scura dei popoli tropicali deriverebbe dalla maggiore esposizione al sole. James Prichard (1786-1848) negava l'azione diretta dell'ambiente o del 14 Ivi, pp. 193-194.

15 H. SPENCER, First principles, cit., pp. 459-482. 16 J.S. WILKINS, Species, cit., pp. 104-105.

suolo, ma solo per spostarsi dal piano statico a quello della dinamica: attribuiva infatti la differenziazione razziale a un evento di cambiamento ambientale. Essendo l'influsso ambientale statico trascurabile, egli si attendeva che l'avanzare della civiltà tra i popoli di colore li avrebbe persino sbiancati17. C'era poi la visione fissista. Se per i predetti autori trasmutazionisti la razza era concetto labile, da inquadrarsi in un'unica specie umana capace di differenti manifestazioni somatiche in reazione all'ambiente, Agassiz decretò che Dio aveva compiuto otto distinti atti di creazione per altrettante razze umane. La poligenesi fu sostenuta a livello scientifico anche senza rifarsi all'argomento religioso, ad esempio da Christoph Meiners (1747-1810)18.

Il darwinismo poneva la questione delle razze su un piano intermedio tra fissisti e primi trasmutazionisti. Da un lato rifiutava l'idea di creazioni speciali, ma dall'altro riduceva la stima dell'impatto dell'azione ambientale diretta valorizzando altresì quello della genetica; riempiva in tal modo la categoria di “specie”, svuotata da Buffon, d'un nuovo contenuto essenziale, per quanto ancora labile e non più trascendente. Gli studiosi dibattono se per Darwin la categoria di “specie” fosse puramente arbitraria e convenzionale19, temporanea20 ovvero corrispondente a una realtà21. Nel 1844 per Darwin la “specie” era definibile in

essenza come quella che non discende da alcun genitore in comune con un'altra specie; i

suoi due caratteri visibili sono la somiglianza degli individui che la compongono e, soprattutto, la sterilità della prole derivante da incroci con altre specie22. Oltre un decennio dopo, nella più matura riflessione contenuta in Origin, il naturalista britannico evidenziava invece la difficoltà insita nel distinguere le specie delle variazioni: l'assenza di specie ben definite era proprio una prova a discapito della tesi dei distinti atti creativi23. Se non esistono essenze specifiche non esiste nemmeno un ordine essenziale della natura, espresso in una trama armoniosa di relazioni, in un'ecologia prestabilita in cui ogni organismo ha un posto e un ruolo necessari: quello dipinto da Darwin è un processo eco- storico, esistenzialmente legato a risultati sempre mutevoli della propria azione, privo di tipi ideali, di stati ideali, di specie ideali. L'organismo darwiniano è un mosaico di adattamenti relativi rispecchianti i requisiti imposti dall'ambiente, ma che lasciano uno spazio vuoto che gli permette di penetrare nuovi spazi ecologici24. Questo era il quadro teorico in cui s'inserì la sua riflessione sulle razze umane.

Il giovane Darwin era rimasto stupito dalla grande differenza intercorrente tra un uomo civilizzato e uno selvaggio: una differenza che gli appariva tanto maggiore rispetto a quella tra animale domestico e animale selvatico, a cagione della maggiore capacità di miglioramento insita nell'uomo25. Sulla differenziazione del genere umano sarebbe

17 Ivi, p. 110. 18 Ivi, pp. 110-111.

19 E. MAYR, The growth of biological thought, cit., p. 268

20 H.J. RHEINBERGER, P. MCLAUGHLIN, Darwin's experimental Natural History, cit., p. 365. 21 J. WILKINS, Species, cit., pp. 129-158.

22 C.R. DARWIN, The foundations of The origin of species, cit., p. 96. 23 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., pp. 44-59.

24 H.J. RHEINBERGER, P. MCLAUGHLIN, Darwin's experimental Natural History, cit., p. 366.

25 C.R. DARWIN, Journal of researches into the geology and natural history of the various countries visited by

H.M.S. Beagle, under the command of Captain Fitzroy, R.N. From 1832 to 1836, Henry Colburn, London, 1839, p.

ritornato però solo molto più avanti nella propria carriera.

Va sottolineato che Darwin riconosceva una «legge generale della natura (del cui significato siamo sebbene totalmente ignoranti)» in ragione del quale un occasionale incrocio con un altro individuo sarebbe necessario26. Egli stava facendo riferimento in quel passaggio alle piante (che avrebbero capacità di autofecondazione dei propri stami e pistilli ma più spesso si incrociano grazie al vettore degli insetti) e agli animali ermafroditi (che non di meno s'accoppiano l'uno con l'altro), ma aggiungeva in seguito un riferimento più generale, tratto dall'esperienza degli allevatori, per cui l'incrocio tra parenti riduce vigore e fecondità nella discendenza, mentre quello occasionale con una varietà differente, o comunque una sottorazza o un ceppo distinto, li accrescerebbe27. Persino la sterilità degli ibridi sarebbe un fatto puramente accidentale, ma senza alcuna legge naturale a impedire la confusione tra specie28. Nella versione finale di Origin chiarì anche le cause evolutive in virtù delle quali l'incrocio sarebbe positivo, ossia che le forme incrociate sono state sottoposte a differenti condizioni di vita; solo unire «organizzazioni distinte» a livello morfologico produce ibridi sterili29.

La teoria evoluzionista darwiniana statuiva la tendenza alla divergenza delle specie, secondo il principio per cui la competizione è massima tra organismi simili e dunque una varietà avvantaggiata andrà a eliminare e soppiantare il ceppo originario invariato e le altre varietà simili ma svantaggiate. Sul lungo periodo a sopravvivere sono le varietà estreme, che puntano a risorse differenti e non competono troppo tra loro, mentre gli anelli di congiunzione sono progressivamente eliminati. Applicata alla nostra specie, questa teoria prevedeva che gli esseri umani avrebbero provocato l'estinzione dei primati superiori a noi più simili, e pure che all'interno del genere umano le razze civili, più evolute, avrebbero sterminato quelle selvagge: convergenza di queste due dinamiche sarebbe stato il progressivo allontanamento biologico dell'essere umano dalle scimmie30. Alla selezione naturale andava imputato il differente stadio d'avanzamento civile, ossia intellettuale e morale, dei popoli: sulla base degli studi zoologici, Darwin riteneva che non un deficit di variabilità, ma di competizione avesse pesato sulle popolazioni più arretrate31. La competizione tra esseri umani – e non le condizioni ambientali – costituisce anche la causa diretta dell'estinzione d'una tribù o razza. Quando una tribù selvaggia diviene per qualche motivo più numerosa delle vicine finisce per assorbirle, schiavizzarle o sterminarle. L'esito è il medesimo in caso di contatto tra una nazione civile e dei selvaggi, ma in questo caso sono vizi e malattie a determinare l'estinzione di questi ultimi32.

Il naturalista inglese affrontò anche il dibattito relativo alle origini e alla classificazione delle razze umane. Innanzi tutto, egli ravvisava una lunga serie di differenze anatomiche, emotive e intellettive tra le razze umane33; la loro distribuzione, notava, ricalca in maniera

26 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., pp. 96-101. 27 Ivi, pp. 248-249 e p. 267.

28 Ivi, pp. 260-261.

29 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1876, cit., pp. 405-406. 30 C.R. DARWIN, The descent of man, 1874, cit., pp. 156-157. 31 C.R. DARWIN, The descent of man, 1871, vol. 1, cit., p. 180. 32 Ivi, pp. 237-239.

più o meno chiara le regioni zoologiche di altri mammiferi34. Coloro che riconoscevano l'esistenza di più specie umane avevano vari argomenti a supporto, non confutati nemmeno dalla fertilità degli incroci tra di esse (la possibilità d'incrocio non era considerata una discriminante decisiva per catalogare le specie e le varietà). D'altro canto, diversi caratteri distintivi delle razze variano significativamente all'interno di esse, mostrando una transizione graduale dall'una all'altra, e quando si trovano a convivere su un medesimo territorio le razze tendono a incrociarsi35. Quando lo fanno, spiegava Darwin richiamandosi ancora una volta alle conoscenze maturate nell'ambito dell'allevamento animale, lo stato d'eterogeneità d'un popolo dura solo alcune generazioni, passate le quali – se v'è stato un libero incrocio tra i suoi membri – i nuovi caratteri ibridi si saranno fissati e non sarà più possibile una reversione alle distinte razze iniziali36. Di fronte a tanti elementi contrastanti, Darwin proponeva una soluzione di compromesso, ossia quello di classificare le varietà umane né come specie né come razze, ma come «sotto-specie»37. Più netta era invece la posizione del naturalista inglese in merito al dibattito sulla mono o poligenesi delle razze umane: non vi erano per lui dubbi sull'origine comune da un singolo ceppo primitivo38.

Da cosa dipendono le differenze riscontrabili tra le razze umane? Darwin escludeva che l'azione diretta delle condizioni di vita possa spiegarle, sebbene essa abbia un'influenza ereditaria sullo sviluppo corporale (citava in merito la maggiore crescita dei coloni europei trasferiti in America, di contro però alle similitudini tra Eschimesi e Cinesi in condizioni totalmente differenti). Scartava anche gli effetti ereditari dell'uso o disuso delle parti. Un peso poco maggiore gli sembrava imputabile alla correlazione di sviluppo (ossia il fenomeno per cui una variazione vantaggiosa porta con sé tutta una serie di altri mutamenti a essa interconnessi, generando così un effetto moltiplicativo). La sua tesi era invece che, in quanto essere proteiforme, le differenze esteriori tra le razze non siano troppo importanti per l'uomo: altrimenti sarebbero state o fissate o eliminate nel corso del tempo. Queste differenze sono imputabili per lo più alla selezione sessuale, in cui l'acquisizione di tratti è vantaggiosa non nella lotta per l'esistenza ma nell'accoppiamento39. Tra i mammiferi, la conquista delle femmine dipende più dalle lotte tra maschi che dall'attrattiva degli individui40: siccome particolari caratteri tendono a manifestarsi negli eredi in condizioni e periodi analoghi a quelli in cui sono stati acquisiti dai loro antenati, così si può spiegare perché i mammiferi maschi siano più forti, grossi e pugnaci delle loro femmine41. Questa «legge di battaglia», scriveva Darwin, deve aver prevalso tra l'uomo durante le prime tappe del suo sviluppo: la forza e le dimensioni maggiori del maschio si devono ai progenitori scimmieschi e agli antenati selvaggi e barbarici. Con l'avvento della civiltà, il maschio cessa di lottare per conquistare le 34 Ivi, p. 169.

35 Ivi, pp. 171-174. 36 Ivi, p. 192. 37 Ivi, p. 175. 38 Ivi, p. 176.

39 Ivi, pp. 196-199 e, per la definizione di “selezione sessuale”, pp. 210-211. 40 Ivi, p. 500.

femmine, ma continua a fare lavori più pesanti e, dunque, a mantenere una forza superiore. La lotta per la conquista delle femmine, tuttavia, non implica l'utilizzo solo della forza bruta: anche le facoltà mentali entrano in gioco e perciò il maschio, spiegava il naturalista inglese, palesa ingegno e immaginazione superiori alla femmina42. Tornando alla questione della differenziazione razziale, Darwin elencava la grande varietà di modi in cui l'uomo cerca di modificare e ornare il proprio aspetto, seguendo un evidente archetipo nella mentalità umana. Quest'idea dell'abbellimento si manifesta però in maniera assai diversa di caso in caso: ciò che è bellezza per una tribù, può essere deformità per un'altra43. Darwin si rifaceva a Humboldt nell'affermare che «l'uomo ammira e spesso cerca d'esagerare qualsiasi carattere la natura possa avergli dato»44. In tal modo gli esseri umani, in particolare allo stato selvaggio, si comportano con la propria tribù come un allevatore si comporterebbe col proprio gregge, cercando di selezionare e sviluppare sempre più quelle caratteristiche peculiari che possano distinguerla dalle altre; non esiste uno standard universale di bellezza umana ma solo l'accentuazione di quei caratteri che ciascuna società considera normali45. È la separazione delle tribù, che si trovano soggette a differenti condizioni di vita che lasciano il segno sul loro aspetto, a creare diversi modelli di bellezza e una conseguente selezione sessuale che non fa altro che esasperarli, e dunque favorire la divergenza dei caratteri46.

Ernst Haeckel guardava al concetto di specie come relativo, soggettivo e artificiale47. In merito all'uomo riconosceva la ragione dei monogenisti per lo meno in senso lato: anche in