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IV. UN CONFINE IN PIANURA TRA MINCIO E TIONE

3. Le colline moreniche del Garda

Lo studio delle ispezioni biennali praticate lungo la linea di confine del Basso veronese, a partire dal 1770, permette d’individuare alcune situazioni risolte positivamente proprio dalla Commissione che, altrimenti, avrebbero potuto avere esiti ben diversi. Val la pena dunque riprendere con pazienza la perlustrazione dalle colline del Garda.

La linea territoriale correva lungo il piede di alcune colline moreniche, molte delle quali furono diboscate e ridotte a prato, esponendo al dilavamento quel fragile suolo. Nel 1779, una frana sul monte Oliveto, nelle pertinenze del villaggio allora veneto di Monzambano, scaricava ghiaia su un fosso sottostante, detto Baldone, che segnava il confine di Stato, all’inizio della via Cavallara, provocando rigurgiti d’acqua che arrecavano danni ai coltivi limitrofi. Quel fosso serviva da collettore alle acque pluviali che per l’addietro scolavano in territorio di Volta Mantovana, «ma che ora, interrito il fosso per le abbondanti deposizioni, s’impedisce lo scolo danneggiando i fondi veneti». Per ben tre volte, la Commissione ne aveva esortato lo scavo, ma i mantovani non ne vollero sapere, essendo più alti, i loro campi non subivano danni, che ci pensassero i veneti. E poi, se si eseguissero quei lavori, chi li assicurava che le ghiaie poi non ricadessero sulle loro proprietà? Per togliere questi timori, gli ingegneri proposero di costruire una o più roste nel sito «dove scorre la lavina cadente dal monte Oliveto» così da trattenere i sedimenti261.

È nota la complessa storia geologica delle colline moreniche del Garda, poste come sono sulla linea di fraglia dove nelle varie ere si sono depositati numerosi sedimenti un tempo marini. Non più trattenute da un manto boschivo, in caso di piogge insistenti, queste ghiaie si scaricavano a valle, fattore ambientale che contribuiva alla povertà di quelle campagne mantovane262.

Nel 1789, perlustrando la linea di Stato di sua pertinenza, il deputato ai confini di Borghetto vide il termine principale n. 15 piegato e inclinato a causa «delle copiose nevi e ghiacci dello scorso inverno» che avevano «depresso il terreno». E scorse anche lavoranti mantovani scavare un fosso che prendeva acqua dal Mincio, in sito tutto veneto, opera che giudicò «non permissibile». Il podestà inviò sul posto il capace ingegner Avesani. Ebbene quel fosso s’immetteva «in terreni boschivi ch’erano della comunità della Volta», ridotti allora in proprietà privata e posseduti da un certo Bonomo mantovano «il qual intraprese l’accennato cavamento con molto dispendio per la qualità molto ingrata del suolo». Quel deputato scoprì una ventina di lavoratori che stavano dando «l’ultima mano all’opera» e «vari altri che svegravano li boschi per sottoporre que’ terreni a

261

ASV, PSCC, b. 58, relazione Giovanni Bisagni e Ignazio Avesani, 20 settembre 1788. E Avesani, del 22 settembre.

262

Sulla geologia della zona del Garda vedi da ultimo D. Zampieri, Le origini della conca benacense, in Sauro, Il lago

irrigazione»263. L’anno dopo, nel 1790, tale Pietro Paolo Bonomi chiese di estrarre mezzo quadretto d’acqua dal Mincio, voleva irrigare alcuni fondi a Volta dove mancavano i prati per alimentare il bestiame da lavoro, e voleva farlo servendosi di una ruota idraulica a cassette che avrebbe sollevato l’acqua dal fiume per scaricarla nella condotta. Si trattava però proprio del tronco d’alveo assegnato all’uso di pesca dei veronesi; poi, quell’opera poteva urtare altri «delicati riguardi confinari», suscitando nuovi reclami. Spesso, «gl’interessi privati e l’abuso continuo che si fa della indulgente tolleranza de’ Principi somministrano di frequente troppa occupazione e troppe spese» e perciò era meglio negare la licenza d’uso264.

Nel 1789, i fondi veneti presso il fosso Baldone rimanevano ancora in uno stato infelice a causa del rigurgito delle acque di scolo, non essendosi eseguita nessun’opera di salvaguardia su quel segmento di linea. Anzi, ora «quel tratto interrito» di pertiche veronesi 54 (m. 110) serviva da riparo ai coltivi mantovani, anche perché sulla collina non si erano erette «le roste prescritte in pescaia di sassi». Quella zona franosa era tutta in territorio veneto ed era costeggiata da proprietà di una nobildonna veronese da un lato e da quelle di un suddito mantovano abitante in Volta, ma con beni in Veneto, dall’altro265. I ritardi erano causati dal disaccordo su chi dovesse sostenere le spese. Secondo l’ingegner Avesani la costruzione delle roste sul monte Oliveto difendeva anche il fosso Baldone e perciò a concorrere alle spese dovevano essere tutti i frontisti. Invece, per il suo collega imperiale, essendo tutte le ghiaie in territorio veronese, e in qualche distanza dal fosso, non riteneva equo far pagare i lavori anche ai mantovani266.

Finalmente, nel 1792, si trovò un accordo. I lavori di erezione delle roste sul monte Oliveto sarebbero stati a carico dei proprietari veronesi, mentre lo scavo del fosso sarebbe stato compito di tutti i frontisti. Era ora difficile opporsi all’esecuzione delle opere che dovevano dare sollievo ai campi danneggiati dai rigurgiti d’acqua, ma ci vollero comunque altri due anni perché si costruissero le tre roste di muro secco e si potesse provvedere «al cavamento del fosso Baldone», dopo più di tre lustri di contese267.

263

ASV, PSCC, b. 58, fascicolo n. 4 Tartaro 1789. Relazione Avesani, 26 febbraio 1789 (1788 m. v.) e disegno n. 58/2. L’ingegnere consigliò di costruire una rosta sulla riva veneta del fosso confinario così «che intercluda la via al condotto dell’acqua», suggerimento accolto con parte 9 maggio 1789.

264

Id., scrittura Nani - Vallaresso, 27 agosto 1792.

265

ASV, PSCC, b. 39, lettera del podestà di Verona Mussati, 28 novembre 1789. La contessa Teresa Montanari Morati Serego d’Alighieri fece scavare il fosso nelle sue proprietà sul monte Oliveto, ma esistevano ancora impedimenti che rendevano inutile ripulire il fosso Baldone. Il proprietario mantovano era tale Benvenuto Bianchera.

266

Id., lettera del podestà Mussati, 25 settembre 1789. Allega la relazione degli ingegneri Avesani e Masetti di Mantova.

267

Id., lettera del podestà Mussati, 11 giugno 1794 con allegato il disegno del perito Avesani, ASV, PSCC, n. 39/ 3 dove vengono ben segnate le proprietà Montanari e Bianchera sul monte Oliveto, le tre roste, i termini di cava da piantarsi di nuovo tra il n.12 e il n.13, il fosso Baldone e la strada Cavallera. Così anche oggi si chiama la strada che conduce da quei siti al Borghetto.

Era incessante la ricerca di vantaggi personali a scapito dell’interesse pubblico. Così un tale Francesco Tosi mantovano, per irrigare un suo piccolo prato, aveva costruito delle roste a danno dei proprietari dei luoghi superiori. Poi, si trovò «guasta e resa pericolosa» la strada Cavallera, tanto sul lato veneto che da quello imperiale, perché i frontisti «si sono inoltrati coll’escavazione dei fossi, così sotto la strada che alcune porzioni della medesima sono sempre intaccate». La Commissione ordinò ai deputati ai confini di Volta, Cavriana e Monzambano di far ridurre la Cavallera «alla originaria larghezza di piedi 14 veronesi [m. 29 circa]» e di otturare i fossi abusivi «piantando delle paline al centro di essi»268. Ma nonostante la loro vigilanza, la linea territoriale continuava a essere considerata come un qualcosa di violabile e che aveva ben poco di sacro.

Nel 1792, non fu grave l’infrazione alle regole confinarie praticata da un tale Francesco Cresson che, infatti, fu solo ammonito, ma significativa. Egli era di Borghetto veneto, era proprietario di un fondo nel Mantovano ed era nel contempo «lavorente nel veronese» di un altro appezzamento, coltivi fra loro adiacenti ma separati dal fosso della linea di Stato. Lui scavò il fosso di confine, gettò regolarmente la terra metà da un lato, metà dall’altro, tanto erano tutti terreni condotti da lui, ma non si preoccupò di avvertire i deputati dei villaggi limitrofi che avevano l’obbligo di assistere a quelle operazioni di scavo, come voleva il solenne Trattato269.

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