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Una disputa del 1723 per l’uso delle acque fra gli Emilei e i Donà

IV. UN CONFINE IN PIANURA TRA MINCIO E TIONE

2. Una disputa del 1723 per l’uso delle acque fra gli Emilei e i Donà

Ancor oggi, le carte dei consorzi di bonifica individuano un fosso chiamato Angoro che si origina in una zona paludosa del comune di Villimpenta per gettarsi nel Cavo Molinella che delimita i territori dei comuni, appunto, di Villimpenta e di Gazzo Veronese. Non vi è dubbio che questo canale sia l’erede del condotto Anguora, in apparenza modesto, ma, nel 1723, causa di una vertenza fra i nobili veneti Donà e i conti veronesi Emilei252. L’episodio è d’interesse perché i conti veronesi riuscirono a spuntarla sui patrizi veneziani, grazie alla possibilità di sfruttare a proprio vantaggio l’ambiguità della loro posizione, nobili veronesi sì, ma con ampie tenute di qua e di là del confine.

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ASV, PSCC, disegno n. 32/8. Secondo Vivanti, op. cit., p. 166, e p. 183, a Villimpenta, di un perticato di 22.125 (ettari 1.327) quattro ditte ne detenevano il 62% e una di queste era intestata ai conti Emilei per un totale di ettari 480.

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Il fosso detto allora Anguora, nel 1756, fu indicato come termine territoriale, posto fra i cippi n. 83 e n. 84. Vedi ASV, PSCC, disegno n. 32/8 e la carta Pianura veronese cit.

E quella famiglia titolata approfittò di una linea territoriale che nel 1723 non era ancora condivisa e che aveva un andamento incerto, legato al capriccioso fluire dell’acqua dei fossi.

Dunque, in quell’anno, il podestà di Verona, Daniele Dolfin, relazionò al Senato sui fatti accaduti lungo il fosso Angora. Un gruppo di mantovani, probabilmente membri delle «cernide» di Villimpenta uniti ad alcuni soldati, avevano varcato il confine e chiuso con la forza una paratoia dei nobili veneti Antonio e Zuanne Donà, riducendola praticamente ad argine. Era una palese violazione territoriale. Il fattore dei fratelli veneziani sostenne che «l’intiero alveo del condotto Angora ricavato con le acque del Tione» era sempre stato «in quieto e pacifico possesso di detti gentiluomini». Quelle acque furono sempre usate per coltivare a risaia i loro campi di Albaria253 senza che mai «gli esteri mantovani vi abbiano fatto pretesa». Infatti, i suoi padroni diedero sempre in affitto «come beni di loro particolare ragione» le «pesche, legne, canna e posta da caccia» sia dell’Angora che della valle «di là del medesimo», ampia campi 60 (ettari 18). Dopo lunghi anni di pacifico possesso, la quiete venne meno quando il conte Massimiliano Emilei e i suoi fratelli presero in affitto dai conti mantovani Nuvolara «delli terreni di là del condotto Angora intitolati li pradi mantoani confinanti con Ca’ Donado» e li ridussero «in gran parte a risara», irrigandoli «con delle acque che sono sempre state solite e dovrebbero capitare alla portella di Ca’ Donado». Prima dell’arrivo degli Emilei e dei loro uomini quei terreni «mai erano stati fatti a risara, ma tenuti parte vallivi, parte prativi e parte boschivi senza acqua niuna di sorte»254.

Dalla testimonianza del fattore dei patrizi Donà, si scoprì che i conti Emilei avevano una sorella in Mantova, vedova di un marchese, «dama di gran figura e che ha l’accesso alla corte di quel principe governatore». Poi, avevano alle loro dipendenze come segretario tale Giuseppe Pivo dottor di legge e ben addentro a quella città. Quindi, erano imparentati con la gran nobiltà di Mantova dove sovente si recavano. A Villimpenta, spadroneggiavano. Il commissario capo villaggio di quel borgo fortificato, defunto da appena due mesi, era un loro confidente e «lo tenevano alla loro tavola». Poi, possedendo «gran poderi in Villimpenta, con palazzo signorile, quei popoli in maggior parte sono loro dipendenti, affittuari, lavorenti, brazzenti e livellari». Protagonisti di quella «corsa alla risaia» che interessò molte casate veronesi, gli Emilei erano praticamente i padroni di quel borgo di confine e perciò continuarono quel processo di riduzione delle valli da incolto produttivo, buono per la

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Oggi la località Albaria è divisa fra i comuni di Villimpenta (dove vi è una via Alberia) e di Gazzo Veronese, dove esiste anche una via Albaria.

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Il processo è in ASV, PSCC, b. 32. Gli Emilei erano gli unici possessori di terreni mantovani con cui i Donà confinavano. Per irrigare quei prati fecero scavare una nuova seriola da un fosso detto Gambino allontanando le acque del condotto Angoro dalle risaie dei Donà, danneggiandoli gravemente, come denunciò il loro fattore Lorenzo Bassan di Concamarise.

caccia, per la pesca o per la raccolta delle canne, a redditizie aziende di tipo capitalistico, dedite alla risaia a vicenda, «tra le più avanzate del Settecento italiano»255.

I conti Emilei detenevano terreni anche nel Veneto, come attestarono gli estimi del 1745: un Massimiliano Emilei q. Pietro, forse lo stesso in lite coi Donà quattro lustri prima, fu registrato sotto il fuoco di Santa Cecilia, forte tra l’altro di sei possessioni a Fattole, sito non lontano da Albaria, «in parte garbe e in parte vignate»256, che gli rendevano la bella somma di mille ducati. Nel 1653, le stesse possessioni al suo avo avevano fruttato ducati 1.500; dunque, nell’arco di tempo intercorso fra le due rilevazioni estimali, il fuoco di Santa Cecilia sembrerebbe aver perso reddito, ma le campagne di Villimpenta, ovviamente, non erano computate, straniere, non potevano pagare imposte al Fisco veneto. Al di là di quello che risulta dagli estimi, questo fuoco della casata Emilei si era arricchito e di molto grazie al riso.

La disputa sorta nel 1723 e che aveva portato a una violazione giurisdizionale era in sé banale, si trattava di contese per lo sfruttamento di risorse idriche come se ne verificarono tante. Sette anni prima, gli Emilei avevano preso in affitto un prato e, per irrigarlo, avevano fatto chiudere con la forza un sostegno sulla riva dell’Angora, dirottando l’acqua a loro vantaggio e, di conseguenza, anche delle sottostanti risaie di Ostiglia di proprietà allora del conte Zanardi di Brescia, del marchese Cavriani di Mantova e dei nobili Bevilacqua di Ferrara. Perciò, a Mantova si aveva tutto l’interesse a sostenere le pretese di quella casata che si muoveva con disinvoltura fra i due Stati. Poi, secondo i testi, quei prati furono ridotti a risaia. Le proteste dei danneggiati, i Donà, furono inevitabili e per farvi fronte con successo il conte Emilei sollevò la questione della territorialità del condotto Angora, a suo avviso, mantovano e non veneto. Il podestà di Verona investì della questione i Consultori in Jure che però non seppero esprimersi sulla giurisdizione di quel condotto; in quegli anni, l’ufficio della Camera dei Confini non era ancora quell’efficace strumento a tutela della sovranità veneta, come sarebbe divenuto nel secondo Settecento.

Al di là del conflitto fra due proprietari di risaie, questa testimonianza è importante per capire come il confine territoriale fosse servito di pretesto a un nobile suddito veneto ma con interessi nel Mantovano, per acquisire posizioni di vantaggio. Dunque, il passaggio del limite di Stato su terreni potenzialmente fertili come le valli della bassa aumentava i conflitti, più gravi e pericolosi perché

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L’espressione è di G. Borelli, Città e campagna in rapporto all’Adige in epoca veneta, in Una città e il suo fiume, a cura dello stesso, Verona, 1977, p. 312. Poi, Vivanti, op. cit., p. 180. Il lusinghiero giudizio sulle aziende risicole veronesi è di Berengo, Patriziato e nobiltà cit., p. 191.

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Le possessioni degli Emilei di Fattole erano cinque «a lavorente» e una a conduzione diretta; poi avevano due peschiere sopra il Tione e un’altra a Moratica. Altre due pezze di terra a Fattole venivano affittate per ducati 10. Poi, detenevano due possessioni a Isola della Scala acquistate nel 1711 e nel 1712 e affittate per ducati 725; e un bosco a Volargne per ducati 30. Nel 1740, il conte Massimiliano dichiarò a isola della Scala campi 185 (ettari 55) di cui 120 a risaia, e una pila da riso a due ruote; Borelli, Un patriziato cit., pp. 136-137. Chiappa, Isola della Scala cit., p. 241; qui anche A. Silvestroni Corte Emilei in località Bastia, pp. 245-247.

non coinvolgevano umili sudditi, come in montagna, ma grandi casate in grado di influenzare i rispettivi Governi e, se non bastava, di pagare i sabotatori. Qui non era in gioco lo sfruttamento di pascoli alpini o il diritto di legnatico, ma la possibilità di avviare importanti aziende a conduzione capitalistica.

I testi citati dal fattore dei Donà erano ovviamente tutti a favore dei nobili veneti. Le loro dichiarazioni danno la chiara sensazione di un confine che non separava affatto quelle popolazioni che del resto s’intendevano benissimo. Infatti, tale Plinio Roveda era sì un suddito imperiale ma aveva passato lungo tempo della sua vita nella veneta Albaria; egli confermò che i Donà, già nel 1701, erano pieni titolari di quel condotto d’acqua.

Fu però tale Francesco Melchioro q. Antonio a dare la testimonianza più interessante: erano già 14 anni che egli andava ogni anno a lavorare nelle risaie di Ca’ Donado in Albaria e aveva sempre inteso dire che «l’intiero alveo dell’Angora con le rive dell’una e dell’altra parte e delle acque del fiume Tione che in quelle capitano, sono dei Donà sempre usate per far a risara porzione de’ loro campi». Si ricordava benissimo che la possessione detta «prati mantovani» era a quel tempo, appunto, una semplice prateria, e fu lui a datare a sette anni prima, facendola così risalire al 1716, la trasformazione di quell’incolto in risaia, grazie alle acque del fiume Tione, introdotte in quei campi attraverso la portella usurpata ai Donà. Egli, ancora, confermò le prepotenze degli esteri, anzi, abitando lui all’epoca dei fatti nella villa di Nosedole (frazione di Roncoferraro), fu uno di quelli che parteciparono alle operazioni di sabotaggio. Dunque, quel teste abitava in un villaggio mantovano, ma, ogni anno, nella stagione delle irrigazioni si trasferiva ad Albaria, poche centinaia di metri oltre il confine, anche se ci tenne a precisare che da appena quindici giorni aveva scelto di stabilirsi a Legnago. Fu proprio lui a servire i conti Emilei come guastatore e spezzare le due colonne del sostegno mobile dell’Angora che evidentemente conosceva bene. Invece, a otturare la bocca, furono in tutto sedici, tutti abitanti della villa di Nosedole, otto fra soldati e cernide e otto guastatori. Altrettanti villici di rinforzo erano venuti dalla vicina Villimpenta, probabilmente, dei dipendenti di quei conti, per così dire, mezzo veronesi e mezzo mantovani257.

Dopo queste deposizioni il podestà inviò sul posto l’ingegner Saverio Avesani. Egli constatò che quei patrizi veneziani avevano appena fatto ricostruire un sostegno di legno, poi abbattuto dai mantovani, che serviva a bloccare le acque dell’Angora per deviarle verso le loro tenute assieme a quelle degli scoli delle risaie di Villimpenta. Ora, in marzo, i mantovani avevano di nuovo distrutto

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Un altro teste era originario di Villimpenta, Domenico Paride di anni 50, da molti anni abitante in Veneto e da tre anni al servizio dei Donà. Il teste Giacomo Squinzan di Nogara sostenne che i guastatori furono pagati «dai 18 ai 20 soldi al dì» a testa, ma non seppe dire da chi. Le distruzioni fatte dai tedeschi ebbero inoltre come testimone oculare tale Girolamo Ferniani q. Marco che per nove anni fu il fattore di Ca’ Donà, nei beni in Albaria, sotto le pertinenze di San Pietro in Valle.

le opere fatte eseguire dall’agente dei Donà e avevano riotturato la bocca di pietra; cosi, secondo l’ingegnere veronese, «impedite le due vie solite», le acque prendevano un altro canale detto Gambin e, dopo un corso di circa pertiche 1.000 (m. 2.040), fluivano nel condotto Molinella a beneficio ancora delle risaie inferiori di Ostiglia258.

Nell’aprile del 1723, ci fu una seconda incursione di guastatori mantovani a danno del sostegno dei Donà e il fattore di nuovo inviò dei testi a Verona per denunciare il reato di violata giurisdizione. Uno di questi, Batta Sciotto «tutto che tenga moglie e figlioli in un casotto di Ca’ Donado, tuttavia, essendo la moglie di lui da Villimpenta, per lo più si trattiene nel mantovano», condizione che lo rendeva ben informato sui fatti. Non servirebbe rimarcare che le sue vicende famigliari sono un’ulteriore conferma dei continui trasferimenti che avvenivano senza difficoltà alcuna di qua e di là del confine259. Dunque, di nuovo, il fattore spiegò al pubblico rappresentante come funzionava quel complicato groviglio di canali. In pratica, i suoi padroni si servivano dell’acqua del Tione che «si divide per metà ad uso delle risare dell’abazia di San Zeno e dei conti Emigli, le scoladizze dei quali conti Emilei devono capitare nell’alveo dell’Angora di ragione dei miei padroni Donadi». Questi si servivano anche del condotto Gambino, «che è un fosso assai capace che raccoglie le acque scoladizze di Villimpenta. Ma ora, rotto il ponte, non possono servirsene». Quelle acque irrigavano circa cento campi (ettari 30) che si destinavano alla semina del riso, «tutti vallivi né possono servire ad altro». Dopo il sabotaggio, le acque andavano definitivamente a vantaggio dei conti Emilei che avevano le loro risaie in faccia alla seriola otturata. I conti Emilei sfruttarono la loro doppia concessione, una ottenuta dal magistrato alle acque di Mantova e una dai veneziani Provveditori ai beni inculti grazie alla quale avevano ridotto a risaia le loro tenute di Fattole già prima della disputa intrapresa con i Donà, destinazione d’uso che nelle loro condizioni d’estimo non fu dichiarata esplicitamente, ma che sola poteva giustificare rendite così elevate, sopra i mille ducati. A Venezia probabilmente non si rinvennero elementi di prova decisivi a favore della territorialità veneta di tutto l’alveo del condotto Angora, compresa la riva destra, e si lasciò trovare una soluzione di fatto ai due contendenti che avvantaggiò chi era in posizione di forza260.

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L’ingegner Saverio Avesani eseguì un disegno d’avviso datato 2 maggio 1723, presente il cancelliere prefettizio e Lorenzo Bassan fattore di Ca’ Donà. ASV, PSCC, disegno n. 32/1. Anche Avesani citò come titolari delle sottostanti risaie ostigliesi i nobili Zanardi e Cavriani ma al posto dei ferraresi Bevilacqua indicò come nuovi proprietari i marchesi Strozzi e Sordi, anch’essi mantovani.

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Lettera del capitanio di Verona, 8 maggio 1723. L’episodio avvenuto il 9 aprile fu comunicato al Senato con lettera, 13 aprile.

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Nel 1751, i conti Emilei avevano quattro risaie presso l’Angora per un totale di campi 198 (circa ettari 60) mentre i Donà solo due in tutto di campi 131 (ettari 40 circa). Dati tratti da M. Valentini, Un caso di trasformazione territoriale

nel veneto del ‘700: il Tartaro e la risaia, in Governo ed uso delle acque nella Bassa veronese. Contributi e ricerche (XIII – XX secolo), a cura di G. Borelli, Vago di Lavagno, 1984, pp. 133-174, alle pp. 172-173.

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