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IV. UN CONFINE IN PIANURA TRA MINCIO E TIONE

4. I pascoli di Valeggio e la strada Levata

Separando Valeggio da Pozzolo, la linea territoriale lambiva i prati posseduti da quel comune veronese che erano «beni del comun sono particolari», ossia «beni comuni», per usare il linguaggio giuridico dell’epoca, così da distinguerli dai «beni comunali» che invece erano di eminente dominio della Repubblica270. Si trattava di una campagna detta Prevaldesca di 745 (ettari 224) di superficie, «parte prativa e parte arativa e parte garba», confinante con il Mantovano271; ed essendo sopra la linea delle risorgive, per non restare arida, era irrigata da una seriola presa dal Mincio.

A differenza di Valeggio, i prati di Pozzolo erano stati alienati ai privati che, nel 1788, si lamentarono con il commissario austriaco perché gli scoli degli irrigui veneti danneggiavano i loro coltivi. Le questione fu portata all’attenzione della Commissione austro veneta che propose lo scavo di un fosso collettore delle «colaticcie». Però, era un’operazione costosa e, l’anno dopo, ancora

268

Id., parte, 31 agosto 1793. Si dovevano erigere due nuovi termini di cava ai nn. 13 e 14 e si ordinò ancora ai proprietari di costruire le tre roste sul monte Oliveto.

269

Id., episodio descritto nel giornale del 1792 al punto n. 7.

270

Si rimanda a Barbacetto, op. cit., pp. 191-194.

271

ASV, Provveditori sopra Beni Comunali, serie Processi, b. 354, dichiarazione della comunità di Valeggio del 20 luglio 1627. La comunità poi deteneva un altro appezzamento di campi 260 (ettari 78) arativi e parte prativi. A prova della loro proprietà, i deputati produssero un’investitura del conte di Brà del 1438. Infatti Valeggio non compare nel catastico dei beni comunali del 1647, id., reg. 281. Oggi esiste una roggia Prevaldesca gestita dall’attuale Consorzio di Bonifica.

incompiuta. Infatti, per deputati di Valeggio era meglio aspettare l’autunno prima di dare corso all’opera, così da evitare danni ai loro prati. Nel frattempo, al posto del fosso eressero un più economico «riparo di terra contro le cosiddette marogne di confine», comunque efficace, come avevano testimoniato gli stessi deputati di Pozzolo presenti al sopralluogo. Tuttavia, anche se i costi erano elevati, non si poté ulteriormente differire lo scavo del fosso di cinta, lo pretendeva il governo di Milano272.

Le strade erano continuo oggetto di attenzione da parte della Commissione, poiché numerosi erano gli intacchi apportati dai conduttori delle aziende limitrofe. L’erosione delle strade era un usurpo molto frequente nelle società di antico regime, quando la loro manutenzione era affidata alle comunità di villaggio e la sorveglianza scarsa, ma era intollerabile se effettuata ai limiti dello Stato. Nel 1788, in pessime condizioni era la «strada Levata», la vecchia Postumia. In tutto il suo tronco fu ritrovato «che li bovari con l’aratro da una e dall’altra parte si avanzano a coltivare il fondo che non si dovrebbe». Per quei continui usurpi, la carreggiata si era notevolmente ristretta e per mantenerla nella debita larghezza, si ordinò «la formazione di fossi laterali»273.

La vecchia Postumia non era la sola strada a subire erosioni. L’anno dopo, anche quella «militare» subì intacchi. I lavoranti delle aziende limitrofe l’avevano così ristretta «con nuovi fossi» da ostacolare il libero passaggio delle truppe. Perciò, s’intimò ai deputati dei villaggi frontalieri di eseguire gli opportuni lavori di ripristino a spese dei contravventori.

Anche sulla strada detta Malavesina, si fecero degli intacchi con l’aratro e anche qui inevitabile fu l’ordine impartito ai deputati dei rispettivi comuni di un nuovo scavo dei fossi laterali. Certo, se erano così rovinate strade sottoposte a una regolare ispezione biennale, le condizioni di quelle interne dovevano essere ben peggiori, ostacolo non ultimo a un pieno sviluppo dell’economia di queste contrade.

Spesso, si faticava a far eseguire i lavori ordinati dalla Commissione mista durante l’ispezione ordinaria; ad esempio, solo sul versante veronese della strada Malavesina si erano effettivamente scavati «i fossi prescritti». Lungo la strada che oggi transita per il borgo Malavicina, nel 1790, per scongiurare definitivamente gli intacchi, si obbligarono i comuni all’impianto di una siepe viva parallela a quella più antica e da essa distante piedi veronesi 14 (m. 4,76) «ad oggetto che la linea di confine rimanga stabilmente marcata». Si cercò di usare lo stesso espediente ai lati della strada Levata, per evitarle gli allagamenti, fino a Villafranca; le «dette siepi dovranno piantarsi al piede della scarpa ritenuta la larghezza attuale di detta strada in piedi veronesi 20 [metri 6,80]» marcata anche dalla posizione dei termini dell’uno e dell’altro dominio.

272

Vedi ASV, PSCC, b. 39, giornale della visita del 1794, punto n. 9.

273

ASV, PSCC, b. 39, relazione congiunta 16 novembre 1788. I fossi dovevano essere larghi once 18 (metri 0,51) e profondi once 6 (metri 0,17).

Nel 1795, molti dei proprietari limitrofi alle strade Levata e Malavesina avevano provveduto all’impianto delle siepi lateralmente alle due strade e anche lungo quella detta «militare». Chi ancora non lo aveva fatto, accusò la stagione sfavorevole, osservando «che gli spini piantati dagli altri sono morti», ma, assieme alla primavera, l’anno dopo arrivarono anche i francesi274.

Le infrazioni portate dalla Commissione mista all’attenzione dei rispettivi sovrani, riguardavano la linea di Stato, mentre la repressione dei contrabbandi era di pertinenza di altre magistrature. Il confine tuttavia, convenzionalmente, lo si è detto, passava sulla mezzeria che però non era segnata a terra e ciò poteva dare adito ad incidenti. Ad esempio nel 1788, furono fermati dalla sbirraglia di Volta due viandanti partiti da Pelalocco con tre somarelli carichi di riso, perché sospettati di contrabbando. I due malcapitati dimostrarono la loro innocenza esibendo le bollette del dazio e così furono rilasciati, ma l’episodio coinvolse comunque la Camera dei confini perché occorreva appurare il punto esatto del fermo, sospettando che fosse accaduto nella parte di strada sotto giurisdizione veneta. In tal caso, quegli sbirri andavano perseguiti per violata confinazione. Inviato sul posto, l’ingegner Avesani appurò esservi nella carreggiata mantovana «una parte di strada fangosa» che costringeva a transitare tutti per la parte veneta. Così si poté facilmente calcolare il sito del fermo che si trovava a soli piedi 4 dal fosso veronese (metri 1,36) dunque in territorio veneto e perciò occorreva chiedere soddisfazione al commissario mantovano per il reo comportamento di quegli sbirri275.

5. Due proprietà di confine: le tenute Spolverini e Giovannelli.

Al Tormine, abbandonate le strade, il confine riprendeva a essere segnato dai fossati e a costeggiare grandi tenute o «stabili» una delle quali dei nobili veronesi Spolverini, con proprietà anche nel territorio mantovano di Roverbella, motivo per cui furono chiamati in causa nel 1788. I loro vicini avevano piantato pioppi «ai piedi della scarpa del fondo del fosso divisorio», alterando così la linea territoriale, ma «del pari anche il marchese Spolverini nel Mantovano ha eseguito un impianto di pioppelle»276.

Come altri suoi concittadini, anche il marchese Spolverini277 aveva continuato ad acquistare fondi all’estero presso la linea di confine. Nel 1791, ricevette dal conte Giobatta Allegri tre pezze di

274

ASV, PSCC, b. 39, lettera del podestà di Verona,11 giugno 1794.

275

Id., relazione di Ignazio Avesani, 23 maggio 1788 e ASV, PSCC disegno n. 39/1.

276

Id., giornale della visita del 1788, punto n. 5. I proprietari erano i fratelli veronesi Lizzari.L’anno dopo, gli ingegneri Masetti e Avesani appurarono che i due proprietari«avevano fatto rimuovere a debita distanza i piantamenti» e

«avevano fatto scavare il fosso medesimo nelle loro fronti», Id., Giornale, 10 settembre 1789, punto n. 9.

277

Si trattava esattamente del marchese Antonio Spolverini dal Verme q. Giorgio. Nel 1751, Properzio Alberti aveva dato in locazione perpetua quegli appezzamenti ai fratelli Acquaroli; si trattava di «una pezza de terra arboriva dietro rivali e con un vignolo giovine», un’altra «arativa arboriva dietro rivali con vignolo giovane» e infine la terza «arativa

terra di biolche 26 circa (ettari 8) per lire 848. Anche il conte Allegri era membro di una famiglia nobile veronese, così come lo era quella di Properzio Alberti titolare di quegli appezzamenti nel 1751, situati nelle pertinenze di «Castelbelforte delli Due Castelli», tenuti allora a coltura promiscua e con «casa a due piani e pozzo presso la strada vicinale». Il comune di Castelbelforte vide così una notevole penetrazione fondiaria dei nobili veronesi oltre ai già esistenti marchesi Canossa278. In effetti, nel 1745, Properzio Alberti non aveva grandi ricchezze nel Veronese, ma l’unica sua possessione che gli rendeva ducati 180 la deteneva a Roncolevà (frazione di Trevenzuolo), limitrofa al confine di Stato279. Dunque era uno dei molti titolati sudditi veneti ad avere possessioni di qua e di là del confine. E lo stesso si può dire per gli Allegri. Il loro fuoco nel 1682 era intestato proprio a un Gio. Batta Allegri della contrada di San Vidal che aveva a Trevenzuolo una tenuta di 350 campi (ettari 105) in parte arativi e poi altri 36 (ettari 11 circa) a «risara zappadora» e 26 (circa ettari 8) definiti paludosi e stimati in tutto ducati 800280.

Dunque, nel 1791, la proprietà dove gli agenti mantovani degli Spolverini avevano piantato le «pioppelle» era adiacente a un’altra loro possessione, però nel Veronese, e per facilitare il passaggio da una tenuta all’altra, i conduttori avevano costruito sul Fosso Rabbioso un «ponte composto di tre giopelle e di tre graticci». Se univa due aziende dello stesso titolare, quel manufatto però attraversava un confine di Stato e, dopo l’ispezione, gli ingegneri lo considerarono una «novità da non tollerarsi» e da rimuoversi subito per eliminare un pericoloso precedente. I marchesi Spolverini tentarono una qualche forma di opposizione, affermandone l’esistenza già all’epoca dei trattati, ma si obiettò che quel ponte, se non si demolisse, «favorirebbe troppo i contrabbandi». Resa partecipe della questione, la Camera veneziana dei confini suggerì di dissimulare ufficialmente il fatto, ma allo stesso tempo d’incaricare in via riservata il pubblico rappresentante di fare con prudenza «un conveniente cenno al signor marchese Spolverini, buon suddito di Vostra Serenità e di qualificata famiglia di Verona», perché provvedesse alla rimozione del ponte di graticci che difatti, nel 1794, non esisteva più281.

garba con pochi alberi» e la casa, in tutto biolche 46 (ettari 15 circa) per «l’annuo livello di doppie sette a uso di Mantova che fanno scudi 35 da lire 6 in moneta veronese» e due capponi. I conduttori avevano l’obbligo di seminare il quarantino, il proprietario di somministrare la metà del formentone per la semina. ASV, Senato. Corti, fz. 462.

278

I marchesi Canossa nel 1785 avevano nel comune di Castelbelforte terre per un perticato di 7.480 (ettari 449), la superficie censita del comune era di pertiche 32.692 (ettari 1.961), dunque detenevano il 22% della superficie fondiaria. Vivanti, op. cit., p. 184.

279

Borelli, Un patriziato cit., p. 51.

280

Id., pp. 58-59. Aveva beni anche a Cuzzano, Nogarole, Ravagnano, Roncà, Affi, Belfiore e Sommacampagna, oltre a beni in città, tuttavia era debitore di ducati 10.050 verso i nobili veneti Capello e i veronesi Buri. Nel 1745, la

possessione di Trevenzuolo di 410 campi e di ducati 980 di rendita era del conte Girolamo Allegri, id., p. 64.

281

ASV, PSCC, b. 39, La relazione congiunta degli ingegneri Avesani e Guardini del 23 agosto 1791 aveva avvertito del ponte; la scrittura Nani - Vallaresso è del 30 aprile 1793 e la parte del Senato che accoglie i loro suggerimenti è del

In effetti, le mappe esecutoriali del 1756 avevano indicato la famiglia Spolverini proprietaria di beni sia a Tormine veronese che a Roverbella mantovana ma la loro ricchezza fondiaria erano molto più vasta. Nel 1653, una possessione a Tormine di campi 70 (ettari 21) di cui 30 arativi che rendeva ducati 50, era solo una piccola parte delle proprietà di Francesco Spolverini, fuoco tra i più cospicui della famiglia per forza economica, possessione passata nel 1682 a Giacomo Spolverini, per poi scomparire nelle loro denunce del 1745, una dimenticanza più o meno voluta, poiché, lo si è detto, i marchesi Spolverini erano ben presenti fra i proprietari riportati nelle mappe esecutoriali del 1756282. Anche una mappa del 1772, che descrive il corso del Mincio da Peschiera a Valeggio, indica vaste proprietà e due mulini presso Salionze di un marchese Spolverini. Infine, anche se non è tra i detentori di fondi adiacenti al confine, non si può fare a meno di rammentare che Giambattista Spolverini (1695-1763) fu l’autore della Riseide o La coltivazione del riso, «uno dei più fortunati e celebrati poemetti didascalici italiani»283.

Gli Spolverini furono tra le famiglie veronesi che per prime destinarono alla risicoltura le loro aziende, già a metà Cinquecento284. Nel Settecento, mentre Antonio Spolverini s’impossessava di beni nelle campagne estere, Baldassare si prodigava in quelle venete. Egli era già titolare di concessioni d’acqua prese dal sistema Tartaro che i suoi «autori» avevano ottenuto per irrigare i fondi di Salizzole285; ed era pure tra gli eredi dell’estinta famiglia Cosmi, proprietaria anch’essa d’una concessione d’acqua e di un’ampia tenuta. Di quell’eredità, a Baldassarre erano toccati once 8 d’acqua e campi 103 (ettari 31). Chiedeva di poter modificare le concessioni per praticare una corretta risicoltura, di cui dava prova di essere esperto. Infatti, nella scrittura in causa affermò che «la risara a coltura anche nei campi ubertosi e di buon fondo suol farsi solamente ogni tre anni, sicché per far una risara di campi 50 conviene aver la tenuta di campi 150». Insomma era alla ricerca di una corretta rotazione delle colture. I campi che aveva «non possono essere sottoposti a interzadura» e perciò era costretto a far praticare dai suoi agenti a quei fondi «l’inquartadura, per

31 agosto 1793. Vedi anche ASV, Senato. Corti, fz. 462. Notizia della demolizione del ponte in ASV, PSCC, b. 39, Giornale della visita 1794, punto n. 17.

282

Notizie sulle condizioni d’estimo degli Spolverini in Borelli, op. cit., pp. 338-339. Francesco Spolverini era proprietario nel Veronese di campi 1.370 (ettari 411) che gli rendevano ducati 2.590. A Vigasio, nel 1682, un altro fuoco Spolverini (Gentile) aveva già ridotto a risaia delle possessioni che rendevano ducati 500, id., p. 338.

283

Vedi Berengo, op. cit., p. 191. La mappa è quella dell’Archivio di Stato di Verona, Archivio Serenelli, b. 51, n. 606, edita in Il Mincio e il suo territorio, a cura di E. Turri, Verona, 1993, inserta tra le pp. 79-80.

284

La loro azienda principale era a Vo di Rua presso Vigasio dove avevano anche la loro casa dominicale, vedi B. Chiappa, Gli Spolverini a Vo di Rua e Carbonara, in Vigasio. Vicende di una comunità e di un territorio, a cura di P. Brugnoli e B. Chiappa, Vigasio, 2005., pp. 144-147.

285

Forse Baldassarre è un discendente di Francesco Spolverini che aveva denunciato nel 1653 una possessione di campi 150 (ettari 45), di cui 30 arativi e 20 prativi, appunto a Salizzole che rendeva ducati 300(Borelli, Un patriziato cit., p. 339). La stessa possessione che nel 1682 Giacomo Spolverini affittava e che aveva ridotto tutta a coltura essendo ora di campi 130 arativi e 20 prativi.

essere sterili e sabbionivi». Approfittando della nuova eredità, chiedeva di servirsi della bocca già Cosmi per rendere più razionale la rotazione dei suoi coltivi286.

Tra le proprietà Spolverini del Tormine e dei Due Castelli, presso un altro fosso confinale, detto Lateson, che si univa al Rabbioso (ancor oggi confine tra Veneto e Lombardia) una grande «colombara» indicava la presenza di un’altra azienda a conduzione capitalistica, proprietà dei Giovannelli, nobili veneti ma di origine bergamasca (anche oggi esiste il sito Colombare nel comune di Nogarole Rocca). Come i veronesi Spolverini, anche i nuovi patrizi continuarono a investire nella loro grande tenuta. Infatti, nel 1792, durante la visita biennale, la commissione mista ordinò al loro mugnaio di levare dal fosso «un’arbitraria ponticella».

Gli interventi di miglioria non si fermarono perché in seguito i Giovannelli chiesero e ottennero di costruire una «banchina di onizi» sulla loro riva287. Ne approfittò il loro vicino mantovano che supplicò di «fare una novella piantagione di alberi dolci e di onici sopra la riva del fosso divisorio di confine», proprio in faccia alle Colombare, opera però respinta dal Senato che temeva abusi288. Per ripicca, il governo di Milano avrebbe vietato al suo suddito le nuove opere purché fosse messo «in una eguale condizione anche il nobile veneto Giovannelli, interamente sradicando il già concesso ed eseguito grandioso impianto». La richiesta era sorprendente, un mero puntiglio, poiché di fatto smentiva una decisone già presa e favorevole al nobile veneto. Per evitare a quella famiglia un danno così rilevante, si cercò di prendere tempo289.

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