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L’adozione della linea dei possessi come limite territoriale produsse proprio sui monti Lessini un andamento del confine contorto se non bizzarro, almeno in certi tratti. Così, nel 1766, sorsero incomprensioni lungo il tratto compreso fra i termini n. 101 e n. 135, vicino alle malghe della Pialda. La causa era l’articolo IV del trattato del 1753 che aveva lasciato alla Chiesa del Borghetto l’uso della quarta parte della montagna detta oggi Pialda alta. Essendo sterile quel sito, gli imperiali se ne lamentarono e, in seguito, si accordò loro l’uso della terza parte di quel monte109. Qualche tempo dopo la comunità austriaca del Borghetto fu accusata di usurpare una quota della Pialda Alta, proprietà dei fratelli Curtoni, nobili veronesi110; per loro, a seguito di quelle concessioni, gli esteri si erano impadroniti della parte migliore della montagna anche lì dov’era una malga già acquistata nel 1617 da un loro avo111. Il Senato dichiarò irricevibili le loro istanze a tanta distanza di tempo; tuttavia, insistendo, quei nobili veronesi proprietari di malghe sui Lessini, si lagn

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Relazione dell’ingegner Carboni, 25 novembre 1792, allegato alla parte del Senato 31 agosto 1793, in ASV, Senato.

invece quelle

a ricevuto una quota maggiore del quarto convenuto data la sterilità 3, che risiedeva nella contrada di San

Corti, fz. 462, con allegato anche il disegno. 109

Vedi Laiti-Bottegal, op. cit., p. 57. Essi però giudicano incomprensibile questo articolo redatto a loro dire da chi aveva scarsa conoscenza dei luoghi, nota 65 a p. 78. Mappe circostanziate di questo tratto confinale sono

redatte dagli ufficiali della prima dominazione austriaca, vedi von Zach, op. cit., tavv. VII.13 e VIII.13.

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ASV, PSCC, b. 34, relazione riservata del conte Rambaldi. il Senato rispose che era irricevibile il ricorso Curtoni a tanta distanza di tempo. Del resto, il Borghetto avev

dei siti, sostengono Laiti-Bottegal, op. cit., p. 103.

111

Si trattava di Giovan Pietro Curtoni , eletto nel Consiglio dei Dodici nel 165 Marco e che fu iscritto all’estimo con ducati 157. Chilese, op. cit., pp. 95 e 99.

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Il conduttore dei Curtoni era Giovanni Antonio Giacomuzzi e il pastore Cristian Bertoli abitante della «montagna Boldera» (montagna qui è sinonimo di malga). La denuncia fu presentata al conte Giusti il 4 settembre 1768. ASV,

La questione più spinosa sui Lessini riguardava una lite intentata dalla comunità di Ala e dal giusdicente dei Vicariati uniti contro l’Ospedale della Pietà di Verona, titolare della malga detta appunto della Pietà. Erano «animosità fatali che non lasciarono ancora del tutto di turbare la quiete di quelle confinanti popolazioni», essendo la malga della Pietà circondata su tre lati dal territorio di Ala, bizzarria dovuta appunto alla scelta di un confine di Stato coincidente con quello dei possessi. Nel 1762, i deputati di quel Vicariato si offrirono di prendere la montagna in affitto per evitare disordini. Erano giunti a tanto perché disgustati dall’osteria aperta dai veneti in occasione di una festa patronale presso l’altra bettola del villaggio della Sega di Ala, con grave discapito di quell’oste. Per rappresaglia, gli esteri minacciarono di fare altrettanto sull’altro lato dei Lessini, ossia di aprire uno spaccio presso quello di Podesteria durante la fiera annuale di san Bartolomeo113.

Dietro queste beghe e ripicche, si nascondeva il vero motivo del contendere, il taglio dei boschi. La comunità di Ala pretendeva il rispetto di antiche consuetudini che le assegnavano un terzo delle legne raccolte sulla montagna Pealda, o il corrispettivo in denaro, e pretendevano che i conduttori della Pietà pagassero. Nel 1764, si presentò davanti alla Commissione impegnata nelle ispezioni anche il capitano di Avio. A nome dei conti di Castelbarco, chiese di obbligare i conduttori della Pietà a consegnare al suo signore quanto dovuto, in prodotti di malga, ancora una volta, facendo riferimento ad antiche consuetudini114. Tali istanze erano state presentate dagli esteri fin dal 1756, ma furono sempre respinte dal provveditore Ludovico Giusti, poiché, a suo dire, divenuta territorio veneto la malga della Pietà, cessava ogni diritto su di essa, e dei giusdicenti e della comunità di Ala115. Dunque, la linea dei possessi aveva attribuito alla Repubblica una montagna che prima era di giurisdizione imperiale. Tuttavia, la proprietà non era piena poiché la montagna della Pietà pagava tributi alla comunità di Ala e al giusdicente del Vicariato, diritti che il passaggio da una giurisdizione all’altra non poteva cancellare e che del resto erano garantiti dal Trattato stesso; dunque , quella del provveditore veronese, pareva una forzatura.

A Venezia, alla ricerca della quiete ai confini, si volevano evitare fastidiose molestie e così, nel 1768, fu ordinato al nuovo provveditore, il conte Francesco Giusti, di trovare soluzioni eque.

PSCC, b. 37. Nel 1788, la Pialda Alta era ancora dei nobili veronesi Curtoni, quando al loro conduttore Francesco Adamoli, fu intimato di demolire un riparo di laste che aveva fabbricato sopra la linea territoriale. Id., relazione del 1788. Nelle cartografia si trova la dicitura Pealda.

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ASV, PSCC, b. 34, relazione congiunta 1762; per calmare «le animosità», in via provvisoria, i due visitatori si limitarono a vietare l’erezione delle osterie.

114

Id., relazione congiunta della visita del 1764.

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Secondo il provveditore veneto, l’Ospedale ricompensava con un terzo delle legne colà raccolte la comunità di Ala in cambio delle custodie di quelle pertinenze. A suo dire, divenuta quella montagna veneta, cessavano sia i diritti di custodia, sia il «tributo di certa puina e butiro» preteso dai conti di Castelbarco, perché la montagna della Pietà non era più territorio dei Vicariati. Id., relazione privata. Tali istanze furono ripresentate da Ala e dal capitano di Avio nel 1766 ma il sostituto del defunto Lodovico Giusti, il conte Rambaldi era dello stesso parere del suo predecessore e di nuovo le rigettò.

Ancora una volta, come nei casi esaminati sul monte Baldo, si ricorse alla monetizzazione della contesa. Fatto inconsueto, ma che dimostra la stima che godeva anche tra gli esteri, il provveditore veneto maneggiò l’affare all’insaputa del suo collega austriaco, grazie a una «persona a me ben affetta e che aveva voce e credito nel Consiglio» del vicariato di Ala. L’accordo raggiunto prevedeva la rinuncia di quelli di Ala al diritto di ricevere la terza parte del legname della montagna

er saldare i dodici

teri un peso di burro in cambio del taglio di legna da fabbrica necessaria alla

di Pialda, in cambio di troni 12 annui, più la corresponsione una tantum di troni 50 per chiudere tutte le vertenze passate116.

Per risolvere la questione aperta con il giusdicente di Avio, valse l’impegno preso dai conduttori della malga della Pietà con il capitano di quel castello, e di cui si faceva garante il provveditore ai confini, di consegnare regolarmente ogni anno «un peso» di burro e di ricotta. P

anni di arretrati non corrisposti si concordò il pagamento una tantum di troni 150, somma che comunque faceva risparmiare alla Pia casa veronese «gran parte dei residui»117.

Le soluzioni adottate sulla montagna Pialda grazie alla mediazione e alle conoscenze del conte Giusti sembrano dire che il burro e la ricotta garantivano maggiori entrate rispetto al legname prodotto da quei boschi e ciò potrebbe spiegare parecchio. Innanzitutto, far coincidere la linea di Stato con quella dei possessi aveva favorito i proprietari veronesi; meglio mantenere la giurisdizione sui pascoli più redditizi perché, in Lessinia, era più vantaggioso, ove possibile, allevare animali che far allignare alberi e questo giustifica a sufficienza il dissodamento del manto boschivo operato sul versante veneto. Perciò, non stupisce che per le altre malghe dei Monti Lessini, tutte confinanti con il territorio di Ala, la questione si rovesciasse. I conduttori veneti corrispondevano agli es

manutenzione dei baiti che andavano continuamente restaurati, sottoposti com’erano alle intemperie e ai ghiacci invernali.

La pratica dei confini e le relazioni della Commissione evidenziano una sorta di divisione del lavoro sulle montagne della Lessinia già riscontrata sul monte Baldo. Sul versante veneto era maggiormente diffuso l’allevamento e l’alpeggio, i cui prodotti pregiati trovavano ampio mercato nella vicina città di Verona. Invece, le peggiori condizioni ambientali del versante trentino avevano salvaguardato il bosco, in gran parte ceduo, ma dove si produceva anche del legname da fabbrica. Tra le popolazioni vicine avveniva così uno scambio proficuo di prodotti caseari con legname. E di ciò, nel 1778, si ebbe ulteriore conferma da una nuova vertenza. Ancora una volta, anziché rivolgersi al commissario austriaco, per cercare una soluzione amichevole, il procuratore della

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ASV, PSCC, b. 37. La transazione definitiva fra i rappresentanti di Ala e la Pia Casa della Pietà, del 1771, è edita in Laiti-Bottegal, op. cit., pp. 122-124, documento da loro tratto dall’Archivio di Stato di Trento, Atti dei confini.

117

Id., relazione riservata del 1768. Si soffermano a lungo su queste vicende Laiti-Bottegal, op. cit., pp. 103-125, con la trascrizione di documenti e l’edizione di mappe.

comunità di Ala partecipò al provveditore Giusti le doglianze dei suoi assistiti. Rimarcò innanzitutto che «le montagne o malghe del territorio veronese» conterminanti con il territorio di Ala erano «in precisa necessità di valersi in tempo d’estate per l’uso necessario de’ loro baiti di legna» che tagliavano nei boschi del vicariato. Da «tempo immemorabile», i conduttori delle malghe avevano corrisposto in cambio della legna «a codesti nostri massari un peso di butiro all’anno». Ora sia il casaro che il pastore delle malghe Gasperine avevano «ricusata la solita contribuzione sotto vari ed insussistenti pretesti»118. Completamente sprovviste di legname, le malghe Gasperine

l 1781, fu il conduttore della malga Piolchio sorpreso a «far legna per uso del suo

ato di Ala122. Una questione confinale ancora una volta svelava un importante attività, appartenevano alla Nobile Compagnia dei Lessini e comprendevano il piccolo abitato di Podestaria, sede di una guardia veneta e praticamente il capoluogo degli alpeggi119.

Tre anni dopo, ne

baito» che anziché il dovuto consegnò solo due puine «che non dirò la legna ma nemmeno i passi compensano»120

Nel 1780, quelli di Ala denunciarono stavolta al commissario imperiale «alcuni particolari dei communi della Chiesa Nova e Val di Poro» colpevoli di tagliare nei loro boschi «grandissima quantità di legne delle quali si servono per fare li cercoli ad uso di secchi, brentele e altro». Per quelli di Ala non era facile impedire tali usurpi e perché i veneti arrivavano minacciosamente armati e perché quei boschi erano «assai lontani e di rado visitati da essi massari»121. Dunque, anche le attività artigianali che si svolgevano nelle contrade della Frizzolana, dipendevano almeno in parte dai boschi situati al di là della linea territoriale. Il conte Giusti interpellò «tutti li fabbricatori di cercoli» che negarono ogni addebito. Solo due di loro ammisero di aver tagliato nei boschi di Ala, ma dopo aver richiesto e pagato la necessaria licenza. Al provveditore veneto quegli uomini sembrarono sinceri e non si sentiva di escludere o malintesi o «arbitrio di qualche persona che abbia abusato del nome di massaro», insomma, una truffa favorita sempre dalla distanza dei luoghi dal centro abit

118

Id., lettera del 6 ottobre 1778 inviata dal procuratore di Ala, Marcantonio Alani, a Francesco Giusti. Tutte le malghe

. cit., pp. 133-135. I nobili compatroni erano proprietari di quelle due malghe fin dal 1419

oiché sul Piolchio si caricavano vedi erano tenute a corrispondere il peso di burro, mentre, essendovene due alle Gasperine, di proprietà dei compatroni veronesi, i loro conduttori dovevano corrisponderne due di pesi. Il casaro delle Gasperine che non aveva pagato era Giuseppe Fusari abitante in Verona.

119

Così Laiti-Bottegal, op

120

ASV, PSCC, b. 37, lettera del procuratore di Ala Pietro Taddei del 7 agosto1781. P

pecore, la contribuzione era di un peso di cacio, che alla fine il conte Giusti è riuscito a far pagare a quel pastore, lettera del 12 settembre.

121

Id., dichiarazione fatta dal capomassaro Francesco Buri ad Ala il 14 luglio 1780.

122

Id., lettera di Giusti a Trentinaglia, 11 ottobre 1780. Qui è allegata la nota di «tutti li fabbricatori di secchie e

brentelle» di Chiesa Nuova. Tuttavia secondo Trentinaglia, i due di Chiesa Nuova, Domenico Zanini e Santo Leso, che avevano ammesso il taglio di 200 piante «mediante la ricognizione di troni 20 e un pan de butiro» mentivano; secondo lui le piante tagliate erano 2.000 e il sottomassaro non aveva l’autorità di concedere licenze, id., 11 agosto 1780.

ora artigianale, a Chiesa Nuova, villaggio in cui lavoravano fabbri specializzati nella produzione di secchi123.

Come accade in tutti i villaggi di montagna, gli uomini non svolgevano una sola attività lavorativa ed è da ritenere che non tutti i nominativi indicati facessero esclusivamente il fabbro secchiaro. Infatti, dei Tinazzo risultavano titolari della malga di Campo Retratto, limitrofa alla malga Lavacchietto di Ala e questa vicinanza al confine poteva favorire incursioni illecite nei boschi esteri. Nel 1765, un Antonio Tinazzo nella contrada di cui la famiglia fu eponima, aveva campi 70 (ettari 21) di terra «prativa, pascoliva, boschiva con gravi cengi e dirupi di poco valore» che fu stimata ducati 260 e che confinava con «li beni comuni contentiosi»124. Ma tutto il paesaggio che traspare dalle polizze d’estimo era desolante. Quasi tutti i campi erano prativi, zappativi e boschivi, ma la terra era «assai mangiata e inutile», «disfatta dalle acque», oppure «garba slavada dalle acque», oppure «desertà dalle acque». Al di là delle esagerazioni con cui ci si rivolge al Fisco (ma Chiesa Nuova era un comune esente) sembravano già evidenti a metà Settecento gli effetti della scelta operata dai titolari di queste montagne, ossia, pascoli anziché abeti o faggi. E sulla Lessinia

e a quelli di Ala di vendere annualmente «una tal data

bensì abbondanti di pascolo ma assai scarse di legname da fuoco» e, di

non si poteva accusare del diboscamento l’uso collettivo della terra, come fecero certi accademici, poiché le montagne erano quasi tutte di proprietà privata e per questo dissodate precocemente. Per risolvere la questione, Giusti propos

quantità di piante da cercoli a quelli di Chiesa Nuova», ma quei massari rifiutarono perché il legname serviva anche ai loro malgari125.

Le perlustrazioni biennali della Commissione mista evitarono che gli sconfinamenti dei veneti e le conseguenti lamentele degli esteri degenerassero in risse pericolose per il quieto vivere di quelle genti montane. Infatti, ancora nel 1790, quelli di Chiesa Nuova furono accusati di tagli abusivi nei boschi del vicariato. Stavolta era il conduttore della malga Fittanze ad aver omesso di consegnare lo stabilito peso di burro in cambio della legna necessaria a sopravvivere; e ancora una volta il conte Giusti dovette segnalare al capitanio di Verona che tali inconvenienti accadevano perché le montagne venete «sono

necessità, i malgari dovevano «valersi delle legne che in abbondanza si trovano ne’ boschi confinanti austriaci»126.

123

Id., il massaro Pietro Faccio indicò diciotto artigiani produttori di secchi e «brentele». Val la pena citarli: Giovanni Bruso, Antonio Lesso q. Giuseppe, Antonio Lesso q. Michiel, Antonio Lesso q. Simon, Giuseppe Lesso di Val di Poro, Santo Lesso, Domenico Masella, Giorgio Masella, Girolamo Masella, Lorenzo Masella, Girolamo Mazo, Giuseppe Scandola, Valentin Scandola, Giovanni Tinazzo, Giovanni Tinazzo q. Simon, Piero Tinazzo, Costanzo Vinci, Domenico Zanini.

124

ASVR, Estimi, b. 391, anno 1765, polizza n. 164. Nel 1753, l’estimo personale di Chiesa Nuova era di soldi 93, le ditte censite furono 101, la superficie messa in estimo reale fu di campi 3.204 (ettari 907) stimati ducati 13.473.

125

ASV, PSCC, b. 37, lettera di Trentinaglia a Giusti,13 dicembre 1780; per il commissario austriaco era sufficiente che i veneti si astenessero dal fare legna senza permesso.

126

Un altro episodio confermava la ricchezza dei pascoli sui monti Lessini, l’alpeggio di armenti provenienti addirittura dal Mantovano. Veniamo a saperlo perché i famigli di un conduttore di

convivenza, nel

discussione

cose come

quella città imperiale, accolti con le loro vacche nella malga Piolchio, furono accusati di aver dato fuoco a del fieno ammucchiato oltre la linea di confine127.

Il tratto finale della confinazione veronese sui Lessini, dopo il monte Sparivieri, dov’è il termine n. 200, l’ultimo, e fino al passo della Lora, sotto la catena delle Tre Croci, inizio della montagna vicentina, non fu preso in considerazione durante i lavori del congresso di Rovereto, perché lungo quei crinali non fu segnalata alcuna controversia fra Selva di Progno e Ala. Erano poi situazioni lontane che sarebbe stato anche costoso delimitare128. Dopo una lunga e pacifica

1774, fu la caduta del termine detto, appunto, delle Tre Croci, il triplo confine fra il Veronese, il Vicentino e il vicariato di Ala a dare inizio a una vertenza fra quelle due comunità.

La rovina casuale di un antico termine posto a suo tempo dalle limitrofe comunità, aveva risvegliato antiche rivendicazioni. Ora, la ragione per cui venivano rimesse in

delimitazioni accettate da tempo, stava nella nuova pressione demografica, responsabile di rendere nuovamente appetibili terreni marginali che un tempo non si curava di mettere a frutto.

Quelli ora contesi fra Selva di Progno e Ala erano pascoli alti, lungo la valle del Rivolto e le Molesse, compresi fra Cima Trappola e Cima Tre Croci. Dunque, nel 1774, quelle malghe furono rivendicate dagli esteri, mentre i veneti avanzarono pretese sulla parte del Rivolto dov’è la malga Campobruno129. Come spesso accadeva in montagna, si era di fronte a complicazioni e toponomastiche (quelli di Ala accusavano i veneti di chiamare indebitamente Rivolto la malga di Campobruno) e giuridiche. Invitati a presentare i documenti comprovanti le loro pretese, quelli di Selva non furono in grado di sostenere giuridicamente le proprie richieste. Infatti, si limitarono ad allegare il privilegio d’investitura dei beni comunali, rilasciata dal Magistrato nel 1615, che però non poteva essere considerata probante, poiché i beni comunali erano denunciati dai membri stessi del villaggio e non da persona terza; e poi, non erano stati neppure misurati130. Così, non essendo chiare le pretese delle due comunità frontaliere, la commissione preferì lasciare le

stavano, ordinando loro che ciascuna rimanesse nell’antico possesso finora goduto e che concordemente rimettessero «nel pristino suo sito» il termine caduto delle Tre Croci131.

127

Id., si trattava di tale Lorenzi mantovano; il commissario austriaco voleva punire quei famigli o, essendo stranieri, in loro vece, il «casolino Barbi di Verona, in pescaria» che si era fatto pieggio per i mantovani presso la famiglia Serenelli padrona della malga. La pretesa era assurda e ancora una volta Giusti saltò il commissario che in quel frangente era Orazio Piccini e si accordò direttamente con i massari di Ala per un congruo risarcimento del danno.

128

ASV, PSCC, b. 34. Furono i deputati di Chiesa Nuova a sostenere che non vi erano questioni aperte in questo tratto di linea. Vedi anche Laiti-Bottegal, op. cit., pp. 137-144.

129

Oggi esiste una malga Campobrun a m. 1.166, di là del passo Pertica, raggiungibile da Giazza in poche ore di cammino.

130

ASV, PSCC, b. 38.

131

Nella sua relazione privata, Giusti segnalò una voce giuntagli che probabilmente rivelava la vera ragione delle preoccupazioni dei massari di Progno. Pareva che la famiglia Gaule proprietaria della malga di Rivolto stesse trattando «la cessione di detta montagna confinale» a quelli di Ala e ciò

ella legna tagliata, pur avendolo solennemente

lla provincia di Verona, tale vendita agli esteri era intollerabile e se ne doveva vietare

poteva diventare pericoloso e dare adito all’alterazione dei confini territoriali col pretesto di adattarli a quelli privati, come si era fatto nel resto della Lessinia132.

Ancora nel 1778, i deputati di Selva di Progno chiesero «l’impianto di nuovi termini territoriali» in aggiunta a quelli privati che già esistevano»133, ma anche stavolta il provveditore veneto non volle assecondare quella richiesta perché temeva ulteriori complicazioni134. Obiettivo nascosto era quello d’impossessarsi di un terreno ancora boschivo, situato di là del confine, poiché anche in questa parte orientale della Lessinia veneta si soffriva dell’assenza di legname da fuoco e da fabbrica. Infatti, anche le malghe di Progno erano costrette a rifornirsi del necessario nei boschi del

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