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La questione del Tartaro nei primi lustri del dominio asburgico di Mantova (1726 – 1733)

V. LA QUESTIONE TARTARO IL CONTROLLO DELLE ACQUE IRRIGUE

2. La questione del Tartaro nei primi lustri del dominio asburgico di Mantova (1726 – 1733)

Con il nuovo principe di Mantova, la Repubblica intavolò precocemente dei Congressi per governare la distribuzione dell’acqua del sistema Tartaro332. Per affrontare la questione con cognizione di causa, il Senato incaricò il suo matematico più illustre, Bernardino Zendrini, di produrre una memoria scientifica sulle acque fluviali a cui egli rispose con una scrittura su «li disordini tutti che corrono in proposito della distribuzione delle acque e quale sia il metodo per sfuggirli»333.

Si riproponeva la questione dell’unità di misura, ossia, di quanta acqua corrispondesse a un quadretto, che era il problema principale da risolvere, se si voleva giungere a una corretta distribuzione delle irrigazioni tra i diversi utenti dei due Stati confinanti. Anche se non sufficiente, condizione comunque necessaria a un qualsiasi accordo che avesse la pretesa di durare nel tempo.

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Il Congresso di Pontemolino svoltosi tra il 1726 e il 1727 fu il primo di una lunga serie. Vedi Porto, op. cit., pp. 324- 335; e Valentini, op. cit., p. 138 n.

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ASV, PSBI, b. 854. Si tratta di un voluminoso registro intitolato Tartaro 1720-1727. La scrittura è datata Venezia, 13 gennaio 1727 (1726 m. v.). I registri del Consorzio del Tartaro dei Provveditori sopra Beni Inculti raccolgono molte relazioni del famoso matematico, almeno quattordici, relative al sistema d’acque del Tartaro del primo Settecento di cui qui si dà ovviamente solo un breve resoconto. Le relazioni con lettere e appunti si trovano anche sparse in ASV,

Archivio proprio Zendrini, serie Tartaro, b. 6 (fino all’anno 1728), b. 8 (anni 1732-1733); b. 9 (anni 1734-1735); b. 12

(1740- 1741); reg. 26, ragioni sopra il Tartaro; bb. 29 e 30, (qui anche il Libro Congresso Tartaro 1599), reg. 31 sul congresso di Pontemolino. Alle bb. 46-49 le minute.

Anche se molto tecnico come argomento, vale però la pena di ricordare almeno il suo metodo di calcolo per stabilire la portata di un quadretto, poiché, sulla scorta degli idraulici bolognesi, il matematico veneto fu uno dei primi a tentare di dare attuazione pratica al nuovo concetto di velocità della corrente. Scrisse nella relazione: «Pochi sono i miei supposti, raccomandato quasi tutto all’osservazione e se mi è stato uopo di supporre la lunghezza del moto di un quadretto di acqua in ragione di mille passi geometrici all’ora o, che è lo stesso, nella ragione che l’acqua corra in un minuto di ora piedi 83 ed once 8 [in misura veronese metri 28,693] che vengono ad esser in ogni minuto secondo un piede e quattro once e otto punti (metri 0,471), ciò è stato per fissar la più ragionevole misura»334. Non siamo ancora alla misura odierna di litri al secondo della portata di un fiume, comunque con tale presupposto era possibile fissare con una certa precisione le misure lineari che dovevano avere le bocche e l’altezza del battente proporzionali ai quadretti assegnati a ciascun utente.

Il Senato non si accontentò solo della teoria, ma incaricò il matematico Zendrini di relazionare dopo aver fatto un sopralluogo e così, nel 1727, egli visitò per la prima volta il sistema Tartaro; e discettò a lungo sulle sorgenti antiche e moderne del fiume per dimostrare come documenti vecchi di secoli poco o nulla potessero spiegare della situazione contemporanea e perciò non potevano essere indicati come prove a favore né degli uni, né degli altri335.

Così, quando la corte di Vienna fece pervenire a Venezia un lungo memoriale «per le cose del Tartaro», in vista di un altro Congresso336, i senatori ancora una volta pensarono al matematico Zendrini per avere un suo parere prima di rispondere all’imperatore. Dopo un’attenta lettura, Zendrini lamentò che la Corte di Vienna voleva stabilire i preliminare delle trattative usando ancora logiche vecchie e inutili, fondate sull’esame delle antiche convenzioni che, come aveva già dimostrato, non rispecchiavano più l’esistente: «come mai si può intavolare un vero e reciproco accomodamento senza aver in considerazione il presente sistema di quelle acque». Era perciò impossibile iniziare le trattative senza l’esperienza reale delle cose337

.

Ora, i mantovani pretendevano di fare due usi delle acque del Tartaro, uno per la sua navigazione fino alla Fossetta di Ostiglia338 e l’altro per le irrigazioni di prati e risaie. Ebbene, secondo i calcoli del nostro matematico, le due cose erano incompatibili. Dunque, non erano solo gli abusi veronesi, ammesso

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Tra le opere a stampa dello Zendrini quelle che più si occupano di tali questioni sono: Alcune considerazioni sulle

acque correnti ecc. , Venezia, 1717; e Leggi e fenomeni, regolazioni ed usi delle acque correnti, Venezia, 1741. Testi

usati da Vergani, op. cit., pp. 187-188.

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ASV, PSBI, b. 855, vol. I, scrittura datata Venezia, 1° novembre 1727.

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Si tratta del primo Congresso di Vienna relativo al Tartaro del 1729 che si concluse con un nulla di fatto. Porto, op.

cit., p. 326 e Valentini, op. cit., p. 138 n. 337

ASV, PSBI, b. 855, vol. II, scrittura del 1° maggio 1728.

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La Fossetta di Ostiglia era un canale navigabile che permetteva alle imbarcazione che avevano lasciato il porto fluviale di Legnago, sull’Adige, di giungere in Po sfruttando i canali artificiali che attraversavano le grandi valli veronesi.

che ve ne fossero, a rendere precaria la situazione. In realtà, era la naturale portata del Tartaro, in sé un piccolo fiume di risorgiva, a non essere sufficiente. Gli esteri dovevano scegliere. O volevano navigabile il canale o irrigavano le risaie. Rispetto a quelle convenzioni cinquecentesche di cui ora pretendevano il rispetto, il paesaggio era completamente mutato. Se volevano tornare all’antico, scrive Zendrini, «si rivolgano prima a loro stessi e vedano qual faccia abbia acquistato l’Ostigliese dopo quel tempo con l’introduzione di tante nuove risare»; e poi guardassero verso lo Stato pontificio, dove la bonifica Bentivoglio339 aveva mutato completamente il sistema Tartaro in quel tronco, arginandone la riva destra per 16 miglia (m. 27.819), «sino cioè al Castagnaro». Un tempo, dal Bastione di San Michele, dov’era il triplo confine, in giù, le acque senza argini confluivano nelle valli presso il Po senza sfociare direttamente in esso e così «tenevano allagato il paese ed ingombrato da foltissimi cannedi»; ma, dopo la bonifica ferrarese, incassato il Tartaro nel suo breve tratto tutto pontificio, si costruirono chiaviche per scaricare le acque in Po e così «hanno ritratto tutto quel vasto paese e col separare le acque le hanno ridotte a tenersi assai più basse di superficie di quello prima facevano»340. Insomma, la realtà era completamente diversa dai tempi dei Gonzaga. Il ragionamento del matematico Zendrini era di una logica così stringente che, letta la scrittura, il Magistrato dei Beni inculti gli commissionò un’altra perlustrazione del Tartaro, nel 1728, visita che produsse una notevole mole di documenti da meritare uno studio più accurato341. Dopo aver esaminato con precisione tutti i canali e i rami di quel sistema idrico, Zendrini si rafforzò nella convinzione della sua naturale scarsezza d’acqua. Se si voleva sia irrigare che navigare, non c’era altra via che trovare un modo per «rimpinguare le acque del Tartaro». La penuria derivava sostanzialmente «dalle bocche e dalle risaie, specie quelle mantovane, che in tempo di magrezza necessiterebbero di più acqua di quanto il Tartaro non ne abbia»342.

Dunque, il nuovo esame sul campo, confermò l’impossibilità di soddisfare le pretese estere senza arrecare danno agli utenti veronesi. «Chi proponesse a questi signori il mantenimento in ogni tempo delle due braccia di acqua sopra la soglia della Fossetta», ma col patto «che l’alveo di Tartaro fosse

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L. Lugaresi, La “Bonificazione Bentivoglio” nella “Traspadana Ferrarese” nei secoli XVII e XVIII: gli effetti, in

Uomini, terra e acque. Politica e cultura idraulica nel Polesine tra Quattrocento e Seicento, a cura di F. Cazzola e A.

Olivieri Rovigo, 1988, pp. 347- 368.

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ASV, PSBI, b. 855, vol. II. Il riferimento è alla convenzione del 1599 fra il Duca e la Repubblica che all’art. VIII stabiliva l’altezza dell’acqua che mai doveva essere inferiore alle due braccia sopra la soglia posta all’imbocco della Fossetta Mantovana di Ostiglia nel Tartaro. Valentini, op. cit., p. 139; un braccio mantovano corrispondeva circa a un piede e 4 once veronesi, ossia m. 0,455 circa. Quindi due braccia erano circa m. 0,91.

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Id. I due documenti più importanti sono la scrittura del 1° agosto 1728, dove Zendrini elenca tutte le operazioni preliminari alla visita, compreso l’ascolto di esperti e pratici dei luoghi; e la relazione finale del 9 novembre 1728. È questa a cui si riferisce Valentini, op. cit., pp. 134-137 che però usa la copia in ASV, Archivio proprio Zendrini, b. 7. Quando la Valentini si è occupata dell’argomento non era ancora disponibile l’indice dei Consorzi dei Beni Inculti all’Archivio dei Frari.

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ASV, PSBI, b. 855, capo III della scrittura dell’agosto 1728. Il perito Zambelli, assistente dello Zendrini, propose di scavare l’alveo del Tartaro per aumentarne la portata. In realtà per Zendrini il fiume andava scavato «solo dove il bisogno lo ricerca». Per aumentarne la capacità propose alcune operazioni la cui spesa complessiva valutò fra gli 8 e i 9.000 ducati.

libero, sgarbato dappertutto e senza stuppe», vedrebbe vanificata la propria tesi, perché «con due braccia di acqua in Fossetta non adacquerebbero sì facilmente tutte le loro risare». In realtà, appariva sempre più evidente che la pretesa navigabilità della Fossetta fosse solo un pretesto per permettere agli esteri di «gridare onde poter sperare una maggiore abbondanza» per le loro risaie. Si voleva strumentalizzare un vecchio arnese diplomatico, come il trattato del 1599, per ricavarne un sostanzioso vantaggio economico.

Zendrini fu facile profeta. Poche settimane dopo l’invio al Magistrato della sua scrittura, forti del nuovo dominio asburgico e della forza del suo esercito, pretendendo il rispetto delle convenzioni cinquecentesche, i mantovani compirono un’operazione di fatto, chiudendo con la prepotenza alcune prese d’acqua veronesi. Per supportare con argomentazioni più scientifiche che giuridiche le proteste di violata giurisdizione, di nuovo il Magistrato spedì sul posto, era la terza volta, il nostro matematico, perché misurasse nuovamente la portata dei condotti veronesi e valutasse i danni da loro patiti per mano militare343. Così, il nostro produsse un’altra scrittura da far pervenire sia ai commissari impegnati negli appuntamenti di Pontemolino, convocati dopo quell’azione violenta, sia alla Corte di Vienna. Le cose da fare per garantire a tutti gli utenti la possibilità d’irrigare le risaie erano sostanzialmente due: trovare un modo per dare più acqua al Tartaro e limitare gli usi impropri dei privati344.

Il fallimento del secondo Congresso a Pontemolino fu determinato anche dall’ostinazione mantovana nel rifiutare il taglio delle erbe palustri nel tratto del Tartaro prospiciente alla loro fortezza, argomento pretestuoso per il Magistrato veneziano che, infatti, nel 1732, incaricò il matematico Zendrini di spiegare i veri motivi per cui gli esteri «impediscono ai veronesi lo sgarbamento del Tartaro». Ebbene, com’era evidente, la difesa dei fossati del forte era ancora una volta solo un diversivo. In realtà, si voleva che restassero sull’alveo di piena giurisdizione veneta canne ed erbe palustri per rallentare la corrente a vantaggio degli utenti mantovani345. Ancora una volta, il matematico veneto mise in evidenza nella sua scrittura la contraddizione di fondo del sistema Tartaro, ossia la penuria di acque naturali ormai incapaci di soddisfare da sole le nuove e maggiori esigenze di tutti gli utenti.

Durante l’estate del 1733, non vi furono incidenti perché le abbondanti piogge permisero a tutti d’irrigare le proprie risaie; ma il marchese Cavriani negli ultimi due anni aveva ampliato la sua detta Agnella da biolche 200 (ettari 66) a biolche 370 (ettari 122) che erano «molto di più della sua prima istituzione». Lo stesso valeva per le altre risaie. A Pontemolino, quella del conte Zanardi aveva una superficie doppia (dalle iniziali biolche 300, ettari 99, ora ne misurava 600, ettari 198).

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ASV, PSBI, b. 855, vol. II. Scrittura Zendrini datata Venezia, 17 novembre 1728.

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Id., scrittura Zendrini datata Venezia, 20 gennaio 1729 (1728 m. v.).

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Quella detta delle Gazine dei marchesi Strozzi e Sordi era stata di 330 (ettari 109) e ora era di biolche 500 (ettari 165). Quella delle Calandre dei conti Beccagù, Giusti e Verità e Giusti, veronesi ma con possedimenti nel mantovano, era di 350 (ettari 115) e adesso era stata ampliata fino a 400 (ettari 132). Quella della Mazzagatta dei patrizi Valier addirittura era più che raddoppiata da 300 a 700 biolche (da 99 a 231 ettari)346.

Dunque, le sole risaie ostigliesi interessate al sistema Tartaro erano passate in pochi anni da 493 a 857 ettari. I dati del catasto teresiano danno per Ostiglia una superficie agraria di 53.118 pertiche, pari a ettari 3.542; ebbene, da questi dati risulterebbe che quelle risaie da sole coprivano un quarto della superficie agraria ostigliese e ben si comprende quale importanza avessero assunto in un territorio povero come quello mantovano347. Per una provincia così misera, il riso costituiva indubbiamente una grande ricchezza. Il prodotto della risaia era infatti il più alto raggiunto dall’economia agricola del tempo: i sei sacchi di riso che dava in media una biolca (dunque 18 sacchi l’ettaro) assicuravano una rendita notevole al proprietario, valutata a lire 61,5 per biolca che «costituisce certamente il più alto reddito agricolo ottenuto in quel tempo. Non a caso proprio attraverso questa cultura penetra nel Mantovano la grande affittanza di tipo capitalistico»348, la sola che può gestire un’impresa del genere, come del resto avevano fatto, sia pure in modo assenteistico, i Valier a Mezzagatta. Tuttavia, per migliorare la produzione risicola occorrevano opere imponenti di canalizzazione e capitali ingenti e questo spiega bene il perché di tante questioni lungo quel confine con la Repubblica; era troppo allettante scaricare i costi delle migliorie sugli utenti veronesi. Fu proprio il notevole incremento delle valli mantovane ridotte a coltura e poi destinate al riso a indurre il Magistrato dei Beni inculti a servirsi ancora una volta del matematico Zendrini per avere un suo consulto sull’eventuale possibilità di far fronte alla maggiore richiesta d’acqua da parte mantovana con una nuova regolazione delle bocche veronesi.349

346

La famiglia Valier, ascritta al patriziato, come altre venete, aveva possedimenti nel Mantovano. La risaia di Mazzagatta era data in affitto ai mantovani Bonazzi e Bassanese, che nell’anno corrente avevano svegrato altre 30 biolche, circa ettari 10, per puro esperimento «ch’è riuscito secondo l’aspettazione degli affittuari stessi, così che servirà loro di norma nell’anno venturo per accrescerne 70 (ettari 23) come viene supposto». ASV, PSBI, b. 855, vol. II, dispaccio del podestà Andrea Lezze 3°, 12 settembre 1733. Un'altra relazione del 1740 affermava che le undici bocche mantovane, sette sul Tartaro e quattro sul Tartarello di Ostiglia, dovevano irrigare biolche 2.380 (ettari 785), quando pochi anni prima erano biolche 1.600 (ettari 528).

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Il dato è ripreso da Vivanti, op. cit., p. 184. A Ostiglia, nel 1785, la grande proprietà copriva la metà della superficie fondiaria e la ditta maggiore era proprio quella dei marchesi Cavriani con 521 ettari allibrati.

348

Vivanti, op. cit., pp. 158-159. La superficie della risaia progredì nel Mantovano in modo esponenziale. Infatti, nel 1772, le biolche in tutto il mantovano erano diventate 8.906 (ettari 2.968); nell’anno 1875, erano raddoppiate, salendo a 13.433 pari a ettari 4.477.

349

ASV, PSBI, b. 855, vol. II, scrittura Zendrini, 13 aprile 1734. Per ottenere un qualche miglioramento occorreva regolare le due bocche di Gazzo Veronese, una dei padri olivetani, l’altra dei conti Giusti. Poi intervenire sulla seriola dei Grimani a Isola della Scala e sul lago di Vaccaldo a Vigasio. Il professore consigliava poi di riunire in un unico condotto tutte le fontane originarie del Tione, di abbassare la soglia del mulino dei Canossa e di provvedere all’escavazione del fiume Tregnon per irrigare la risaia della Borghesana con acque diverse da quelle del Tartaro.

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