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IV. UN CONFINE IN PIANURA TRA MINCIO E TIONE

6. L’isolo di Pampuro e le risaie di Moratica

Semplificare il confine fu uno degli obiettivi dei congressi tra le potenze europee del Settecento, principio razionale volto a eliminare tutte quelle enclave che ostacolavano una chiara percezione del limite degli Stati290. Non sempre fu possibile, date resistenze locali, come accadde per l’enclave o «isolo» di Pampuro che apparteneva al feudo Castellarese dei vescovi di Trento, ma era tutto circondato dal territorio veronese di Moratica e Pomellone (oggi infatti Pampuro e Moratica sono entrambe frazioni del comune veneto di Sorgà e Pomellone è una località sempre di Sorgà). Pare che nel Medioevo il territorio di Pampuro corrispondesse a un’isoletta fluviale immersa in un

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ASV, PSCC, b. 39, stampa in causa Per il nob. Sig. co: Kav. Baldassar Spolverini , anno 1788, cc. 92. Il progetto di Baldassarre Spolverini fu contrastato dai proprietari limitrofi fra cui una contessa Sagramoso. La tecnica colturale è descritta a p. 53. Alla fine si decise di rinviare l’esame della vertenza alle magistrature ordinarie.

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Id., Giornale della visita 1792, punti nn. 14 e 15; anche ASV, Senato. Corti, fz. 462.

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Id., la supplica del Grigolato era datata Canedole, 13 ottobre 1792.

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Id., relazione privata del provveditore Marco Marioni, 14 aprile 1794. Nel merito, «ha creduto l’umiltà mia d’indurre anche l’estero ministro nell’opinione di niente sul proposito determinare aspettando le ulteriori decisioni de’ superiori Governi». Il rinvio al punto n. 15 del giornale.

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Tra i tanti esempi vedi D. Carpanetto, Il regno e la repubblica. Conflitti e risoluzione dei conflitti tra stato sabaudo e

paesaggio acquitrinoso e, del resto, nelle mappe settecentesche lo si vede ancora delimitato dal fiume Tione. Nel 1607, una supplica rivolta dai suoi pochi abitanti alle autorità ducali indicò l’isolo di Pampuro circondato dal territorio di due insediamenti veronesi, appunto, Moratica e Pomellone, i cui abitanti erano definiti «genti così cattive che non contenti del suo, scorrendo per questo luogo non fanno altro che dannificare li abitatori». Quei sudditi chiesero al Duca di fare istanza a Venezia per ottenere soddisfazione e intanto di essere autorizzati a portare armi «nella detta isola poiché essa si ritrova fuor di Stato»291.

Le liti fra i vicini continuarono e, durante i congressi austro veneti, nel 1756, i commissari presero in considerazione l’idea di semplificare il confine con uno scambio di territori. Pampuro allora comprendeva una piccola chiesa, sei case da muro e sette «casotti di paglia»292, ma il progetto non ebbe seguito per l’opposizione del governatore del feudo di Castellaro. Tale insuccesso comportò la mancata delimitazione del territorio di Pampuro, mentre «si è vestita con termini territoriali di marmo la linea limitrofa tra il Veronese e il Mantovano», in attesa di ulteriori decisioni sovrane che non si ebbero mai. Così, nel 1758, finalmente, i Governi incaricarono i rispettivi ingegneri di segnare con termini anche questa parte della confinazione, il cui «terreno così isolato e disgiunto dal restante suo territorio comprende campi 454 misura veronese [circa 136 ettari] con poche case e una picciola chiesa soggetta al vescovato di Mantova»293.

L’isolo non avrebbe dato fastidio se non si fosse trovato al centro della nuova corsa dei proprietari terrieri verso il riso; man mano che i terreni limitrofi venivano irrigati, i canali inevitabilmente attraversavano in più punti il suo confine. Così accadde che il conte Giancarlo Emilei entrò in contrasto con la marchesa Nerli di Mantova, «la quale con vedute del proprio interesse contrasta il passaggio a certe poche acque che il conte d'Emilj vorrebbe tradurre dal Veronese ad una sua tenuta parimenti nel Veronese detta Belgioioso», possedimenti che però si trovavano separati proprio da quella enclave294. Era il paesaggio della bassa pianura, ben dentro la linea delle risorgive dove l’acqua zampillava in parecchi punti e la possibilità di coltivare il riso rendeva molti proprietari smaniosi di sfruttarla al meglio.

Le mappe del 1756, avevano individuato proprietà del conte Giancarlo Emilei presso l’Essere di

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I. Bettoni, Perdita di un’isola: storia di una mutazione morfologica e sintomo d’un governo troppo lontano, in

Castel d’Ario cit., pp. 53-63, la supplica a p. 58. 292

ASV, PSCC, b. 35. Il vecchio piano di permuta al disegno n. 35/1.

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Id., relazione congiunta di Antonio Giuseppe Rossi e Michelangelo Ferrarini, 27 agosto 1758. Così altri 28 termini furono piantati per delimitare quell’isolo, numerati progressivamente e con il millesimo 1757, pagati lire 30 ciascuno. Di marmo veronese, alti piedi 6 (m. 2,04), lavorati in quadro e ciascuna delle facce è di once 14 alla misura veronese (m. 0,39).

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Id., le acque che il conte Emilei vorrebbe utilizzare erano quelle di scolo della risaia dei conti Cevola (Cipolla) nel territorio di Moratica e di poche risorgive che altrimenti andrebbero disperse; con esse voleva ridurre a risaia campi 25 (ettari 7,6) «coll'obbligo di restituirle immediatamente al Tione».

Castellaro sia nel feudo trentino che nello Stato veneto dove possedeva beni anche il conte Pietro Emilei295. Anche se una parte di quelle tenute probabilmente era già ridotta a risaia nel 1745, anno della rilevazione estimale, quello che è certo è che dopo la metà del secolo gli investimenti in opere di canalizzazione dei vari fuochi di questa casata continuarono notevoli.

Anche presso Pampuro il conte Emilei tentò di sfruttare a suo vantaggio il limite di Stato, evocando il trattato per ottenere, grazie al Magistrato ai confini, quello che con mezzi normali la marchesa mantovana gli negava. Questa volta però le cose non andarono per il verso giusto. Incaricato di dare un proprio parere sulla questione, il sopraintendente Tron scrisse che non si poteva obbligare quella contessa a lasciare libero il passaggio delle acque sui propri terreni; la questione era dunque di carattere privato e tale sarebbe rimasta se il conte veronese non avesse intrapreso questa scorciatoia. Era meglio che si rivolgesse lui direttamente sia al vescovo di Trento che al governo di Milano. L’unica cosa che si poteva era sollecitare l’esame della pratica296. Al di là dei risvolti giuridici, l’episodio conferma come l’agricoltura non solo nel Veronese ma anche dei veronesi nel vicino Mantovano fosse la «più dinamica e moderna della Terraferma veneta» che stava trasformando la bassa irrigua da palude in risaia a vicenda e in marcita297.

Tra i proprietari di questo corridoio veneto compreso fra l’isolo di Pampuro e il feudo di Castellaro vi era il conte Francesco Giusti che, durante la visita del 1785, era stato invitato dalla Commissione ad allargare la carreggiata della strada divisoria di Pomellone, facendovi un nuovo fosso e impiantandovi alberi298. Forse stimolato da questi lavori e per trarne comunque un utile, il conte Giusti presentò una serie di richieste volte ad ottenere la restituzione dell’uso di acque di cui non poteva disporre e per contrasti con i proprietari vicini e perché separate dalla linea territoriale dai suoi possedimenti, sebbene, a suo dire, la sua famiglia ne fu investita fin dal 1719299. Fu un suo antenato, il conte Lodovico Giusti, nel 1680, a supplicare il Magistrato dei Beni Inculti per ridurre un terreno sterile a risaia, concessione riconfermata appunto, nel 1719, a Gomberto Giusti300. Gli estimi veronesi confermano queste annotazioni. Infatti, nel 1682, il conte Lodovico Giusti della

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Giancarlo Emilei apparteneva al fuoco della Pigna, mentre Pietro a quello di Santa Cecilia, fuoco quest’ultimo che si era scontrato con i Donà. Quella di Giancarlo non risultava ancora tra le ditte Emilei nel 1745, probabilmente aveva ereditato dal conte Ottavio i beni di Moratica e Fattole che valevano ducati 400 di reddito annuo. Borelli, Un patriziato

cit., p. 135. 296

La scrittura Tron, 27 febbraio 1766 (1765 m. v.) in ASV, PSCC, b. 279, cc. 83-85.

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Berengo, op. cit., p. 193.

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ASV, PSCC, b. 39. Giornale della visita 1788, punto n. IX, il conte Francesco Giusti, provveditore ai confini del Tirolo, non aveva eseguito i lavori prescrittigli nel 1785.

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La richiesta del conte Giusti ha prodotto una mole di carte contenuta in quattro allegati e che sostanzialmente riguardava una «stuppa» che doveva costruire sul canale Merlongola ma che non poté erigere per scontri avuti con altri proprietari; i provveditori scrissero che «stancherebbe la pubblica pazienza il minuto dettaglio di tante questioni», ASV, PSCC, b. 284, scrittura del 18 dicembre 1788.

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contrada di Ponte di Pietra aveva a Moratica campi 300 (ettari 90) da cui ricavava poco o niente301; nel 1696, suo figlio Gomberto dichiarò essere 350 (ettari 105) i campi di Moratica affittati per ducati 415, dunque delle migliorie erano già state eseguite302. Nel 1745, lo stesso fuoco ora risultava residente in contrada di Santa Maria in Organo e a Gazzo Veronese aveva sei possessioni per una rendita complessiva di ducati 1.220, la comproprietà di una pila da risi e di un mulino da grani, e poi altre possessioni, fra cui, ancora, quella di Moratica, affittata per ducati 420303. Dunque, la famiglia di Francesco Giusti da ormai un secolo stava trasformando le proprie tenute vallive in risaie.

Nel 1788, Francesco Giusti chiese di poter usare nuovamente le acque di famiglia che il confine stabilito nel 1752 gli aveva tolto. In pratica, voleva si ritornasse alla stessa situazione del 1719. Tuttavia, la relazione degli ingegneri palesò una prima difficoltà, legata alle unità di misura304; mentre una seconda difficoltà venne inaspettata dalle proteste dei conti Giovanni Emilei e Girolamo Guido Maria Cipolla. Il consultore Pietro Franceschi vide in questa improvvisa opposizione dei due nobili veronesi ai progetti del conte Giusti un «carattere di scherma e di scherno che non sembrano meritare l’approvazione sovrana»305, fatto che mette bene in evidenza la rivalità fra quei titolati per il controllo delle risorse idriche.

La vertenza durava da parecchio tempo. Occorreva porre fine a un affare che poteva esporre i Governi a nuove controversie, tutelando nel contempo i diritti acquisiti dal conte Giusti con le investiture sovrane da lui ereditate. Gli ingegneri proposero di liberare «il fosso Giusti dalle acque della Merlongola» facendole tornare a scorrere «nello stato in cui erano al tempo dell’investitura» e di ciò doveva occuparsi il provveditore al Tartaro conte Pompei, mentre il suo collega Rambaldi,

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Borelli,, Un patriziato cit., p. 148. Oltre ai beni di Moratica, Lodovico aveva campi 70 (ettari 21) a Gazzo, due possessioni di complessivi 170 campi (ettari 51) la più grande di 100 detta il Bosco, metà garbi e metà vignati, e un mulino; denunciò 430 ducati di rendita. Non aveva risaie.

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Ibidem. Gomberto denunciò anche i beni di Gazzo dove scrisse di avere campi 20 (etari 6) di risaia che gli rendevano ducati 50.

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Id., p. 148-149.

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Infatti, se calcolata secondo le misure imposte dal trattato, ossia once semplici quadrate, l’acqua richiesta sarebbe di appena once 3 «cosa così tenue da non curarsene». Se invece l’acqua era misurata in once come le voleva il conte Giusti, che formerebbe un quarto di quadretto, allora la Merlongola non aveva una portata d’acqua sufficiente. All. I. 305

ASV, PSCC, b. 61, Franceschi a Giusti, 2 agosto 1788: «Vero dispiacere ed anche sorpresa mi hanno arrecato le notizie contenute nelle due pregiate di lei lettere circa l’affare della Merlongola che resta tuttavia indeciso a fronte della spiegata volontà d’ambedue i Governi. Sarà necessario che sia sviluppato l’intreccio di chi ha tenuta questa orditura e che siano prese le misure più atte onde siano conosciuti gli autori e gli oggetti di questo inatteso emergente. Li modi tenuti hanno un carattere di scherma e di scherno che non sembrano meritare l’approvazione sovrana. Chi pretendeva di avere un interesse opposto doveva spiegarlo molto prima e con fronte aperta, mentre qui a tutti è sempre dato ascolto e resa giustizia imparziale ed esatta. Chi ha buona ragione non va per vie nascoste».

provveditore ai confini con il Mantovano, doveva appurare se quei lavori arrecavano discapito alla linea di confine o generavano confusione306.

Per adempiere al compito, il conte Rambaldi spiegò come il confine di Stato fosse reso visibile da termini in pietra numerati, da masse di sassi, da canali e da fossi. Così, ad esempio, l’Essere di Castellaro, un fosso divisorio, dovendo «restar chiuso per tutto il tempo delle irrigazioni», rimaneva asciutto senza che questo alterasse «in menoma maniera la linea che viene segnata allora dal semplice fosso e non dall’acqua che vi può scorrere per qualche mese dell’anno». Lo stesso dunque accadrebbe con la contigua Merlongola che era «ugualmente un canale in cui al tempo delle irrigazioni vi scorre in un tratto l’acqua e nell’altro ne resta privo senza alcuna alterazione, mentre il canale asciutto e non l’acqua segna la linea». Perciò, liberare il fosso Giusti dalle acque della Merlongola, che vi scorrevano soltanto in parte, non recava nessun «sconcerto alla linea di confine perché il fosso ed i termini segnano le tracce permanenti e perché non deve otturarsi, servir dovendo anzi per portar acqua sortumosa». Insomma, tanta delicatezza idraulica poteva essere preservata solo con le visite biennali della Commissione.

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