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Parte 2 IL CINEMA TRA RAPPRESENTAZIONE STORICA E

3. Vukovar: le memorie cinematografiche di una città divisa

3.1 Contesto storico: la guerra in Croazia e la città simbolo di Vukovar

A differenza della Slovenia, etnicamente omogenea, prima repubblica a proclamare la propria indipendenza dalla Jugoslavia (giugno 1991), la Croazia presentava una popolazione più mista. Fino al 1971, la composizione etnica25 della Croazia consisteva in: 80% croati, 15% serbi e 5% di altri gruppi etnici. Durante gli anni ’70 aumentò notevolmente il numero di coloro che si dichiaravano "jugoslavi", soprattutto per la presenza numerosa di matrimoni misti. Successivamente, fino al 1991, il numero di serbi, montenegrini, macedoni e musulmani ebbe un sensibile incremento, mentre la presenza sul territorio di altre minoranze etniche diminuì.

Rispetto alle altre minoranze, quella serba aveva un ruolo speciale nella vita croata. La maggioranza dei serbi sul suolo croato viveva nelle grandi città come Zagabria e Dubrovnik, e nelle regioni di Dalmazia, Lika, Banija, Kordum, Slavonia, Srijem e Baranja. Sebbene le zone di insediamento dei serbi fossero economicamente sottosviluppate, le principali vie di commercio croate attraversavano tali regioni, da Zagabria fino a Belgrado. Inoltre molti leader comunisti in Croazia erano di origine serba e ricoprivano ruoli importanti sia nella cultura che nella politica.

25 Matjaz Klemenčič, Mitja Žagar, The former Yugoslavia’s diverse peoples, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2004, p. 302

Come illustra Ludwig Steindorff26 nella sua storia nazionale della Croazia, le elezioni del 1990 fecero emergere il partito Unione Democratica Croata (HDZ) e la figura di Franjo Tuđman che determinò la politica del paese per tutto il decennio. Partigiano durante la seconda guerra mondiale, Tuđman aveva sempre dimostrato inclinazioni nazionaliste nonostante avesse ricoperto cariche importanti durante il regime di Tito. Nel 1989 fondò l'HDZ con cui vinse l'elezioni l'anno successivo. Nel 1990 la Croazia adottò una nuova costituzione, presentandosi come stato sovrano all'interno della Jugoslavia27. Nel 1991 Slovenia e Croazia si dichiararono indipendenti; in Slovenia scoppiò un conflitto che si risolse in poco tempo con un numero limitato di vittime, in Croazia invece fu solo l'inizio di una più lunga guerra civile. Franjo Tuđman fu uno dei protagonisti di questo periodo di transizione, governando la Croazia fino al 2000, anno della sua morte; negli anni di governo instaurò un regime nazionalista autoritario in cui fu sospesa la libertà di stampa. Stefano Bianchini28 riporta che, fin dal congresso di fondazione del partito, Tuđman aveva proposto una revisione dei confini croati volendo includere anche alcuni territori della Bosnia Erzegovina, poi, appena insediato in qualità di presidente, operò delle modifiche alla gestione dei corpi di polizia e alle norme di tutela degli altri gruppi nazionali presenti sul territorio croato, una delle motivazioni che sollevò poi le rivolte della componente serba; infine, in relazione a un lavoro anche memoriale sulla nuova Croazia indipendente, mise mano a simboli di stato, toponomastica, manualistica e sistema scolastico.

Slavenka Drakulić29, scrittrice e giornalista croata emigrata in Svezia all'inizio degli anni '90 per ragioni politiche, fu una delle più attente osservatrici di quello che stava accadendo alla società croata e jugoslava all'inizio degli anni '90. Nel suo libro The Balkan express, scritto tra il 1991 e il 1992, si interroga più volte sulle ragioni alla base dello scoppio del conflitto, non tanto nell'assetto degli eserciti quanto nella mente delle persone. Proprio in una riflessione su quelle elezioni del 1990 è possibile forse ritrovare qualche risposta: alle prime votazioni multipartitiche la gente aveva espresso prima di tutto un atteggiamento anticomunista, di fronte al quale i nuovi governanti si proclamarono subito gli unici portatori di democrazia, come se questa fosse un dono dal cielo. In realtà le vicende degli anni '90, non solo in Croazia, ma in tutta l'ex-Jugoslavia, sono riconducibili al fatto che la popolazione non aveva mai avuto l'opportunità di diventare una società di cittadini liberi, consapevoli delle proprie scelte elettorali, con istituzioni democratiche sviluppate che consentissero di far fronte e andare oltre le differenze, i conflitti, i cambiamenti. Le elezioni all'inizio del decennio e l'ascesa di nuovi governi autoritari, osserva Drakulić, dimostrarono che le persone non erano in grado di assumersi la responsabilità di quello che stava accadendo e delle proprie

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Ludwig Steindorff, Croazia. Storia nazionale e vocazione europea, Trieste, Beit, 2008 27

Marco Ventura, Jugoslavia, un omicidio perfetto, in Alessandro Marzo Magno (a cura di), La guerra dei

dieci anni, Milano, il Saggiatore, 2015

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Stefano Bianchini, La questione jugoslava, Firenze, Giunti, 1996

29 Slavenka Drakulić, The Balkan express. Fragments from the other side of war, New York-Londra, W. W. Norton, 1993

scelte politiche, la guerra quindi sembrò arrivare come una calamità naturale o, peggio, inevitabile come un destino di quei popoli.

Occorre considerare anche il ruolo dei media: con lo scoppio della guerra in Croazia si assistette a una vera e propria battaglia mediatica per la costruzione dell'immagine del nemico, una battaglia che soprattutto Milošević in Serbia e Tuđman in Croazia combattevano per preparare il terreno al conflitto sul campo. Jože Pirjevec e Marco Ventura concordano scrivendo che lo scoppio delle ostilità in Croazia cominciò con un'intensa attività di propaganda tra Zagabria e Belgrado, in una deriva nazionalista che si basava sulla rievocazione delle stragi avvenute durante la seconda guerra mondiale, e poi rimosse dalla memoria pubblica della Jugoslavia titina in nome della filosofia di "fratellanza e unità" tra le diverse etnie. Nella TV di Zagabria i serbi divennero tutti "cetnici"30, nella TV di stato serba invece i croati furono chiamati "ustascia"31, rivangando una retorica tratta dalla guerra precedente e preparando psicologicamente a quella attuale.

Pirjevec sottolinea come l'attività di propaganda fatta a Belgrado fosse tesa a rievocare episodi della seconda guerra mondiale e a mettere in luce un "carattere genocida del popolo croato"32 e del governo di Zagabria. A tale scopo cominciarono a essere riesumate tombe comuni dove gli ustascia avevano seppellito le vittime del genocidio compiuto cinquant'anni prima, vennero riesumate e portate in giro nei territori serbi anche le reliquie dei santi ortodossi, forte elemento di aggregazione tra la popolazione serba presente negli altri territori ex-jugoslavi. La campagna di rievocazione del passato costruì l'immagine della Croazia degli anni '90 come la continuazione dello stato autonomo di Ante Pavelić degli anni '30 e '40, collaborazionista di nazisti e fascisti.

Questo messaggio si dimostrò efficace a livello psicologico perché era in linea con la memoria storica della popolazione serba in Croazia, che temeva di perdere i diritti acquisiti durante il regime di Tito. Se prima, durante la Jugoslavia, infatti, la popolazione serba faceva parte di una maggioranza (jugoslava) con ruoli importanti nella gestione del potere federale, nel nuovo stato unicamente croato si ritrovava a essere una minoranza. In questa nuova condizione funzionò molto bene la propaganda da Belgrado che spinse all'insurrezione tutti i serbi che non volevano vivere nella Croazia di Tuđman, inducendoli a unirsi all'azione dell'armata federale per rimanere all'interno dei confini della Jugoslavia.

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Il termine indica gli appartenenti alla formazione nazionalista serba che nella seconda guerra mondiale lottavano contro il movimento partigiano di Tito. Durante la guerra civile scoppiata in Jugoslavia nell’estate 1991, il termine è stato adoperato per indicare i membri delle milizie irregolari nazionaliste serbe. (da Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/cetnico/ ultimo accesso: maggio 2017)

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In origine il termine indicava, tra gli slavi balcanici, coloro che lottavano contro i turchi, poi fu ripreso più volte nella storia aggiungendo diverse sfumature a seconda dei contesti storici cambiati. Negli anni '30 gli ustascia erano i membri del movimento nazionalista e fascista croato fondato da Ante Pavelić. Dopo l'occupazione nazifascista della Jugoslavia nel 1941 formarono uno stato di Croazia, collaborazionista e formalmente autonomo; durante la guerra furono responsabili di numerosi massacri, a base etnica e religiosa, a danni soprattutto della popolazione serba ortodossa in Croazia e in Bosnia Erzegovina. Dopo la seconda guerra mondiale molti capi ustascia trovarono rifugio all'estero. Nell'ultima guerra balcanica il termine venne ripreso per indicare i nazionalisti croati. (da Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/ustascia/ ultimo accesso: giugno 2017)

Così, contemporaneamente al processo di dichiarazione di indipendenza, esplose la questione etnica serba all'interno del nuovo stato croato: nel 1991 un referendum autogestito sancì l'autonomia della repubblica serba di Krajina, una fascia di territorio nella parte sud-orientale della Croazia al confine con Bosnia e Serbia, dove si concentrava la popolazione a maggioranza serba che voleva rimanere parte della Jugoslavia. Le insurrezioni e i tentativi di autogoverno delle province autonome serbe furono appoggiate dall'Armata Popolare Jugoslava (JNA), che all'epoca doveva rappresentare ciò che rimaneva della Jugoslavia, ma che in realtà era composta principalmente da serbi33 e montenegrini, considerando inoltre che anche Bosnia e Macedonia erano già sulla strada dell'indipendenza. Per questo il nuovo assetto dei confini e dei territori insorti mostravano molto bene il tracciato del progetto di Grande Serbia che Milošević stava portando avanti su più fronti, parallelo a quello della Grande Croazia di Tuđman che sarà poi evidente nel successivo smembramento del territorio bosniaco, deciso a tavolino tra i due.

Vukovar era un importante porto fluviale sul Danubio, sul confine tra Serbia e Croazia, famosa per l'architettura barocca negli edifici di eredità asburgica, con una popolazione mista che contava una maggioranza jugoslava divisa tra croati e serbi e altre minoranze esteuropee. Gli attriti tra i diversi gruppi etnici in poco tempo trasformano Vukovar in un simbolo di quel conflitto: numerosi volontari croati locali fecero della città una roccaforte di difesa, dall'altro lato della barricata la popolazione serba ne fece un luogo simbolico da conquistare, o meglio da "liberare". L'assedio di Vukovar cominciò nell'agosto del 1991 con un massiccio attacco aereo e poi via terra ad opera del JNA, ma ben presto si trasformò in un "bastione", da difendere per i numerosi volontari croati e da conquistare per i serbi che vedevano nell'esercito federale una forza di liberazione della città, con un enorme valore psicologico per la popolazione serba, non solo quella che viveva in città, ma anche nel territori della Serbia e delle altre repubbliche. L'assedio della città danubiana finì nel novembre del 1991; Pirjevec riporta34: morirono circa 4000 civili, e dei quasi 2000 difensori, tra cui c'erano anche serbi, si salvarono solo quelli che riuscirono a fuggire prima della caduta della città, gli altri furono fatti prigionieri e mandati in campi militari in Serbia; alcune centinaia sparirono nel nulla e più di 200 persone tra feriti e medici dell'ospedale della città furono trucidati e sepolti in una discarica a Ovčara, fuori Vukovar.

Ventura paragona ciò che accadde a Vukovar con la distruzione di Guernica (1937) nella guerra civile spagnola. Si tratta della prima città rasa al suolo in territorio europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale, e la più terribile tragedia umana e sconfitta militare nel processo di indipendenza della Croazia, che mostrò le debolezze di un esercito appena formato. Qui subentra un dato militare importante che riporto da Ventura35 perché permette di capire la strategia dietro a queste operazioni militari e che poi ritornerà anche nell'assedio di Sarajevo: i generali del JNA testimoniarono che, una volta caduta Vukovar, avrebbero potuto tranquillamente marciare

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Approfondimento Le forze armate jugoslave negli anni Ottanta in Stefano Bianchini, op.cit., p. 132 34 Jože Pirjevec, op. cit., p. 95

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vittoriosamente verso Zagabria e bloccare i tentativi secessionisti croati, ma, riportarono, arrivò un ordine di ritirata da Milošević in persona. Conquistate Vukovar e le cittadine di Osijek e Županja, l'esercito doveva ritirarsi dai territori "croati", in quanto lo scopo dell'operazione era difendere le zone serbe, e non preservare intatta la Jugoslavia. La strategia dell'assedio, finalizzato alla distruzione del tessuto sociale di questi luoghi misti, ritornerà anche nell'assedio di Sarajevo e in quello di Srebrenica, e mette in evidenza il carattere etnico che assunse fin dall'inizio il conflitto balcanico, basato in realtà sulla conquista territoriale e sulla cancellazione di un patrimonio comune di convivenza. Il risultato sono territori "etnicamente puliti".

Nella vicenda di Vukovar presero forma, come evidenziarono anche i media internazionali, alcuni aspetti che caratterizzeranno le guerre balcaniche degli anni '90, tra conflitto civile e strategia militare pianificata. Le battaglie in Croazia inoltre portarono alla ribalta alcune figure che torneranno come protagoniste nello sviluppo successivo del conflitto, in una pericolosa commistione tra ideologia e crimine. Ad accompagnare l'intervento dell'Armata popolare c'erano anche le formazioni di paramilitari, organizzati già nella primavera del '91, impiegati per compiere razzie, massacri, stupri, saccheggi. Si scatenò una guerriglia casa per casa, senza alcun rispetto delle convenzioni internazionali e dei diritti dei civili, condotta da truppe ubriache o drogate, che agivano seminando il terrore, costringendo i componenti dell'etnia nemica ad abbandonare le proprie case e quindi "ripulendo" il territorio. Pirjevec così li definisce: «“patrioti” reclutati tra la feccia del popolo e organizzati in piccoli gruppi di 15-40 persone, s'abbandonarono a tutta una serie di indescrivibili violenze, presentate in Serbia come un'eroica lotta di liberazione popolare dalla stampa di regime che esaltò il valore delle diverse formazioni, rendendo ben presto popolari i loro capi»36. Tra i più celebri sono Vojslav Šešelj e Željko Ražnjatović detto Arkan. Šešelj era un ideologo, capo del partito radicale serbo, professore di diritto originario di Sarajevo, era già stato incarcerato negli anni '80 per le sue idee ultra-nazionaliste a favore di una Grande Serbia, capo di un'armata cetnica che prese parte al progetto di "liberazione" dei territori a maggioranza serba. Šešelj è attualmente deputato del parlamento serbo dopo le ultime elezioni del 2016. Uno dei gruppi paramilitari più tristemente famosi fu quello delle Tigri, il loro capo Arkan37 aveva un passato criminale da rapinatore e killer dei servizi segreti jugoslavi, capo della tifoseria della Stella Rossa di Belgrado, fonte delle prime reclute di volontari per il suo esercito. Negli anni '90 diventò anche icona pop dopo il matrimonio con la cantante turbo-folk Ceca. Morì nel 2000 ucciso nella hall dell'hotel Intercontinental a Belgrado.

Tutti questi elementi ci aiutano a delineare il clima sociale e politico che preparò il conflitto e che colse completamente impreparate le diverse popolazioni, soprattutto nelle zone caratterizzate da una convivenza multietnica, come Vukovar o Sarajevo, abituate a vivere sotto l'ombrello degli

36Jože Pirjevec, op. cit., p. 67 37

ideali e dei diritti offerti dalla Jugoslavia titina. Come racconta anche Paolo Rumiz38 la guerra colse una popolazione incredula allo scontro e alle identificazioni forzate delle diverse etnie in una composizione cittadina che contava moltissimi matrimoni misti. L'incredulità e un'incoscienza fiduciosa nella propria storia di convivenza avevano colpito soprattutto gli strati borghesi e intellettuali croati e serbi a Vukovar e poi anche musulmani e sefarditi a Sarajevo l'anno successivo.

Rumiz, inviato per le guerre in ex-Jugoslavia ed entrato a Vukovar con altri giornalisti poco dopo la sua caduta, osserva come la distruzione avesse colpito soprattutto il centro, gli antichi palazzi storici borghesi e non avesse toccato invece le palazzine moderne in costruzione della periferia operaia. Da questa osservazione e da numerosi quesiti che quell'assedio lasciava aperti, il giornalista italiano ipotizza che Vukovar sia stata una specie di laboratorio, "un'ecatombe alla portata di telecamera"39 e irripetibile negli anni successivi. Mai più infatti una città sarebbe stata così accessibile alla stampa subito dopo la sua distruzione. Vukovar fu un terreno di sperimentazione per veicolare un preciso messaggio: far passare una guerra di conquista per uno scontro etnico. Rumiz infatti sostiene che il vero scopo fosse in realtà una "pulizia sociale" del tessuto cittadino, per lasciare il posto a un'immigrazione proveniente dalle montagne e dalle zone più povere di Serbia e Bosnia. Dietro l'evidente scomparsa (anche dopo la fine dell'assedio) di gran parte della borghesia cittadina serba e croata, secondo Rumiz, era in atto realmente uno scontro tra starosedioci, i cittadini locali di antica tradizione e attitudine cosmopolita, e došljaci, gli inurbati, provenienti da fuori e maggiormente legati ad un'appartenenza etnica. A compiere i massacri dei civili casa per casa non sarebbe stato l'esercito, ma una schiera barbarica di volontari criminali non facilmente identificabili, come abbiamo visto nel reclutamento e nel ruolo svolto dai paramilitari. Questa interpretazione40 di Paolo Rumiz spiegherebbe soprattutto la distruzione del centro storico della città, e non della periferia, una strategia che si mostrerà in modo ancora più lampante a Sarajevo. Lì la popolazione serba cominciò ad abbandonare la città molto prima del primo proiettile sparato di fronte agli occhi increduli degli altri abitanti, poi il lungo assedio si protrasse per anni senza motivo se non quello di distruggere il tessuto umano cittadino. In questo senso credo sia emblematica la distruzione mirata della Viječnica (su cui ritornerò più diffusamente nel capitolo dedicato alla capitale bosniaca), l'antica biblioteca cittadina e universitaria di Sarajevo, simbolo di un patrimonio culturale comune della città.

La guerra in Croazia non si conclude con la fine dell'assedio di Vukovar, anzi, fu solo al suo inizio. I territori della Krajina serba dichiaratisi indipendenti furono riconquistati nel 1995 dall'esercito croato con l'operazione Oluja ("Tempesta") durata tre giorni, Vukovar rimase invece

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Paolo Rumiz, Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in

Jugoslavia, Milano, Feltrinelli, 2011

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Ivi, p. 100 40

Una spiegazione simile delle origini della guerra è data anche da Nicole Janigro, giornalista croata collaboratrice di Il Manifesto riguardo alle vicende jugoslave, psicoterapeuta, traduttrice, ha scritto e curato numerosi libri tra cui L'esplosione delle nazioni. Il caso jugoslavo, Milano, Feltrinelli, 1993.

una roccaforte serba fino al 1998. Durante l'operazione Oluja Milošević e l'Armata popolare jugoslava non intervennero a difendere i serbi della zona. Le operazioni croate si svolsero grazie all'appoggio di Onu, Germania e USA che favorirono il riarmo dell'esercito croato. Come nel 1991, anche nel 1995, in questi territori si assistette allo scontro tra i due progetti nazionalistici di Grande Serbia e Grande Croazia, infatti nonostante i serbi di Knin (capitale dell'autoproclamata repubblica serba di Croazia) avessero firmato un accordo di resa e avessero consegnato le armi ai caschi blu, ci furono violazioni di diritti umani, saccheggi, numerosi edifici dati alle fiamme, omicidi, operazioni di pulizia etnica che si tradussero in una colonna di migliaia di profughi provenienti dalla Krajina verso altre terre serbe. A Belgrado si ammassano sul ponte di Sremska Bača a causa dei lunghi controlli della polizia sul posto; non ricevettero una grande accoglienza, anzi, il governo non volle farli vedere ai suoi cittadini e molti furono trasferiti di notte nelle aree periferiche. Mentre a Zagabria la TV presentava l'operazione Oluja con i caratteri di una guerra "giusta", a Belgrado si cercava di far passare in sordina l'accaduto: radio e TV non diedero alcuna notizia della caduta della Krajina per ventiquattro'ore, si parlò solo di un generico attacco croato e di un abbandono di Knin da parte di militari e civili, e questo fu un chiaro segnale dell'atteggiamento che Milošević aveva deciso di tenere, impegnato probabilmente su altri fronti bellici del territorio jugoslavo41.

Negli ultimi decenni Vukovar è stata interamente ricostruita, solo la vecchia torre dell'acqua è rimasta a macabro resto e simbolo della guerra, come scritto nel sito web del Memorial Center of Homeland War: «today it is a symbol of suffering and resistance of the city, victory and new life»42. La torre dell'acqua, lasciata così distrutta, accoglie chi entra in città, è riprodotta su diversi manufatti turistici, campeggia in quasi tutti i documentari e riprese televisive riguardanti la guerra, è presente nei film di finzione ambientati negli anni '90, rappresenta infatti il tratto distintivo di quell'assedio. Tra le macerie della città, resa irriconoscibile dai bombardamenti, la torre dell'acqua crivellata, ma ancora in piedi, attestava in maniera inconfutabile che quella fosse Vukovar.

Vukovar e la sua torre sono diventate il simbolo della lotta di tutto il paese per la nascita della