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Parte 2 IL CINEMA TRA RAPPRESENTAZIONE STORICA E

1. L'arte cinematografica tra rappresentazione storica e racconto memoriale

1.3 Introduzione al cinema post-jugoslavo

La storia e la cinematografia europea della seconda metà del '900 sono state inevitabilmente segnate dalle guerre balcaniche degli anni '90. La fine del blocco sovietico e, di conseguenza, della cortina di ferro, simboleggiata dalla caduta del muro di Berlino, ha aperto il mondo europeo occidentale a est, in un processo che per molti paesi è stato una transizione politica pacifica, ma nel caso della Jugoslavia si è trasformato in un bagno di sangue.

Dopo la rottura con Mosca nel 1948, la Jugoslavia di Tito aveva sempre tenuto una grande apertura verso l'occidente europeo e americano, fino a diventare uno dei fondatori del movimento dei paesi non allineati. Le diverse componenti etniche e religiose hanno convissuto nella Repubblica Federale di Tito dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine del '900, tenute insieme dal potere aggregante e totalitario17 di un leader carismatico che, in nome della ricostruzione del paese e dell'obiettivo comune socialista, aveva cercato di livellare le differenze tra i diversi gruppi, in una logica che trovava il proprio terreno nella tradizione comunista dell'Europa orientale.

Dopo la morte di Tito nel 1980, la grande macchina jugoslava che funzionava sotto lo slogan di "fratellanza e unità" cominciò a scricchiolare. In questa sede non mi occuperò nello specifico di Jugoslavia, né di cinema jugoslavo, ma vorrei solo sottolineare come il cinema fosse uno dei settori culturali più forti e sviluppati già nel paese di Tito, che era un grande amante del cinema18 (al punto da avere una piccola sala di proiezione in casa propria) e che ne aveva capito le potenzialità di propaganda, seguendo gli esempi russo e americano. Il cinema era un potente strumento soprattutto per diffondere l'immagine di un paese che si era riunito sotto la bandiera della lotta partigiana di liberazione, di cui Tito era stato protagonista, e che in nome della Fratellanza e dell'Unità aveva costruito un proprio status di benessere interno, aperto e ispirato allo stile di vita occidentale. Le crepe sotto questa bella immagine patinata hanno cominciato a formarsi molto prima del primo proiettile sparato negli anni '90, ma rimane il fatto che il sogno jugoslavo ha continuato a prosperare per quarantacinque anni.

Come lo scoppio delle guerre in Jugoslavia è stato un evento centrale nel panorama geopolitico e mediatico internazionale alla fine del '900, così il cinema è stato, ed è ancora oggi, uno degli strumenti artistici e mediatici principali attraverso cui sono state raccontate quelle guerre e lo stato di crisi successivo che hanno generato.

Un grande interesse cinematografico sulla regione ha dato vita alla produzione di decine di film di finzione e centinaia di documentari, realizzati da autori autoctoni e stranieri, come scrive Meta

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Forse la Jugoslavia era uno dei regimi più aperti del blocco socialista, ma non bisogna dimenticare che si trattasse di un regime totalitario, con una polizia segreta, carceri politiche e sistemi di censura. Alla fine degli anni '40, dopo la rottura con l'Unione Sovietica, nel paese ci sono state vere e proprie purghe politiche di tutti i simpatizzanti sovietici, o ritenuti tali, che per una semplice delazione, potevano finire in gulag, tra cui Goli Otok è solo il più famoso. Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni, Torino, Einaudi, 2015

Mazaj: «suddenly, the west discovered Balkan cinema, and Balkan filmmakers grasped this moment to articulate their own vision of themselves»19. Le guerre degli anni '90 hanno attirato l’attenzione di molti autori da tutto il mondo, ma il nucleo più significativo di opere è quello dei registi provenienti dai diversi paesi dell'area, che hanno saputo mettere in evidenza le caratteristiche specifiche di ciascun conflitto e del corrispettivo dopoguerra, aspetto che nella produzione internazionale spesso è sottovalutato in favore di una visione generale e semplificatrice. Come nota Mazaj in pieno processo di dissoluzione della Jugoslavia e poi successivamente a guerre finite, la narrazione predominante offerta dai media internazionali è stata quella della rottura di una nazione unita e coerente in una folle contesa tra piccoli stati indipendenti, mentre i contesti specifici dei singoli conflitti sono stati spesso ignorati. Il risultato è stato il diffondersi del termine "balcanizzazione" e "balcanico" per indicare l'infinita divisione in entità frammentarie e ostili.

Da qui è emersa anche la nozione di "cinema balcanico"20 che vuole definire più in generale le diverse cinematografie del sud-est europeo, accomunate da affinità stilistiche e tematiche. Riguardo all'area ex-jugoslava il termine è stato usato da alcuni critici per indicare un genere cinematografico ibrido, frutto delle contaminazioni di culture e stili che caratterizzano quella zona, le tecniche narrative e le tematiche di cambiamento politico e culturale che negli ultimi anni hanno caratterizzato quei paesi. Etami Borjan afferma invece l'ambiguità del termine "balcanico" come genere cinematografico, soprattutto perché nasce da una constatazione più di natura contestuale che da un'analisi testuale, in cui si tende a far coincidere le cinematografie a confini che sono geografici. È indubbio che vi sia un'eredità comune dalle influenze culturali di quella regione, allo stesso modo però occorre tenere presente che il cinema jugoslavo e quello post-jugoslavo sono stati profondamente influenzati anche da tendenze cinematografiche e culturali provenienti dall'occidente e da altri paesi dell'est europeo. Ritengo invece che più comunemente il termine "balcanico" sia stato utilizzato per indicare un'alterità stereotipata, uno stato liminare tra oriente e occidente caratterizzato da primitivismo, esotismo, violenza e brutalità, che cerca conferma negli episodi più raccapriccianti delle ultime guerre. Come mostra il lavoro di Maria Todorova, questa immagine di alterità barbara è stata costruita culturalmente nel tempo, nel corso dei secoli di continua relazione tra un'Europa cristiana e questa zona di passaggio tra Occidente e Oriente. Condivido l'osservazione di Borjan che vede, soprattutto a partire dalla fine degli anni '80, da parte di alcuni registi locali un'adesione a tale immagine stereotipata di esoticità, contribuendo così a ridefinire la posizione culturale europea dei paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. Il caso più eclatante è sicuramente il successo internazionale dei film di Emir Kusturica, a partire da Dom

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Meta Mazaj, Once upon a time there was a country. National and cynicism in the post-1990s Balkan

cinema, Saarbrucken, VDM Verlag Dr. Muller, 2007, p. 1

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Etami Borjan, Nuove tendenze nel cinema postbellico dell'ex Jugoslavia, in Antonio D'Alessandri, Armando Pitassio (a cura di), Dopo la pioggia: gli stati della ex Jugoslavia e l'Albania (1991-2011), Lecce, Argo, 2011

za vašanje (Il tempo dei gitani, 1988), e poi con Underground (1995) e Crna mačka, beli mačor

(Gatto nero, gatto bianco, 1998) fino ai film più recenti come Zavet (Promettilo, 2007).

Nel primo decennio dopo lo scoppio del conflitto le diverse cinematografie nazionali si sono impegnate su alcuni filoni comuni: i film di guerra e un cinema di propaganda che spesso svolgeva un'operazione revisionista della storia jugoslava. In questo panorama fa eccezione la Slovenia, piccola repubblica ex-jugoslava che era riuscita a ottenere l'indipendenza nel 1991 senza grandi spargimenti di sangue, in una guerra che si era risolta in breve tempo. Nonostante la chiusura dello studio jugoslavo Viba Film (il sistema si basava sulla decentralizzazione della produzione, per cui ogni regione aveva il proprio studio di riferimento), il paese poteva contare sulla buona tradizione di alcune istituzioni come l'Accademia e la Cineteca a Lubiana, e la rivista di studi cinematografici "Ekran"; successivamente la creazione del fondo pubblico Filmiski Sklad segnò il riavvio di una produzione più stabile. Mentre le altre cinematografie mantengono la guerra come fonte di ispirazione principale, il cinema sloveno ha quasi evitato l'argomento; l'unico titolo rilevante a riguardo è Felix (1996) di Božo Šprajc. Alla fine degli anni '90 i cineasti sloveni erano già sui temi della contemporaneità, raccontando un paese in profondo mutamento sociale che si stava sempre più avvicinando all'Europa. Negli anni 2000 i giovani registi (tra cui i più importanti rimangono Damjan Kozole, Jan Cvitkovič, Metod Pevec e Igor Šterk) che si sono distinti dopo l'indipendenza, hanno continuato a raccontare l'identità di un paese a metà tra il passato jugoslavo e i nuovi standard di vita europei, una società fatta di apolidi, disoccupati, emarginati e studenti che faticano a riconoscersi nella nuova identità capitalista.

Le altre repubbliche furono coinvolte in lunghi conflitti, alcuni terminarono solo alla metà degli anni '90, nel caso di Serbia e Montenegro nel 1999 con i bombardamenti della NATO, fino ad arrivare alla dichiarazione d'indipendenza del Kosovo nel 2008. Nel corso degli anni '90 i film di propaganda furono il risultato di una politica nazionalista che guardava ai fatti della seconda guerra mondiale, proponendo miti storici di supremazia delle singole nazioni sulle altre. Questi film, spesso trasmessi in televisione, insieme agli altri mass media, hanno giocato un ruolo fondamentale nella formazione delle coscienze collettive delle diverse popolazioni in guerra, contribuendo a creare l'immagine di un nemico vicino e un sentimento di paura per la minaccia imminente. Per fare solo due esempi, ricordo in Croazia i film di Jakov Sedlar, il regista più famoso del regime di Tuđman21, e in Serbia Nož (The knife, 1999) di Miroslav Lekić, film di esaltazione del fascismo serbo. A differenza del presidente Tito che aveva puntato molto la sua propaganda soprattutto sui film di guerra partigiani, ma aveva mantenuto una certa qualità nella formazione degli autori e delle istituzioni, un'apertura alle co-produzioni internazionali, un'agenda ricca di eventi dedicati a diversi generi cinematografici e un'organizzazione della produzione, i governi nazionalisti successivi non avevano dimostrato alcun interesse di investimento in una produzione

di qualità, dove la televisione era diventata il principale finanziatore di film, operando sotto il controllo dei diversi regimi.

In Croazia il risultato fu un completo insuccesso di pubblico e l'assenza di riconoscimenti internazionali. Solo negli anni 2000, dopo la morte di Tuđman, il cinema croato ha visto una nuova stagione di autori chiamata "Young Croatian Film"22, giovani cineasti che si erano diplomati all'Accademia avevano cominciato a raccontare la guerra e il dopoguerra in modo diverso, liberi dalla retorica nazionalista, influenzati invece da un cinema europeo, dalla corrente sperimentale e indipendente americana e da una sensibilità moderna e urbana. Tra questi ricordo Vinko Brešan, Lukas Nola, Zrinko Ogresta, Ognjen Sviličić, Arsen Ostojić, Goran Rusinović.

Serbia e Montenegro rimasero uniti fino al 2006 (data del referendum per l'indipendenza del Montenegro) sotto il nome di Repubblica Federale di Jugoslavia e poi di Unione Statale. Gli alti costi bellici, le sanzioni imposte a partire dal 1992, l'isolamento internazionale e il controllo del regime di Milošević avevano ridotto drasticamente produzione e distribuzione, nonostante Belgrado fosse il centro più importante della cultura cinematografica jugoslava. In questo pesante clima interno e esterno la RTS - Radio Televisione Serba rimaneva la principale fonte di finanziamento pubblica per il cinema, sotto il controllo del regime. Nonostante le strette maglie della censura e della propaganda, e grazie anche - aggiungerei - alla forte tradizione cinematografica di eredità jugoslava, soprattutto in Serbia si è sviluppato un cinema di resistenza che ha trovato un successo di pubblico in patria e un riconoscimento internazionale. I maestri del cinema jugoslavo e dell'Onda nera23, come Dušan Makavejev, Želimir Žilnik, Živojin Pavlović, continuarono a realizzare film anche negli anni '90. Dalla seconda metà del decennio alcuni autori meno conosciuti e personalità affermate (come Goran Marković e Goran Paskaljević) trovarono il modo di produrre film in opposizione al regime di Milošević, fondando piccole case di produzione indipendenti o grazie a coproduzioni con alcuni paesi occidentali. Tra il 1995 e il 1998 tre opere in particolare scatenarono un acceso dibattito intorno al cinema serbo: Underground (1995) di Emir Kusturica, Lepa sela lepo gore (Pretty villages pretty flame, 1996) di Srđan Dragojević, e Bure

baruta (La polveriera, 1998) di Goran Paskaljević, film di cui mi occuperò nei capitoli successivi.

Nell'ultimo decennio il cinema serbo si è distinto per una nuova corrente di registi, usciti dalla Facoltà di Arti Drammatiche di Belgrado, che sta proponendo un cinema urbano, sociale, ambientato soprattutto nei nuovi quartieri della capitale, aperto alle sperimentazioni tecniche e impegnato a raccontare le generazioni più giovani intrappolate tra il desiderio di lasciare il paese e il tentativo di superare un passato pesante ereditato dai loro padri.

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Ivo Skrabalo, Young Croatian Film, in Kinoeye, 25 ottobre 1999, http://www.ce- review.org/99/18/kinoeye18_skrabalo.html (ultimo accesso: settembre 2017)

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Corrente cinematografica che si sviluppò a partire dalla prima metà degli anni '60, caratterizzata da influenze del nuovo cinema europeo del secondo dopoguerra e da temi di aperta critica al regime titino. Tra i registi dell'Onda nera: Živojin Pavlović e Želimir Žilnik sono i registi di film che analizzerò più avanti nei capitoli dedicati a Vukovar e a Belgrado.

L'assedio di Sarajevo è stato il punto di partenza per molti registi del nuovo cinema bosniaco. Durante la guerra infatti nella capitale nacquero alcuni gruppi di intellettuali e artisti che rimasero nel paese e mantennero vivo lo spirito multiculturale della città, documentando "dall'interno" le terribili condizioni di vita della popolazione bosniaca sotto i bombardamenti. Il gruppo più importante fu il SaGA (Sarajevo Group of Authors) nato su iniziativa di alcuni registi tra cui Ademir Kenović e composto soprattutto da studenti dell'Accademia di Sarajevo che oggi sono tra i nomi più importanti del cinema contemporaneo dell'area. Tra tutte le cinematografie ex-jugoslave quella bosniaca è decisamente la più premiata nei festival internazionali, basti pensare al premio oscar di Danis Tanović (nel 2001 con No man's land), l'orso d'oro a Berlino a Grbavica (Il segreto di Esma, 2006) di Jasmila Žbanić e al gran premio della critica a Cannes per Aida Begić con Snijeg (Snow, 2008). La Bosnia Erzegovina ospita anche uno dei più prestigiosi festival della regione balcanica e dell'est Europa, il Sarajevo Film Festival, fondato nel 1993 sotto i bombardamenti della capitale. Nonostante siano trascorsi più di vent'anni dalla fine della guerra il cinema bosniaco rimane ancora molto legato ad una narrazione non tanto del conflitto, quanto del difficile dopoguerra e dei traumi lasciati dalla pulizia etnica, come vedremo nei prossimi capitoli.

Il cinema macedone è stato il primo a raggiungere il successo internazionale, con Before the rain (Prima della pioggia) di Milčo Mančevski che nel 1994 vinse il leone d'oro al festival di Venezia. Dalla dichiarazione di indipendenza nel 1991 il paese ha avuto una produzione molto limitata, soprattutto a causa della situazione di instabilità politica per la difficile convivenza tra macedoni e albanesi e le tensioni con la Grecia. In questo panorama spiccano solo alcuni nomi di autori come Antonio Mitrikeski e Teona Strugar Mitevska.

Infine è difficile parlare di una produzione cinematografica kosovara. Il paese è molto giovane e il mercato interno è praticamente inesistente, con solo tre o quattro sale in tutto il territorio24, si tratta di una cinematografia che probabilmente vedremo svilupparsi nei prossimi anni, i due film più importanti dell'ultimo decennio sono Kukumi (2005) e Three Windows and a Hanging (2014) di Isa Qosja.

Questa breve introduzione vuole tracciare un quadro generale su alcuni temi e sviluppi delle cinematografie che hanno dovuto distinguersi dalla matrice comune jugoslava. Ci conduce al cuore della ricerca dove farò un passaggio contrario rispetto alla generalizzazione operata sotto il termine "cinema balcanico": entrerò nel particolare di alcuni fatti e luoghi di queste guerre per osservarne i risvolti nella produzione cinematografica, tenendo sempre come bussola alcuni concetti di sociologia della memoria e del trauma e il loro rapporto con il cinema.

24 Jurica Pavičić, Post-Yugoslav Film: Style and Ideology, in Moveast Workshop, 2012 http://www.moveast.eu/85/post-yugoslav-film-style-and-ideology (ultimo accesso maggio 2017)

2. Introduzione metodologica alla ricerca sulle cinematografie delle