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Parte 2 IL CINEMA TRA RAPPRESENTAZIONE STORICA E

2. Introduzione metodologica alla ricerca sulle cinematografie delle guerre

I capitoli che seguono portano la ricerca nel campo del cinema post-jugoslavo, caso studio che si è voluto analizzare attraverso gli strumenti forniti, nella prima parte, dagli studi sulla memoria e sul trauma: le diverse forme di memoria e di oblio e le politiche memoriali in atto nei diversi contesti post-bellici, il rapporto tra storia e memoria, le confluenze nel ricordo tra esperienza biografica e valore collettivo, le rievocazioni nostalgiche del passato, le teorie di analisi del trauma storico, lo studio dei mediatori della memoria culturale.

Molte di queste teorie sono state elaborate nel corso del '900 come conseguenza dei cambiamenti storici avvenuti dopo due guerre mondiali, l'avvento di regimi totalitari e il crollo del blocco comunista in Europa, anche se in quella stessa Europa "pacifica", che si avvicinava all'Unione Europea, il secolo si è chiuso con le terribili guerre di smembramento della Jugoslavia. Le vicende dell'area ex-jugoslava sono state scelte come terreno di indagine per l’osservazione di politiche della memoria e di rielaborazione del trauma sia per il loro ruolo nella storia europea sia per la loro influenza sulla produzione artistica. Le guerre dell'ex-Jugoslavia sono state i conflitti armati più gravi avvenuti sul suolo europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale, hanno inoltre modificato l'assetto geopolitico del continente e della successiva Unione. Le conseguenze sociali e culturali lasciate da quei conflitti richiamano con urgenza gli strumenti della memoria e della rielaborazione artistica per capire e interpretare un nuovo dopoguerra. In questi ultimi vent'anni dalla fine dei conflitti si è vista la necessità di aprire una riflessione sulla memoria di quelle guerre, soprattutto nel campo della produzione artistica che continua a manifestare l'attualità del tema nelle società post-jugoslave.

In questa seconda parte della ricerca gli strumenti teorici della memoria e del trauma diventano le "guide" per orientarsi nella complessa storia delle guerre jugoslave recenti e farne emergere le tematiche più importanti affrontate anche dalla produzione cinematografica. Tra tutte le arti il cinema è uno dei settori più importanti della produzione culturale jugoslava e post, per i numerosi riconoscimenti che gli autori locali hanno ottenuto nel panorama dei festival internazionali, inoltre i temi della guerra e del dopoguerra sono le questioni più ricorrenti nelle diverse cinematografie. Tra le arti il cinema si dimostra un mezzo efficace per la trasmissione e la rielaborazione di un patrimonio memoriale complesso e controverso e nella formazione di un immaginario, sia per la capacità del film di raggiungere un numero consistente di persone, tra i pubblici locali e internazionali, sia per i meccanismi di coinvolgimento sensoriale dello spettatore che rendono il messaggio del film più memorabile.

Oltre alle risorse bibliografiche e filmiche indicate nello specifico per ogni capitolo, altre fonti importanti della ricerca sono state le interviste raccolte sul campo. Durante gli studi di dottorato ho concluso due periodi di ricerca all'estero, il primo della durata di tre mesi (aprile - luglio 2016) presso l'Accademia di arti drammatiche di Sarajevo, e il secondo di sei mesi (ottobre 2016 - marzo

2017) presso Faculty of Arts dell'Università di Belgrado, con una borsa di studio del programma Erasmus SUNBEAM. I periodi di ricerca a Sarajevo e a Belgrado sono stati un'occasione preziosa per la raccolta di materiale bibliografico e filmico, per la visita e l'osservazione dei luoghi che poi ho inserito nell'analisi e soprattutto per lo svolgimento di interviste a registe e registi, che ho inserito tra le fonti principali. A Sarajevo e a Belgrado ho incontrato la maggior parte dei registi trattati in questa ricerca, raccogliendo quindici interviste tra Bosnia e Serbia. Gli intervistati sono: Stefan Arsenijević, Janko Baljak, Aida Begić, Srđan Dragojević, Ahmed Imamović, Nihad Kreševljaković, Goran Marković, Goran Paskaljević, Danis Tanović, Ines Tanović, Mila Turajlić, Srđan Vuletić, Pjer Žalica, Jasmila Žbanić, Želimir Žilnik. Lo schema di ogni intervista è stato strutturato con quesiti specifici relativi ai film e sulla base di tematiche e teorie della memoria e del trauma; inoltre a tutti è stata posta la domanda se, secondo loro, il cinema potesse offrire una sorta di "terapia della memoria" di fronte al trauma della guerra, il quesito alla base di questa ricerca. Le interviste sono state svolte in inglese e le trascrizioni sono riportate interamente in Appendice, nei diversi capitoli ho citato alcune risposte degli intervistati in relazione all'analisi dei loro film. L'esperienza è stata determinante ai fini della selezione dei film e dei luoghi che ho trattato nei capitoli successivi.

Questa parte della ricerca prevede sei capitoli: i primi quattro sono dedicati ciascuno a una città che ha avuto un ruolo specifico nella guerra dell'ex-Jugoslavia e nella sua memoria; sono poi presenti due capitoli più trasversali geograficamente: uno è dedicato al recupero della storia passata attraverso personaggi, temi e materiali d'archivio per interpretare il presente, l'ultimo riguarda la rappresentazione del corpo come mediatore di memoria.

Le quattro città sono: Vukovar, Sarajevo, Srebrenica, Belgrado. Ciascuno dei capitoli dedicati alle città si compone di una ricostruzione del contesto storico e dell'analisi cinematografica. La ricostruzione storica riguarda i fatti, le cause e le conseguenze sociali delle guerre avvenute in quei territori; può essere utile al lettore per comprendere il valore simbolico di ciascun luogo all'interno delle dinamiche belliche, e per fornire gli strumenti storici utili alla lettura dell'analisi filmica. Per l'analisi cinematografica sono stati considerati documentari e lungometraggi di finzione. Le opere sono state selezionate per il loro legame rappresentativo con il luogo e con le tematiche della memoria e del trauma, e per il ruolo nella storia della cinematografia. Per ogni capitolo saranno illustrate più in dettaglio le scelte relative ai testi filmici e bibliografici.

La decisione di questi luoghi ha reso possibile il racconto di un periodo storico così complesso come le guerre nei Balcani, restituendo una varietà di prospettive sul clima sociale e culturale che l'ha caratterizzato, e soprattutto ha permesso di mettere in relazione quel periodo con le tematiche sulla memoria e con la produzione cinematografica. Dallo studio di alcuni testi fondamentali sulle guerre in ex-Jugoslavia, in particolare quelli di Jože Pirjevec, Alessandro Marzo Magno, Matjaz Klemenčič e Mitja Žagar, Stefano Bianchini, oltre a quelli specifici per ogni conflitto, ho scelto quattro "luoghi-evento" che offrissero diversi punti di vista sui fatti degli anni '90 e le loro conseguenze e che fossero particolarmente significativi per la produzione cinematografica. Nelle

guerre dei Balcani ogni conflitto ha il suo luogo-simbolo, siti che hanno rappresentato quanto avvenuto in larga scala sul territorio nazionale oppure che sono legati agli episodi più tristemente famosi nel racconto fatto dai media internazionali.

Per le vicende belliche della Croazia ho scelto Vukovar, il cui assedio è uno dei primi forti segnali di una distruzione, sottovalutata a livello internazionale, che coinvolgerà gli altri territori ex- jugoslavi, e che anticipa alcune dinamiche riconoscibili in quello più famoso di Sarajevo. Ho deciso di analizzare tre film di finzione, due serbi e uno croato, realizzati all'inizio degli anni '90: Dezerter (The deserter, 1992) di Živojin Pavlović, Vukovar, jedna priča (Vukovar, a story, 1994) di Boro Drašković e Vukovar se vraća kući (Vukovar: the way home, 1994) di Branko Schimdt. Essi rappresentano un caso particolare di "battaglia memoriale" cinematografica, sul piano regionale e internazionale, intorno alla rappresentazione dell'assedio della cittadina. All'inizio degli anni '90, per i riconoscimenti ricevuti anche all'estero, questi tre film sono le opere di finzione più importanti sulla guerra in Croazia e a Vukovar. Sono particolarmente interessanti per due aspetti che caratterizzano la formazione di una memoria collettiva della guerra: la "costruzione" della figura del nemico e l'influenza dell'immagine televisiva sulla rappresentazione di Vukovar. Dal punto di vista delle fonti bibliografiche, l'opera di Marco Dinoi è stata un'utile guida nell'analisi del rapporto tra immagine finzionale e memoria storica; inoltre attraverso gli scritti di Metz e Musatti ho approfondito i meccanismi di coinvolgimento dello spettatore per la formazione di una memoria collettiva cinematografica. I libri di Nicole Janigro e Slavenka Drakulić sono stati preziosi contributi per comprendere il ruolo dell'immagine televisiva nella guerra in Croazia, attraverso le loro raccolte di testimonianze e le osservazioni sociologiche sulla società jugoslava in transizione. Per una riflessione sulla costruzione cinematografica del nemico e sul rapporto tra guerra etnica e media di particolare importanza sono gli studi di Rada Iveković e di Dubravka Žarkov. Ho osservato come questi due aspetti, presenti nei tre film degli anni '90, ritornino anche nella produzione croata di finzione più recente. Ho scelto i due esempi più significativi dell'ultimo decennio: Zvizdan (Sole

alto, 2015) di Dalibor Matanić riprende le stesse inquadrature fatte su Vukovar per mostrare i segni

della guerra nella regione della Lika, Crnci (The Blacks, 2009) di Goran Dević e Zvonimir Jurić è un film di guerra costruito sulla "presenza" assente di un nemico sconosciuto. In questa riflessione sul cinema croato contemporaneo la raccolta di saggi a cura di Aida Vidan e Gordana P. Crnković mi ha offerto numerosi spunti. Infine a conclusione del capitolo su Vukovar mi sono soffermata sull'opera del documentarista serbo Janko Baljak, Vukovar - poslednji rez (Vukovar-Final cut, 2006). Ho scelto questo documentario perché è un esempio unico nel recupero delle immagini di repertorio sulla guerra a Vukovar e, grazie al lavoro congiunto di una troupe serba e una croata, riesce a denunciare i meccanismi della propaganda e a dare un nuovo significato ai materiali d'archivio. Oltre al saggio di Aleksandra Milovanović sull'uso dei filmati di repertorio, riguardo al film di Baljak una fonte molto utile è stata l'intervista che gli ho fatto a Belgrado, in cui mi ha illustrato il processo di lavorazione e le reazioni dei diversi pubblici alle proiezioni del film. Il suo lavoro è un

esempio di come, di quella stessa guerra, possa essere costruita una memoria cinematografica alternativa, attraverso le immagini e i filmati usati all'epoca dalla propaganda statale serba e croata.

Sarajevo è il "luogo della memoria" più rappresentativo della guerra in Bosnia Erzegovina, dove la resistenza dei cittadini durante il lungo assedio è la narrazione principale su cui si è costruita la memoria pubblica della città dopo la ricostruzione. Oltre ai volumi già citati, per la scrittura del quadro storico sono state fonti preziose anche le testimonianze pubblicate dai giornalisti Zlatko Dizdarević e Azra Nuhefendić. Sarajevo è un caso cinematografico eccezionale in relazione alla storia del suo assedio: molti artisti e registi sono rimasti in città durante la guerra e hanno documentato la vita dei cittadini attraverso la macchina da presa, lasciando un'incredibile testimonianza filmata dall'interno della tragedia. Tra questi ho analizzato alcune opere del gruppo più famoso e attivo in quegli anni, il SaGA (Sarajevo Group of Authors), e in particolare i film poi confluiti in due progetti collettivi, presentati alle televisioni e ai festival internazionali. Nella panoramica sui diversi lavori del SaGA il libro di Bill Nichols, sugli stili e le tipologie del documentario, è stato molto utile per definire le tecniche e i generi adottati nella rappresentazione di Sarajevo. Nel rapporto con una narrazione memoriale della guerra, oltre alle pellicole del SaGA, un altro lavoro unico è il documentario Sjećaš li se Sarajeva? (Do you remember Sarajevo?, 2002) di Nihad e Sead Kreševljaković, realizzato attraverso un montaggio di filmati amatoriali, girati dai cittadini di Sarajevo durante l'assedio. Tutti questi lavori stimolano una riflessione sul rapporto tra immagine documentaria e realtà e sul valore della testimonianza storica da una prospettiva interna alla guerra. Inoltre i cortometraggi di Srđan Vuletić e Mirza Idrizović hanno permesso di sviluppare un discorso sui processi di rielaborazione del trauma personale attraverso la macchina da presa. Per considerare il valore storico di questi documentari, i riferimenti bibliografici sono stati: la categorizzazione dei film storici ad opera di Robert A. Rosenstone, e gli scritti di Dziga Vertov, Pierre Sorlin, Edgar Morin, Peppino Ortoleva e Gianni Rondolino sul rapporto tra cinema e realtà e sul processo di formazione di un immaginario cinematografico. Riguardo ai temi della testimonianza e della narrazione autobiografica di fronte al trauma storico, che questi film presentano, sono stati riferimenti essenziali le riflessioni di Annette Wieviorka sulla Shoah, e i saggi di Patrizia Violi e Alice Cati. L'immaginario dell'assedio creato da questi documentari è stato ereditato anche dal cinema di finzione che ha rappresentato Sarajevo. A riguardo ho confrontato il primo film di finzione bosniaco girato nella città ancora distrutta, Savršeni krug (Il cerchio perfetto, 1997) di Ademir Kenović, con l'opera di Michael Winterbottom Welcome to Sarajevo (Benvenuti a

Sarajevo, 1997), per osservare quale immagine della città emerga dallo sguardo di un regista

locale rispetto alla visione di uno straniero. In questo confronto i riferimenti sono stati due studiosi che per primi si sono interessati al cinema balcanico e bosniaco e da anni continuano a occuparsene con grande acutezza: Dina Iordanova e Pavle Levi. Aggiungo che nello studio dei documentari in relazione ai temi della memoria e del trauma un'altra fonte molto importante sono

state le interviste che ho raccolto a Sarajevo. Questo mi ha permesso di arricchire l'analisi dei materiali filmici con le parole di Srđan Vuletić, Pjer Žalica e Nihad Kreševljaković sulla loro esperienza diretta e sul valore memoriale che acquistano oggi i loro film. Infine, partendo dalla visita di alcuni luoghi memoriali della città dedicati all'assedio, ho recuperato l'intervento di Neil J. Smelser sul trauma culturale e ho cercato di far emergere come l'immaginario cinematografico sull'assedio abbia contribuito alla trasmissione di un trauma culturale, attraverso il coinvolgimento affettivo dello spettatore, stimolato dal linguaggio cinematografico.

Srebrenica è il luogo del più grande massacro su base etnica avvenuto in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale e per questo imponeva una riflessione legata soprattutto allo studio del trauma. Se Sarajevo è il luogo-simbolo della guerra in Bosnia, Srebrenica è il sito di un trauma che non ha ancora trovato una forma di rielaborazione collettiva. Le politiche memoriali in atto a Srebrenica rendono la cittadina un caso emblematico per le forme di negazionismo e revisionismo che ruotano intorno all'applicazione del termine "genocidio", per descrivere il massacro che lì è avvenuto. Su questo tema gli interventi dello storico Guido Franzinetti hanno fatto da guida per il caso bosniaco. Per quanto riguarda il cinema invece la mia analisi è partita da un'osservazione maturata in questi anni di studio del cinema ex-jugoslavo: l'assenza di film di finzione, locali e internazionali, girati o ambientati a Srebrenica sul massacro avvenuto. Tale assenza indica la mancanza di un immaginario cinematografico specifico che permetta di dare una rappresentazione al trauma. Per chiarire il significato di questa mancanza ho utilizzato le teorie di Ann Kaplan e Ban Wang sul rapporto tra cinema e trauma, e dal punto di vista dei testi filmici ho analizzato Belvedere (2010) di Ahmed Imamović, l'unico film di finzione bosniaco che fa esplicitamente riferimento al dramma di Srebrenica, dislocando però la vicenda in un altro luogo e senza mettere in scena una narrazione di quello che è accaduto alle protagoniste. Anche in questo capitolo ho unito le fonti bibliografiche alle citazioni dell'intervista fatta al regista. Ho approfondito le connessioni tra trauma e cinema, confrontando il film di Imamović con Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais: i due film sono accomunati da una dislocazione del racconto rispetto al luogo del trauma e da una relazione estetica tra bellezza dell'immagine e orrore della guerra, ma si distinguono per la capacità di dare una narrazione al trauma, presente solo in Resnais. A riguardo ho ripreso le considerazioni di Cathy Caruth su Hiroshima mon amour. La mancanza di un immaginario finzionale su Srebrenica richiama il tema dell'irrappresentabile legato al trauma, che ho cercato di interpretare alla luce delle teorie di Dominick LaCapra sul passaggio da trauma storico a strutturale. Ho messo poi in relazione il paradigma dell'irrappresentabile di Srebrenica con gli studi sul cinema dell'Olocausto, fatti da Andrea Minuz, Shoshana Felman e Georges Didi-Huberman, in particolare sul film Shoah di Claude Lanzmann. Ho ritenuto l'idea di immagine-lacuna, proposta da Didi-Huberman, una possibile soluzione alla totale assenza dell'immagine sul dramma di Srebrenica.

Il quarto luogo simbolico di questa ricerca è Belgrado, rappresentativo della condizione della Serbia negli anni '90, durante il regime di Milošević. Belgrado inoltre è la capitale della produzione cinematografica, serba e jugoslava, e sede di un cinema di protesta al regime che ha denunciato le storture del nazionalismo e diffuso una forma di contro-memoria cinematografica. Nel quadro storico sono risalita alle origini del nazionalismo serbo e dell'ascesa di Slobodan Milošević fino ad arrivare alle più recenti conseguenze di una politica che ha sempre negato una partecipazione serba alla guerra, avvalendomi delle fonti specifiche di Catherine Lutard, Eric D. Gordy, Stevan K. Pavlowitch, Lea David, oltre alla testimonianza degli scrittori Filip David e Dušan Veličković. A partire dall'ambiguità, emersa nella parte storica, sulla posizione di Milošević riguardo al conflitto jugoslavo, l'analisi cinematografica comincia da Lepa Sela, Lepo Gore (Pretty Village, Pretty

Flame, 1996) di Srđan Dragojević. Si tratta di uno dei primi e più celebri film degli anni '90 ad

affrontare il tema della partecipazione serba alla guerra in Bosnia, raccontata dal punto di vista dei soldati serbo-bosniaci. Il film è molto interessante perché denuncia il fanatismo nazionalista attraverso una particolare costruzione del paesaggio sonoro, un aspetto che ho osservato attraverso le teorie sul sonoro cinematografico di Michel Chion e Uroš Čvoro, quelle sull'immaginario di Slavoj Žižek e Igor Krstić e gli studi sull'ideologia nazionalista di Milja Radović. Dina Iordanova ha coniato l'espressione "Belgrado come stato mentale" per un gruppo di film serbi, usciti nella seconda metà degli anni '90, che offrono un ritratto impietoso e violento della società urbana durante il regime. Tale definizione è stata il punto di partenza per delineare quale memoria di quel decennio emergesse dai film di autori che sono stati perseguitati per il loro cinema di opposizione. Dina Iordanova cita in particolare Rane (Wounds, 1998) di Srđan Dragojević, film sulla criminalità giovanile suburbana, e Bure Baruta (La polveriera, 1998) di Goran Paskaljević, film che affronta il tema della colpa, di cui ho proposto una rilettura sulla base delle teorie di Bernhard Giesen sul "trauma dei carnefici". A questi ho aggiunto anche un'analisi di alcune opere di Goran Marković, regista famoso in epoca jugoslava, poi perseguitato dal regime di Milošević e costretto per anni a nascondersi. Il regista ha usato il cinema per raccontare e rielaborare la propria storia nel docu-fiction Serbie, année zéro (Serbia, year zero, 2001). Ho descritto l'operazione di ricomposizione autobiografica fatta da Marković attraverso le modalità di "autobiografia visuale" proposte da Annette Kuhn. Sull'opera di Marković inoltre ho tenuto come riferimenti bibliografici: gli interventi di Daniel Goulding sulle pellicole più recenti, e quelli di Ranko Munitić e Maja Medić che offrono una panoramica sulle evoluzioni della sua filmografia. Concludo questa parte sul cinema di opposizione con Ljubav i drugi zločini (Amori e altri crimini, 2008) di Stefan Arsenijević, uno dei film contemporanei che eredita una memoria del clima sociale degli anni '90 e dove è sempre la città di Belgrado lo specchio di trasformazioni e sopravvivenze. Oltre a Dina Iordanova, anche Andrew Horton e Igor Krstić si sono a lungo occupati della produzione cinematografica serba degli anni '90, insieme al critico Jurica Pavičić, che ha descritto con grande precisione i cambiamenti avvenuti negli ultimi vent'anni. La produzione cinematografica serba ha sviluppato in modo originale anche il

tema della nostalgia. Concludo questo capitolo con tre film che fanno del recupero dell'immagine di Tito forme di resistenza al clima nazionalista e a una rimozione della memoria jugoslava. Le tre pellicole scelte rappresentano tre diversi punti di vista sul passato jugoslavo: Tito po drugi put