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Il controllo dei corpi e delle azioni sociali attraverso la medicalizzazione: la biopolitica

Il processo di medicalizzazione non può essere inteso come un mero sconfinamento della pratica medica all’interno della vita dell’uomo utile solo a far guadagnare sempre più potere ai medici, ma essa deve essere intesa in senso molto più ampio, come forma di governo del soggetto il quale si concepisce attraverso i termini della medicina e dona significato alla propria esistenza grazie alla stessa pratica terapeutica. Tale forma di senso ragiona nell’ottica del deficit ed instaura nel soggetto il bisogno continuo di ottenere attraverso essa le risorse necessarie ad esprimere il proprio potenziale all’interno della vita, tanto che lo stesso soggetto concepisce la propria libertà come pratica mediata dalle tecniche mediche che pongono il veto o l’assenso alla volontà stessa dell’uomo. Non a caso Furedi sostiene che: “la terminologia da

deficit […] fa ormai parte del linguaggio della collettività e viene utilizzata per l’interpretazione della realtà quotidiana. Dalla nascita al matrimonio, all’esperienza

genitoriale, al lutto, la vita viene interpretata alla luce dell’etica terapeutica. […] il paradigma sovrano della comprensione morale è sostanzialmente terapeutico99”.

Questo modo di concepirsi dell’uomo mediato dalla terminologia e dai valori medici può essere sfruttato per dirigere e organizzare la vita collettiva in società ed abbiamo messo in luce, attraverso il pensiero di Conrad e degli altri autori citati, come la medicalizzaizone della vita possa essere indirizzata dalla pratica politica ad attuare una normalizzazione delle azioni perpetuate dai soggetti. Ne segue che la medicalizzazione della vita sia un fenomeno più complesso di quello che appare a prima vista e che rimandi ad una modalità differente di esercitare il potere politico, il quale non vuole più unicamente sanzionare il giusto e l’ingiusto, ma scopre che per mezzo della medicina e dell’ideale di salute può creare i comportamenti adeguati alla vita in società. Questa forma di governo, analizzata in particolare negli anni ’80, prende il nome di biopolitica. Laura Bazzicalupo, importante studiosa di biopolitica, definisce la stessa forma di governo con le seguenti parole: “la biopolitica è

chiamata in causa quando con frequenza sempre maggiore la politica si occupa di problemi di vita, quando nella politica diventa centrale il corpo di quelli che hanno il potere e di quelli che subiscono il potere […] sono fenomeni politici nei quali ne va direttamente della vita biologica degli uomini, dell’uomo in quanto essere vivente. Si tratta di fenomeni assai diversi: alcuni nel cono d’ombra della morte e della violenza, altri sembrano rimandare alla sollecitudine accattivante della terapia e del culto della vita. Eppure questi fenomeni hanno in comune la curvatura della politica in direzione della vita biologica: come se la politica avesse preso in carico la gestione della vita biologica inserendola in un programma di protezione e di incremento che sconfina nella produzione dell’umano e nella domesticazione dell’essere […] selezionando e rigettando nell’in-umano e nel subumano quelle vite patogene che la minacciano o che semplicemente sono inadeguate100”.

Le parole di Bazzicalupo sono chiarissime nel mostrare come la politica utilizzi la medicina per entrare nella vita biologica al fine di estendere il proprio potere al corpo vivo del soggetto, il quale non viene più definito in chiave morale come “onesto” o “disonesto”, ma viene definito in chiave naturale come “normale” o “anormale”. Detto con altre parole, il potere politico coglie che esiste una forma più vantaggiosa di amministrare il proprio potere garantendo la sicurezza sociale e il rispetto delle leggi, che proviene dalla possibilità non solo di punire i comportamenti sbagliati, ma, anche, di creare i comportamenti corretti sulla base della divisione naturale-patologico che porta il soggetto ad instaurare dei meccanismi di soggettivazione medicalizzata che conferiscono valore veritativo e di giustizia a tale

99 F. Furedi, Il nuovo conformismo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 17 100 L. Bazzicalupo, Biopolitica, Carocci, Roma 2010, p. 13 e p. 20

dicotomia. Il governo biopolitico, che si pone quale primo focolare del meccanismo di medicalizzazione, ha iniziato a porsi nella società alla fine del XVIII, quando prende forma il capitalismo industriale e l’esigenza della società è quella di avere cittadini in salute che possano partecipare attivamente alla vita lavorativa. Su questo argomento risultano nuovamente importanti le parole di Franca Ongaro, la quale scrive: “salute e malattia

cominciano a porsi come problemi di competenze dell’organizzazione sociale quando, nella fase di strutturazione degli stati e di avvio all’industrializzazione, la necessità di controllo e di coordinamento della popolazione e dei diversi apparati politico-amministrativi porta ad una divisione netta delle competenze: la malattia alla medicina e alla scienza, la salute all’organizzazione amministrativa della sanità, ma soprattutto, all’organizzazione del lavoro. Per la prima volta nella storia, la salute della popolazione diventa un progetto, un obbiettivo da raggiungere, un valore in sé101”.

Le parole di Ongaro sono supportate dalla ricerca di Klaus Dörner, il quale nell’opera Il

Borghese e il Folle (1969), mette in rilievo come con l’ascesa della borghesia con gli ideali

che essa porta con sé inizia un processo di trasformazione del mondo che vedrà porre l’elemento economico e produttivo al centro della propria esistenza, spingendo lo Stato ad adeguarsi a tale nuovo esercizio del potere che culmina nella volontà di avere una popolazione sana. Tale ultimo asserto, si spiega alla luce del fatto che essere sani vuol dire essere produttivi, ne segue che la popolazione inizia ad essere indagata in termini di produttrice di ricchezza. Per tal ragione la medicina diventa un mezzo politico che attraverso l’idea naturale di salute fa interiorizzare dei comportamenti, i quali permettono all’individuo di eliminare i propri deficit, intesi come alterazioni, che non gli consentono di esprimere le sue potenzialità all’interno del mondo sociale dominato dalla volontà di produrre ricchezza. Dunque, il potere comincia ad esercitarsi nell’ottica della discriminazione tra normale e anormale, che permette di scindere la popolazione in chi deve essere emarginato, perché non utile alla società, e chi può continuare il proprio processo interno alla società stessa. Come asserisce la studiosa Antonella Cutro, che ha curato un libro che ripercorre passo passo le teorie e gli sviluppi di tale forma governativa incentrata sul biologico,: “la nascita della

biopolitica è presentata nel segno di un cambiamento epocale. Essa è legata ad una trasformazione che il riguarda il modo in cui si esercita il potere e l’emergere di nuovi oggetti di governo […] la nota formula al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte, indica che, nella modernità, il potere si esercita meno in termini di decisioni diretta sulla vita e più come decisione indiretta

di cura e accrescimento dei viventi. In secondo luogo, questa trasformazione si riflette anche sui criteri di individuazione del soggetto politico, che non è più esclusivamente soggetto di diritto, il popolo, ma soggetto bio-economico: la popolazione102”. A partire dal XVIII

secolo103 il concetto di salute e malattia diviene un vero e proprio orizzonte veritativo che costruisce e dona senso ai fatti sociali, legando la capacità di governo alla capacità di mantenere la popolazione sana e in grado di esercitare la propria forza produttiva. La medicina diventa, perciò, una delle fonti principali di questa modalità di governo, tanto che già nell’ottocento Paul-Augustin-Olivier Mahon riconosce il carattere poliziesco e di utilità al disciplinamento dei corpi della medicina, scrivendo nel suo celebre compendio di Medicina

legale e Polizia medica (1801) : “la Polizia medica è una delle parti più importanti di quella scienza che è chiamata Polizia, e dalla quale dipendono, in un corpo politico, l’intera sicurezza e la felicità dei membri che la compongono. La Polizia medica è quella che indica ai legislatori i mezzi e le regole certe per conservare la sanità agli uomini stretti in società104”.

Si può così cogliere come lo studio sulla medicalizzazione abbia per oggetto le dinamiche di potere che si servono del paradigma medico al fine di attuare delle strutture biopolitiche finalizzate al controllo della popolazione e alla sicurezza della stessa. Malattia, terapia, guarigione, salute e normalità non sono solo delle parole proprie del gergo medico, ma diventano sin dalla fine settecento vocaboli dell’analisi politica della vita e della gestione della stessa.

11) Lo stato terapeutico: la medicalizzazione come cornice concettuale e

morale della nostra epoca

Abbiamo visto come il fenomeno della medicalizzazione della vita non possa essere letto come il solo abuso della professione medica, che tenta di realizzare il proprio profitto tramite la colonizzazione di sempre nuovi aspetti della vita, ma esso nasca alla fine del XVIII come frutto del connubio tra esigenze economiche, dettate dalla presa di potere della borghesia, e quella di assicurare la stabilità dello stato sociale che regge l’impulso economico. Ne segue che studiare il fenomeno della medicalizzazione della vita voglia dire entrare all’interno del

102 A. Cutro, Biopolitica, Ombre corte, Verona 2005, p. 11

103 Per un analisi dettagliata dello sviluppo del termine biopolitica rimando all’imprescindibile testo di R.

Esposito, Bios, biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004

concetto di biopolitica dei corpi, ovvero di questo nuovo modo, instaurato alla fine del settecento, di legare la situazione politica al concetto naturale di salute privata e pubblica. L’andamento e lo sviluppo della nostra società ha rinforzato sempre più tale paradigma tanto che è emersa la volontà non procrastinabile di intervenire nella vita dei soggetti per garantire l’ordine sociale e, di pari passo, per garantire l’ordine economico. A questo proposito Nikolas Rose scrive: “queste tecnologie per il governo dell’anima non operano schiacciando la

soggettività […] cercano di allineare gli obbiettivi politici, sociali e istituzionali con i piaceri e i desideri individuali e con la felicità e la realizzazione di sé. Il loro potere sta nella capacità di offrire degli strumenti per mezzo dei quali la disciplina del sé – da parte degli altri e di noi stessi – può essere armonizzata con i principi politici, le idee morali e le esigenze del mondo contemporaneo105”. Le parole di Rose colgono nel segno e si pongono ad

emblema della biopolitica che offre un terreno fertile per la medicalizzazione, la quale non vuol reprimere, ma vuole creare dei comportamenti che possano adattarsi alle esigenze contemporanee, dove l’imperativo è ancora retto dal valore naturale del concetto di salute e dalla possibilità, proprio come indicato da Claud Bernard, di poter quantificare e calcolare lo stesso valore di salute. Tale valore, come abbiamo visto, diviene funzionale all’implementazione del controllo sociale, dunque si erge a fattore fondamentale che regge il potere politico, ma allo stesso tempo rendendo il corpo visibile, intelligibile e manipolabile, si sono generati nuovi rapporti tra vita e commercio che hanno permesso ai produttori di tecnologie della salute di collegarsi nel processo politico di produzione del capitale106. Tale rapporto viene messo in luce dallo psichiatra, storico ed intellettuale di origini ungheresi Thomas Szasz, il quale all’interno dell’opera The Theology of Medicine: The Political-

Philosophical Foundations of Medical Ethics (1977) e delle successive The Therapeutic State

(1984) e Pharmacracy: Medicine and Politics in America (2001) asserisce che la democrazia è stata soppiantata da una farmacrazia, ovvero dalla possibilità di un connubio tra l’esigenza di sicurezza, propria del potere politico, e l’esigenza commerciale, propria di chi guadagna sulla vendita dei farmaci e delle tecnologie mediche. Il termine farmacrazia fu utilizzato da Szasz per la prima volta nel 1974 nel saggio Ceremonial Chemistry, dove si sottolineava come le leggi e le tendenze politiche utilizzassero il concetto di salute in maniera normativa al fine di medicalizzare ogni aspetto della realtà e quindi di riuscire a governare meglio. Szasz sostiene che la politica ha capito molto bene la valenza della medicina, cioè ha colto

105 N. Rose, Governing the Soul: The Shaping of the Private Self, Routledge, London 1990, p. 257

106 Su questo argomento vedi: V-K. Nguyen, Therapeutic citizenship, in Global Assemblages: Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problem, Blackwell, 2005; C. Waldby, The Visibile Human Project: Informatic Bodies and Posthuman Medicine, Routledge, London, 2000

l’importanza della dicotomia sano-malato, riuscendo così, tramite il concetto di sanità pubblica, ad escludere i comportamenti non voluti. Pertanto Szasz afferma che, come nelle teocrazie le persone erano indotte a credere che i loro problemi fossero di origine religiosa e dunque cercassero di risolverli ricorrendo a rimedi legati alla fede così nelle farmacrazie le persone vengono educate a credere che tutti i loro problemi siano di origine medica e che la soluzione consista nel ricorrere a cure mediche. Ne segue che la salute, il corpo, la mente, appartengano sempre meno alla persona e sempre più allo Stato e alla classe medica, in altri termini Szasz pone nelle sue opere l’essenza del concetto di medicalizzazione mostrando come esso si leghi totalmente alla biopolitica. Però, lo psichiatra ungherese compie un passo in avanti, sostenendo che proprio come lo Stato guadagna la governabilità tramite la medicalizzazione, così le case farmaceutiche e chi crea medicine e tecniche mediche ottiene grandi risorse dalla vendita dei propri prodotti. Per tal ragione Szasz mette in luce come le relazioni che regolano il fenomeno di medicalizzazione non siano a senso unico, poiché la tendenza a medicalizzare la vita viene alimentata sia dalla sfera politica propria dello Stato, sia dalla sfera economica propria delle case farmaceutiche: le due potenze si articolano in una relazione di potere che è impossibile da sciogliere. Dunque, per medicalizzazione della vita s’intende la possibilità di portare sempre nuove sfere nel campo veritativo della medicina, facendo ciò si proclama che la salute sia un concetto naturale e non normativo, quindi il campo della terapia medica, che per sua essenza cerca di fare il bene del paziente si allarga, in questo modo si creano i presupposti per governare e normalizzare i comportamenti in società, ma di pari passo si vendono sempre più farmaci che rispondono alle nuove patologie che si creano. Si può cogliere come il potere di normalizzazione della politica sia proporzionale ai guadagni delle case farmaceutiche e il grande merito di Thomas Szasz è stato quello di rilevare tale rapporto e di mostrare come non sia possibile identificare all’interno del processo di medicalizzazione un’unica fonte di potere, ma tale fenomeno è costruito e retto da una fitta rete di relazioni di potere. Inoltre, Szasz mette in luce come l’essenza del processo di medicalizzazione sia data dal farmaco, poiché esso rappresenta il simbolo e il vettore di tale fenomeno, ovvero se non esistesse la cura non potrebbe nemmeno esistere la possibilità di normalizzare. Come sostiene il filosofo francese François Dagognet il farmaco riveste per la nostra società la funzione di “catalizzatore sociale”, è ciò attraverso cui ci uniamo all’interno della società stessa, è il discendente delle antiche mitologie, ovvero uno sciamano che: “sa

guarire con un soffio, una pozione, una mistura, un sollevante infallibile […] quanto basta per dissolvere l’insana credenza che ne potrebbe scaturire: che una tale compressa

ristabilirebbe l’equilibrio spirituale, restituirebbe la gioia di vivere, anzi, un’esultanza improvvisa e illimitata107”.

Proprio come sottolinea Dagognet, il farmaco è diventato l’ausilio indispensabile per ristabilire la nostra naturalità, per far sì che non solo ci uniamo in società, ma che la nostra unione sia garantita dalla possibilità di esprimere le nostre normali competenze naturali. L’analisi di Szasz non ha solo il merito di mettere in luce come il farmaco si collochi a vettore fondamentale del processo di medicalizzazione e sia ciò che regge la possibilità stessa di effettuare tale processo, evidenziando la relazione di potere e di guadagno, ma è anche colui che ne mostra come la politica deve continuamente aiutare e implementare la vendita di farmaci al fine di potere governare meglio. Per chiarire meglio tale affermazione si può far riferimento agli antidepressivi, infatti dall’ampia diffusione di tali farmaci, oltre alle case farmaceutiche, ne traggono profitto la psichiatria, che legittima il proprio agire, ma anche lo Stato. Infatti, come scrive Antonio Maturo, professore di sociologia della salute a Bologna e alla Brown University,: “se la depressione è unicamente un fatto di sbilanciamenti chimici

che hanno luogo nel nostro cervello, allora nessuno dovrà peritarsi a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, l’ambiente urbano, la coesione sociale. Se un bambino pestifero può guarire assumendo psicofarmaci allora non ci si dovrà occupare di politiche sociali a favore delle famiglie devastate o periferie degradate. L’assolutizzazione del lato biologico della malattia de-responsabilizza108”. A riprova di ciò basti pensare alla situazione

italiana contemporanea, la crisi economica, le mancate riforme, il tasso di disoccupazione molto alto ecc. spingono alcune persone a farla finita e a suicidarsi. Usualmente tali suicidi vengono fatti passare come l’ultimo grado della depressione, ma non vengono mai letti come una possibile fonte per ripensare alle politiche sociali, economiche, culturali del nostro paese. La depressione offre quindi l’opportunità alla politica per non compiere ciò che essa dovrebbe con molti sforzi realizzare. In altri termini la depressione permette di estrapolare le azioni dal loro contesto, facendo apparire ogni atto come frutto di una malattia, ovvero come frutto di uno scompenso chimico. Non è un caso che proprio la depressione sia stata dichiarata dall’OMS come la seconda causa di malattia al mondo, dietro solo alle malattie cardiovascolari, ed essa, come mostrano Wakefield e Horwitz109, abbia subito delle continue modifiche strutturali interne al criterio diagnostico che le hanno permesso di essere diagnosticata ad un numero di persone sempre crescente110. Si coglie come la vendita di

107 F. Dagognet, La raison et les Remèdes, PUF, Paris 1984, p. 328 108 A. Maturo, La società bionica, Franco Angeli, Milano 2012, p. 115

109 J. C. Wakefield, A. V. Horwitz, The Loss of Sadness, Oxford University Press, 2007

110 Per approfondire questo tema rinvio ad un testo che ho pubblicato nel 2015 dal titolo Il diritto di essere tristi, per una filosofia della depressione, Alboversorio, Milano

antidepressivi, secondo le idee di Szasz, possa spiegarsi nell’ottica di una politica volta a rafforzare il meccanismo di medicalizzazione, ovvero il ridurre tutto ad una situazione legata al naturale proprio dell’uomo, ma per realizzare lo scopo deve far sì che le cure, gli psicofarmaci, vengano altamente diffuse, provocando di fatto un aumento degli utili delle case farmaceutiche, che a loro volta consentono agli psichiatri di poter annettere sempre più sfere dell’umana esistenza alla loro giurisdizione. Per tal motivo, proprio come sostiene Szasz, dal processo di medicalizzazione ci guadagnano almeno tre poteri, quello Statale, quello medico e quello legato alle industrie farmaceutiche, e non è assolutamente possibile distinguerli e attribuire una funzione principale di avvio di tale processo ad uno dei tre poteri. Con Szasz si esce totalmente dall’identificare il concetto di medicalizzazione come pura critica all’autorità medica, ma si concepisce come tale fenomeno sia altamente legato ad una rete di poteri assolutamente difficili da decifrare. Tali tesi sono state riprese anche da James Nolan che nel 1998 ha pubblicato il volume The Therapeutic State: Justifying Government at Century's End nel quale sostiene che la cultura terapeutica, incentrata sul valore del farmaco, sia la via che apre il modo di concepirsi da parte del soggetto moderno, che inaugura le possibilità morali di rapportarsi al suo esistere e quindi anche le possibilità di organizzare un senso politico della propria esistenza. Per Nolan tutto il nostro reale prende forma da una cornice terapeutica, ogni nostra azione è finalizzata e pensata a partire da tale situazione che si radica profondamente nei nostri meccanismi di soggettivazione. A questo proposito scrive: “quando parlo di

prospettiva terapeutica non mi riferisco ad un azione particolare compiuta da qualche