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Si è colto come l’oggetto odierno dell’analisi del fenomeno della medicalizzazione della vita non sia unicamente il mondo della professione medica, intesa come forza colonizzatrice della vita, ma come essa sia solo uno dei tanti attori, che traggono profitto, all’interno di questo meccanismo di senso dell’esistenza. In particolare abbiamo fatto notare come medicalizzare, ovvero portare all’interno della medicina alcuni eventi di vita, voglia dire anche attivare un processo terapeutico per gli stessi che condurrà ad una possibile guarigione. Quando le situazioni che vengono ascritte all’interno del campo della medicina sono però delle situazioni sociali, economiche ecc., tale fenomeno fa pensare alla possibilità di normalizzare entro canoni ben prestabiliti la vita degli stessi soggetti. In particolare Bryan S. Turner chiarisce che la costruzione di nuove categorie mediche coincide inevitabilmente con una nuova percezione della realtà, dal momento che un nuovo sistema di riferimento viene creato93. Ciò che Turner asserisce è che la medicina ha la grande possibilità di plasmare la normalità, di disciplinare i corpi e di far penetrare le proprie modificazioni del reale le quali passano, attraverso la modificazione del concetto di salute, nelle convinzioni profonde dei soggetti. Poiché, come sostiene Franca Ongaro, moglie di Franco Basaglia,: “per noi per la nostra cultura, la

malattia è morte perché la vita continua a essere rappresentata solo dalla salute assoluta. È perdita di sé perché l’unica identità che ci venga proposta è l’uomo sano, efficiente e produttivo. È un alienarsi totale, perché affidarsi come malato al tecnico della salute significa perdere ogni controllo sul proprio corpo, sulla propria vita94”.

Da tale ragionamento di Ongaro ne segue che l’uomo, proprio come affermato da Popper, ha spostato il suo modo di dar senso al reale dal sistema religioso a quello scientifico, e all’interno della scienza, si colloca anche la medicina, la quale assume come proprio compito la possibilità di eliminare il dolore prodotto nella vita. Per tal ragione l’uomo si affida totalmente a tale pratica, la quale sostiene di far riferimento nel proprio procedere ad un’idea

93 B. S. Turner, The Body and Society. Explorations in Social Theory, Sage, London, 1996 94 F. Ongaro, Salute/Malattia, Einaudi, Torino 1982, p. 8

di salute derivante da un’osservazione neutra delle modalità di espressione umane, che restituisce la possibilità di coniare un concetto naturale di salute al quale far adeguare il soggetto. Tale concetto viene definito come osservazione naturale, ma esso non può mai dirsi indipendente rispetto a chi compie l’osservazione e, dunque, tale concetto diventa chiaramente normativo e si presta ad essere distorto da parte di chi nutre degli interessi a far si che l’umanità si comporti in determinate e precise modalità. Pertanto, la medicina agisce da pratica dedita alla cura ma, estendendo il proprio dominio a nuovi eventi, diventa una pratica che lavorando sui deficit dell’uomo che non gli consento di esprimersi adeguatamente nel mondo, ne plasma nel profondo i comportamenti, le speranze e le modalità di azione. Si deve però notare, che il meccanismo di medicalizzazione della vita agisce solo grazie al soggetto stesso che necessita e vuole sempre maggiori cure mediche, poiché esso attraverso la propria fede cieca nel progresso medico, che porta a non possedere un bagaglio critico ed interpretativo delle stesse azioni terapeutiche, agevola una sempre maggiore estensione della medicina, rivendicando il diritto alla stessa sancito dalla naturalità del concetto di salute. A questo proposito Rovatti scrive: “il paradigma della medicalizzazione della vita ci dispone

alla situazione di sorveglianza e autosorveglianza. Più che come un potere esterno, esso funziona come un assillo volontario, un parassita delle nostre condotte con cui accettiamo e quasi scegliamo di convivere. Tutto gira attorno all’inesorabilità della malattia, una malattia che infine non si identifica con questo o quel disturbo ma che si impone come la condizione normale del nostro vivere. Su questo stato ormai cronico non ci interroghiamo più. Il patologico è slittato nel normale, e il normale scivola nel naturale. Siamo malati, ecco tutto. È naturale che la malattia non sia una cosa buona. È naturale che un’indagine un po’ meno che superficiale metterà a nudo il nostro deficit. È dunque naturale che siamo tutti vulnerabili e segnati95”.

Possiamo così affermare che la medicalizzazione della vita agisce primariamente nella volontà del soggetto di riceverla, attuando una serie di meccanismi sociali che aumentano la stessa possibilità del soggetto di concepirsi come iscritto in tale disegno naturale. Per tal ragione parliamo di costruzione di una soggettività medicalizzata, ovvero del fatto che l’uomo riflette su se stesso, fa esperienza di sé, attraverso le forme e gli spazi aperti dalle categorie decretate dalla medicina. Il potere della medicalizzazione s’instaura sulla possibilità di rafforzare continuamente la volontà del soggetto di credere nella stessa pratica e, attraverso i propri meccanismi, fa sì che lo stesso non possa che concepirsi sotto la giurisdizione della stessa. In altre parole, se oggi parliamo di medicalizzazione dei deficit scolastici, tale nuova

forma di medicalizzazione può procedere solamente perché esiste una soggettività medicalizzata che, concependosi con i termini propri del linguaggio medico, può dare senso veritativo a tutto ciò che viene posto in termini di deficit di salute, guarigione e cura. L’uomo si crede libero perché può decidere della propria salute, ovvero acquisisce sempre maggiori possibilità di dominare il dolore. Bisogna però notare come scrive Edoardo Greblo che: “a

guardare le cose più da vicino, ci si accorge però che gli scenari di libertà resi disponibili per la libera autodeterminazione dei soggetti circoscrivono uno spazio in cui, di fatto, non è possibile che un’autonomia presidiata, sottoposta a forma di controllo […] l’accresciuta libertà di disporre del proprio corpo nei suoi momenti cardinali, come il concepimento, la vita prenatale, la morte, è infatti affidata all’istituzione medica e accompagnata dalla presenza costante di tutta una serie di figure diversamente competenti, dal ginecologo al sessuologo, dal biologo allo psicologo96”. Per spiegare tale situazione Greblo porta l’esempio

dell’interruzione di gravidanza, asserendo che tale fenomeno non è più oggetto di regole minuziose e interdetti penali in conseguenza del vincolo naturale alla funzione riproduttiva, ma il legislatore demanda al medico di assicurarsi e di promuovere un quadro sanitario corretto e clinicamente sicuro, accertandosi che la persona che vuole abortire sia del tutto cosciente e responsabile dell’azione che vuole portare a compimento97. Un altro esempio è relativo alle possibilità odierne di cambiare il proprio sesso biologico, tale possibilità non più resa impossibile dalla legge, viene però limitata dalle perizie psichiatriche che devono, attraverso delle lunghe interviste, valutare se il soggetto in questione sia davvero convinto di fare ciò o tale volontà non sia solo un mezzo perverso per avere rapporti sessuali. Tali esempi ci permettono di cogliere come il soggetto, oggi, si riconosca totalmente nella medicina, tanto da sentirsi libero di decidere del proprio corpo e ritiene naturale che la medicina, attraverso delle interviste-confessioni, s’insinui sempre più nella sua vita, quasi non lasciando nulla al di fuori del proprio campo di azione e decisione. Si può così capire come le pratiche di medicalizzazione sfruttino la valenza che viene accordata alla medicina per entrare sempre più nel profondo del soggetto, attraverso le interviste mediche che autorizzano le azioni, decretando di fatto anche la possibilità che le stesse interviste fungano da mezzo per la codifica di una soggettività sempre più medicalizzata. Utilizzando nuovamente le parole di Greblo se ne può concludere che: “il fatto che il medico sia chiamato a presidiare l’ambito

della vita individuale nei suoi momenti critici dipende certo dai compiti istituzionali demandati alla medicina, e cioè diagnosticare e guarire le malattie […] ma la pervasività dei processi di medicalizzazione dipende altresì da una politica generale della vita che interviene

96 E. Greblo, Sorveglianza a bassa intensità, in Aut Aut, N. 340, 2008, p. 16 97 Ivi, p. 17

sull’organismo e sui processi biologici per venire incontro alle richieste, ai bisogni e ai desideri dei soggetti in nome di una concezione della salute che incide sul concetto stesso di malattia […] in questi contesti non si tratta soltanto di promuovere le necessarie risposte difensive e compensative a malattie, infermità o anomalie a scopi autoconservativi, ma di rispondere alle dinamiche apparentemente spontanee e autonome di autovalorizzazione e di soggettivazione sia a livello individuale sia a livello collettivo98”.

Sostenendo ciò, Greblo afferma che la medicalizzazione agisca non solo per il bene dell’uomo, ma che si faccia guidare dalla possibilità di prescrivere delle situazioni di vita, al fine di disciplinare e di attivare dei meccanismi di soggettivazione che permettono all’uomo stesso di concepirsi alla luce di alcuni valori che accentuano le sue possibilità di azione efficace all’interno della società. Tali forme di controllo medico sono esercitate, però, da molteplici forze, prima tra tutte lo Stato che coglie l’opportunità di sfruttare la costruzione medicalizzata della soggettività come fonte di controllo dell’agire sociale. Questa forma di utilizzo della medicina per normalizzare e creare i comportamenti al fine di governare i soggetti, rendendo sicura la popolazione, prende il nome di biopolitica.

10) Il controllo dei corpi e delle azioni sociali attraverso la medicalizzazione: