Le prime opere di Foucault mettono in luce come la medicina non possa essere intesa quale esperienza universale che svela la verità di oggetti altrettanto universali che prendono il nome di patologie. Tale pratica è solo una modalità di dar senso al mondo che prende avvio in un preciso quadro storico-sociale, per tal ragione la domanda seguente che Foucault si pone è relativa al cogliere i meccanismi con cui un processo discorsivo (la rete dei saperi medici) si articoli con il sapere non discorsivo (pratica sociale, politico e istituzionale). A questo proposito risultano di fondamentale importanza le opere Le parole e le cose (1966) e
L’Archeologia del sapere (1969), in particolare è la prima di queste due opere che fa
guadagnare fama nazionale e internazionale a Foucault. Il motivo è presto detto e si trova nelle ultime righe del libro, nelle quali Foucault conia il pensiero relativo alla morte dell’uomo. Infatti, scrive: “l’uomo non è il problema più vecchio o più costante postosi al
sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve e una circoscrizione geografica ristretta – la cultura europea del XVI secolo in poi – possiamo essere certi che l’uomo vi costituisce un’invenzione recente. Non è intorno ad esso e ai suoi segreti che, a lungo, oscuramente, il sapere ha vagato. Di fatto, fra tutte le mutazioni che alterarono il sapere delle cose e del loro ordine, il sapere dell’identità, della differenza, dei caratteri, delle equivalenze, delle parole – in breve in mezzo a tutti gli episodi di questa profonda storia del Medesimo – uno solo, quello che prese inizio un secolo e mezzo fa e che forse sta chiudendosi, lasciò apparire la figura dell’uomo. Non si trattò della liberazione d’una vecchia inquietudine, del passaggio alla coscienza luminosa di un’ansia millenaria, dell’accesso all’oggettività di ciò che a lungo era rimasto preso in fedi o filosofie: fu l’effetto d’un cambiamento nelle disposizioni fondamentali del sapere. L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente149”.
Per capire tale asserzione foucaultiana bisogna cogliere lo sforzo che lo stesso compì in questo libro, poiché egli volle ricercare gli elementi storici intorno ai quali la modernità ha organizzato le proprie esperienze del mondo, in modo da codificare una determinata figura del sapere. Detto in altro modo Foucault sostiene che tutti i periodi della storia possedevano certe sottese condizioni di verità che fondavano ciò che era allora accettabile e non si possano descrivere le conoscenze come delle marce trionfali della ragione umana che hanno condotto verso un’obiettività in cui la nostra scienza odierna potrebbe riconoscersi. Per tal ragione, ciò che Foucault ricerca sono le condizioni a partire da cui conoscenze e teorie diventano possibili, poiché come lui stesso scrive: “in base a quale spazio d’ordine si è costituito il
sapere […] non verranno quindi descritte conoscenze nel loro progresso verso un’obbiettività […] ciò che vorremmo mettere in luce, è, il campo epistemologico, l’episteme in cui le conoscenze, considerate all’infuori di ogni criterio di riferimento al loro valore razionale o alle loro forme oggettive, affondano la loro positività manifestando in tal modo una storia che non coincide con quella della loro perfezione crescente, ma è piuttosto la storia delle loro condizioni di possibilità; ciò che, in tale narrazione deve apparire, sono, entro lo spazio del sapere, le configurazioni che hanno dato luogo alle varie forme della conoscenza empirica150”. Tale indagine lo porta ad identificare tre forme di episteme: il Rinascimento,
l’età classica e la modernità. L’episteme in vigore nel Rinascimento è legato alla ricerca della somiglianza, ovvero allo stabilire connessioni e legami tra le cose; per esempio si cercano delle analogie tra le malattie dell’uomo pensate nel suo microcosmo rapportandole al macrocosmo. In altri termini Foucault sostiene che l’episteme rinascimentale sia forgiato da una trama di similitudini magiche e razionali al contempo, che esprimono il riferimento immateriale per orientarsi in un mondo in cui imparare significa essenzialmente comprendere i segni visibili che scaturiscono da rapporti invisibili di affinità tra le cose151. Tale situazione cambia nell’età classica dove l’episteme è definito quale teoria della rappresentazione che funziona come mathesis (scienza dell’ordine). Ciò vuol dire che nel XVIII secolo l’episteme rinascimentale, dedito all’accostare le cose al fine di trovarne un qualche grado di parentela, crolla in favore del confronto utile a stabilire identità. A questo proposito scrive: “durante il
XVI secolo veniva anzitutto ammesso il sistema globale delle corrispondenze (la terra e il cielo, i pianeti e il volto, il microcosmo e il macrocosmo), ed ogni similitudine singola si disponeva all’interno di questo rapporto di totalità; d’ora in poi ogni somiglianza verrà sottoposta alla prova del confronto, cioè essa sarà accettata soltanto dopo aver trovato, attraverso la misura, o, più radicalmente attraverso l’ordine, l’identità e la serie delle differenze l’unità comune152”.
In altre parole, si abbandona la somiglianza in favore della rappresentazione, quindi l’episteme dell’età classica si fonda sull’idea che sia rinvenibile una continuità naturale tra le cose che favorisce la costituzione delle relazioni tra gli esseri viventi. Dunque, ci si impegna a dare un nome alle cose, ad identificarle e ad inserirle in tabelle tassonomiche, poiché dietro al disordine con cui le cose si presentano al mondo esiste la possibilità di ricostruire un tessuto comune. Si articola così un sapere scientifico basato su un regime epistemologico dedito all’analogia e alla successione, dunque anche nel campo della malattia si tenta di articolare
150 Ivi, p. 12
151 Cfr. P. Amato, Ontologia e storia, la filosofia di Michel Foucault, Carocci, Roma 2011, p. 108 152 M. Foucault, Le parole e le cose, Bur, Milano 2010, p. 70
una possibilità di catalogare la stessa, poiché la malattia rinvia ad un disordine che si può egualmente spiegare come un fenomeno naturale che possiede una sua regolarità e delle sue somiglianze. Foucault mostra, però, come nonostante ogni linguaggio che potesse rinviare ad una situazione divinatoria, tipica dell’episteme rinascimentale, venga a cadere all’interno dell’episteme dell’età classica, non sia in essa possibile pensare ad una scienza dell’uomo, poiché egli sostiene che non esiste ancora alcuna possibilità di riflettere su colui per il quale la rappresentazione del naturale esiste, tanto che scrive: “prima del XVIII secolo, l’uomo non
esisteva, come non esisteva la potenza della vita, la fecondità del lavoro, o lo spessore storico del linguaggio. È una creatura recentissima quella che la demiurgia del sapere fabbricò con le sue mani, meno di duecento anni or sono. Ma l’uomo è invecchiato così in fretta, che si è potuto facilmente pensare che egli avesse atteso nell’ombra, per la durata di millenni, il momento d’illuminazione in cu sarebbe stato infine conosciuto153”.
Ne segue che secondo Foucault manchi la possibilità di concepire un soggetto unificato e unificante che dovrebbe fornire un peso specifico e una collocazione precisa alle rappresentazioni, ergendole a oggetti propri. Proprio la comparsa di questo soggetto segnerà un nuovo cambio di episteme che ci porterà all’interno dell’epoca moderna. Dreyfus e Rabinow, due dei maggiori studiosi del pensiero foucaultiano, riassumono tale nuovo episteme nel seguente modo: “in modo improvviso, secondo la ricostruzione storica di
Foucault, verso la fine del XVIII secolo si verificò uno di quei drammatici mutamenti epistemologici […] la rappresentazione divenne rapidamente opaca.[…] l’uomo così come oggi lo conosciamo, fa la sua apparizione e diventa misura di tutte le cose. Non appena l’ordine del mondo risulta non più imposto da Dio e di conseguenza non più rappresentabile in un quadro, allora la continua relazione che aveva posto in rapporto l’uomo con gli altri esseri del mondo viene abbandonata. L’uomo, che un tempo era un essere tra gli altri esseri, non soltanto diventa un soggetto fra gli oggetti, ma presto si accorge anche del fatto che ciò che egli sta tentando di comprendere non è costituito solo agli oggetti del mondo, bensì anche da se stesso. L’uomo diventa il soggetto e l’oggetto del suo proprio conoscere154”.
Si può cogliere come Le parole e le cose sia un’opera di estrema importanza perché ciò che egli afferma è che usualmente la biologia, la psichiatria e le altre scienze mediche ci narrano una storia lineare che porta nella storia dell’uomo un’affermazione progressiva e continua della razionalità scientifica che scopre i segreti della natura con sempre maggior successo, ma tale storia narrata non ha alcun senso poiché la discontinuità dei regimi di pensiero, evidenziata grazie alla rilevazione dei tre paradigmi epistemologici, rende effimere tutte le
153 Ivi., p. 333
idee della continuità e del progresso della verità. In altri termini, secondo Foucault, non esiste un’idea di ragione che guida tutto l’agire umano dal mondo greco ad oggi, ma quest’ultima deve essere pensata come una sovrapposizione indifferente di stati del pensiero che possono essere ricostruiti per donare senso all’esperienza epocale. Dunque, in questo libro c’è una volontà di uscita dal tema antropologico che vuole stabilire un’esposizione ordinata dei saperi che mostri l’intento di costruire una ragione in progresso. Proprio per questo motivo Foucault afferma la morte dell’uomo, ovvero sostiene la fine della modalità di considerare il soggetto e le sue caratteristiche odierne, o qualunque tipo di caratteristiche a lui attribuite, quali universali e trascendentali. L’uomo nasce alla fine del XVIII secolo, ovvero nel momento in cui il sapere stesso si ordina sulla figura dell’uomo. Il testo successivo L’archeologia del
sapere può essere letto proprio a partire da quest’ottica, ovvero la volontà di liberare la storia
delle idee dal tema antropologico e infatti l’opera mira ad individuare le condizioni non trascendentali, localmente e storicamente determinate, di produzione del pensiero. In altri termini quest’opera viene concepita come una modalità di puntualizzare il metodo fino ad ora utilizzato da Foucault, tale metodo è quello archeologico. Per metodo archeologico, come si è già potuto intendere, si fa riferimento alla ricostruzione di un campo storico, ovvero alla possibilità di far interagire tra loro differenti dimensioni (filosofiche, economiche, scientifiche ecc.) al fine di rinvenire l’emergere dei saperi propri di una data epoca. Il concetto chiave di quest’opera è quello di discorso, ovvero un insieme di enunciati che appartengono ad ambiti completamente differenti, ma che obbediscono e sottostanno a delle regole di funzionamento comune. Foucault sostiene che i discorsi possano essere concepiti come delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano, tanto che scrive: “le parole e le cose è il
titolo serio di un problema; è il titolo ironico del lavoro che ne modifica la forma, ne sposta i dati, e, alla fin fine, rivela un compito completamente diverso. Un compito che consiste nel non trattare i discorsi come degli insiemi di segni […] ma come delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano155”.
Il progetto di tale libro è quello di scrivere una storia dei saperi che rifiuti di considerare i discorsi teorici come la semplice superficie d’iscrizione delle scelte coscienti operate dagli uomini, o come l’espressione ideologica di una pratica sociale prima. Egli, infatti, rifiuta di intendere il sapere come una mera trascrizione verbale di un’attività, spirituale o materiale, compiuta da un soggetto trascendentale che le dona un senso esterno ad esso tramite l’osservazione. Tale discorso viene chiarito da Foucault nella lezione inaugurale tenuta al Collège de France il 2 dicembre del 1970 intitolata L’ordine del discorso nel quale chiarisce
che: “in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata,
organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli156”. In altri termini Foucault sostiene che sia un errore credere
che parlare significhi trasmettere immediatamente e direttamente nelle parole e con le parole ciò che si vede e che si pensa, poiché il vedere e il pensare sono già il prodotto di una prassi discorsiva più originaria. Dunque, nessuna parola comunica ciò che il soggetto esperisce, ma essa ha un significato che si radica in regole di comportamento determinate dalla particolare società in cui si pronunciano. Perciò i discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma pratiche che formano gli oggetti di cui parlano, inserendosi in una serie di rapporti di potere propri di ogni peculiare società. Foucault sostiene così che ogni società ha un suo ordine di verità, ed essa è determinata dai discorsi che fa funzionare come veri157. Uno dei maggiori discorsi che la nostra società utilizza come modello di verità è la medicina, la quale produce un regime discorsivo specifico che assorbe il campo della malattie e della salute, stabilendo un insieme di regole che, precedendo l’enunciazione da parte del soggetto, stabiliscono delle modalità discorsive di valore.