Come abbiamo potuto cogliere il DSM-III rappresenta una nuova modalità di guardare verso la malattia mentale, una modalità talmente importante che si può legittimamente affermare che la psichiatria, per la prima volta nella propria storia, raggiunga la possibilità di dotarsi di uno specifico metodo operativo e diagnostico, il quale prescinde dalle influenze della
320 A proposito di questo tema il filosofo Di Vittorio si esprime nel seguente modo: “prima della scoperta degli psicofarmaci, è stata la guerra a mostrare la possibilità e la necessità di un approccio diverso alle patologie mentali. In particolare, il fenomeno massiccio delle “nevrosi di guerra”, già manifestatosi nel corso del primo conflitto mondiale, ha condotto a spostare l’attenzione dalle forme più gravi di “malattia” (considerate di natura organica, incurabili e bisognose di internamento) verso “disturbi” mentali minori e transitori, nei quali il ruolo del “contesto sociale” è evidente, e che domandano altri tipi di intervento. Queste indicazioni consentono di comprendere come sia avvento l’innesto della psicoanalisi negli Stati Uniti, fondamentale per analizzare il processo di ibridazione che ha condotto al DSM”. P. Di Vittorio, Malati di perfezione. Psichiatria e salute mentale alla prova del DSM, in Aut Aut n. 357, Gennaio-Marzo 2013, p. 50
321 L. Wittgenstein, Philosophical investigations, Blackwell,Oxford 1953, p. 232
psicoanalisi, della psicologia e di altre discipline che avevano già una loro storia e una loro modalità di dispiegamento del reale. In altri termini, l’importanza del DSM-III risiede nell’aver fornito la possibilità a tale disciplina di camminare in modo autonomo e di dotarsi di un consenso professionale derivante dal fatto che si misero a freno le mille possibilità di intendere i disturbi psichici e i sintomi di tale situazione fornendo un glossario comune utilizzabile da ogni psichiatra. Dunque, come sostiene Spitzer, che fu a capo della task force che scrisse il DSM-III nonché uno degli psichiatri più conosciuti all’interno della storia della psichiatria,: “l’adozione del DSM-III da parte dell’APA è da considerarsi come il segno della
realizzazione della psichiatria. Il nuovo manuale diagnostico non rappresenta solo un avanzamento nelle aspirazioni scientifiche della professione, ma indica l’importanza di ottenere un consenso professionale sulle procedure al fine di eliminare il disordine che ha caratterizzato la diagnosi psichiatrica sino agli anni’80 323”. In altri termini il DSM-III
rappresenta il primo tentativo concreto di rendere omogenei i criteri diagnostici in psichiatria, definendo in modo chiaro e univoco i metodi di classificazione delle patologie, ma per fare ciò fu essenziale formulare il DSM secondo alcune caratteristiche. La prima grande caratteristica è quella dell’ateoreticità: infatti il DSM-III fu influenzato da un gruppo di cosiddetti neo-kraepeliniani, che proposero un approccio ateoretico, puramente descrittivo dei sintomi causanti il disturbo mentale. Essi eliminarono gli approcci di carattere eziologico, che erano fonte di grosse diatribe tra gli esperti, decretando di fatto l’espulsione della psicoanalisi dal DSM. Nell’introduzione del DSM-III-r (1987), la successiva al DSM-III, che pur tenendo conto di tutta la sua impalcatura ne rivisitava alcuni aspetti legati alla definizione delle patologie, si può leggere: “l’approccio adottato dal DSM-III-r è ateoretico per quanto
concerne l’eziologia e i processi fisiopatologici, eccetto per quei disturbi per i quali ciò sia stabilito con precisione e quindi incluso nella definizione del disturbo […] Il DSM-III-r può definirsi descrittivo nel senso che le definizioni in genere si limitano alla descrizione delle caratteristiche cliniche dei disturbi. Le caratteristiche specifiche consistono in segno o sintomi o comportamenti facilmente identificabili, che richiedono un livello di inferenza minimo da parte dell’osservatore324”. L’approccio ateorico utilizzato nel DSM-III e in tutte le
versioni successive si rifaceva quindi al volere dello psichiatra tedesco Emil Kraepelin (1856- 1926), il quale produsse una delle più conosciute classificazioni delle malattie mentali ne
Compendio di psichiatria. In particolare, Kraepelin assunse una concezione naturalistica della
malattia mentale, ritenendo che l’unico orizzonte a cui si dovesse far riferimento all’interno
323 R. Spitzer, R. Bayer, Neurosis, psychodynamics, and DSM-III: a history of the controversial, in Archives of General Psychiatry, n. 42, 1985, p. 187
della psichiatria fosse quello organico e scrisse che, proprio come un botanico sapeva descrivere le leggi che governano la nascita e lo sviluppo di una pianta, così lo psichiatra dovrà diventare colui che analizza le leggi che decretano la comparsa, lo sviluppo e la fine della patologia psichica325. Per tal motivo, egli pubblicò nel 1883 il Compendio di psichiatria, libro nel quale tentò di classificare con criteri oggettivi i diversi quadri morbosi. Tale compendio si basò sul presupposto della sua non completezza e venne continuamente aggiornato dallo stesso Kraepelin in modo da renderlo sempre più obbiettivo e funzionale alla stesura di una classificazione del disagio psichico. Ciò che è importante capire è che, per lo psichiatra tedesco, tutte le malattie mentali sono caratterizzate da una causa specifica e presentano un quadro clinico particolare che richiede una propria terapia. Dunque, Kraepelin introdusse all’interno dell’ambito psichiatrico la possibilità di riferirsi, nella descrizione delle patologie, unicamente ai sintomi, poiché essi forniscono un insieme di informazioni che possono essere elevate e valutate con misure quantitative. Riprendendo le teorie di Kraepelin, Spitzer e tutti i redattori del DSM-III tentarono di descrivere il quadro patologico affidandosi solo ai dati certi dell’esperienza, ovvero ai sintomi così come appaiono al clinico. Per tal ragione si eliminarono dal manuale, per esempio, il termine nevrosi e il termine, poiché tali nomi erano troppo legati a speculazioni teoretiche prodotte da Freud. La prima novità introdotta dal DSM-III fu quella di individuare, per ogni disturbo, alcuni criteri diagnostici al più basso livello di inferenza possibile, i quali potessero caratterizzarlo. La seconda grande novità introdotta dal DSM-III è il sistema multiassiale, ciò comporta che la valutazione da parte dello psichiatra sul soggetto avvenga su diversi assi, ognuno dei quali si riferisce ad un differente campo di informazioni che può aiutare il clinico nel pianificare la cura da somministrare. L’intento che sottostà all’introduzione di tale sistema è quello di valutare e tener conto delle diverse sfumature esistenziali da cui la malattia potrebbe essere prodotta o alimentata. I cinque assi sono: 1) classificazione di tutte le sindromi di interesse psichiatrico che implicano uno stato di sofferenza per il soggetto o di menomazione del suo funzionamento psichico (ad esempio depressione, schizofrenia ecc.); 2) registrazione dei disturbi della personalità e di quelli specifici dello sviluppo (ad esempio borderline, ossessivo-compulsiva, narcisistica ecc.); 3) classificazione dei disturbi somatici che possono essere alla base o semplicemente concomitanti ai disturbi psichici (si fa riferimento a
325 Egli scrisse che: “La giovane scienza psichiatrica, fondata da Esquirol, sulla base di una già ricca esperienza clinica, ebbe contro di sé, nelle prime decine dell’ultimo secolo, un pericoloso nemico nella dottrina morale- teologica […] contro queste e simili teorie, discusse con molta finezza, combatterono, con l’acume dell’esame scientifico, i Somatici […] a questi ultimi scienziati è rimasta la vittoria. E. Kraepelin, Trattato di psichiatria, Milano, Valardi 1883, p. 2
condizioni non psichiatriche che possono avere influenza sul disturbo mentale come problemi cardiaci, diabete, ecc.); 4) registrazione e graduazione di eventuali fattori psico-sociali e di stress (si fa riferimento ad eventi di vita che possono influenzare il disturbo mentale come un licenziamento, un grosso insuccesso lavorativo, amoroso o scolastico, ecc.); 5) Indicazione del livello di funzionamento adattivo raggiunto dal paziente in ordine alle relazioni sociali, alla prestazione lavorativa e all’impiego del tempo libero (esiste una scala che misura da 0 a 100 il “funzionamento” sociale dei soggetti).326 La terza grande novità fu l’utilizzo del
sistema politetico, infatti, mentre in medicina si è soliti utilizzare un sistema monotetico per determinare e diagnosticare determinati tipi di patologia, ciò comporta che non basta l’individuazione di alcuni dei sintomi che compongono il quadro della malattia, ma deve essere localizzata ed individuata la causa precisa che porta alla comparsa di una determinata forma di patologia. In ambito psichiatrico, a partire del DSM-III, si è creata una democratizzazione nei criteri diagnostici e, per rendere la definizione di patologia mentale assolutamente ateoretica, si è deciso che essa debba essere identificata secondo l’osservazione, riprendendo lo spirito di Kraepelin, attraverso l’identificazione di un numero di sintomi che ne costituiscono la definizione stessa. All’interno di questi sintomi non esiste uno che emerge su un altro, ma sono tutti considerati in egual misura: ad esempio si è postulato che la definizione di depressione comprenda 9 sintomi e si deciso che una persona per essere definita depressa debba presentare almeno 5 dei 9 sintomi previsti. Tale situazione se raggiunge l’obbiettivo di creare una dimensione ateoretica, sprofonda però nella possibilità di identificare quali affetti dalla stessa malattia persone che potrebbero presentare uno o nessun sintomo in comune. L’esempio chiave è quello della diagnosi di schizofrenia che il DSM-III aveva identificato come forma patologia secondo 8 criteri e riteneva soddisfacente che un soggetto ne riportasse 4 per essere identificato come malato327. L’ultima grande novità introdotta dal DSM-III fu la pretesa di universalità, infatti l’ateoreticità che viene applicata attraverso il sistema multiassiale e tramite l’utilizzo di un sistema politetico hanno come suo principale fine quello di rendere il DSM uno strumento diagnostico utilizzabile in tutto il mondo. In altri termini, l’innovazione principale apportata dal DSM-III fu la volontà di costruire uno strumento diagnostico che potesse essere utilizzato in qualunque regione del mondo indipendentemente dalle credenze e dalla cultura locale. A questo proposito è
326 Cfr. U. Galimberti, voce Diagnosi in Dizionario di Psicologia, Utet, Torino 2006, p. 280
327 Cito l’esempio della schizofrenia poiché essa è stata una delle patologie più diffuse e studiate dell’intera
storia psichiatrica. Si può così cogliere come definire tale patologia in base a 4 sintomi su 8 voglia dire che delle persone possono essere definite in egual misura schizzofreniche anche se non presentano nessuna problematica comune. Il sistema politetico fu da subito fonte di grossi problemi all’interno dei discorsi riguardanti l’epistemologia psichiatrica e fu rifiutato già dall’edizione successiva del DSM, infatti in esse si decretò che dovesse esistere almeno un sintomo comune tra le persone che soffrono della stessa paotologia.
necessario notare come le differenze culturali non sono del tutto trascurate all’interno delle diagnosi prescritte dal DSM-III, ma esse vengono confinate a modalità di secondo ordine da valutare grazie al sistema multiassiale. Ne segue che tali differenze non vengono prese a riferimento quali forme principali che costituiscono le diversità di espressione dei soggetti, ma sono esaminate quali dati secondari ad una possibile diagnosi che deve essere comune e riscontrabile anche in soggetti appartenenti a culture diverse tra loro. Anche questo punto rinvia al lavoro del padre della psichiatria classificatoria Emil Kraepelin, il quale dopo aver proposto una classificazione delle malattie psichiche, embrione della classificazione poi adottata dalla moderna psichiatria, si interrogò sulla validità universale di tali categorie. Egli ritenne che non bastasse confrontare aspetti e frequenze dei disturbi psicopatologici tra gruppi umani diversi per sesso, età e lavoro, ma che occorresse studiarli in gruppi etnici diversi, in Europa (per esempio Italiani, Inglesi, Francesi) e nel mondo. Per tal ragione, si recò a Giava e in Malesia per verificare se le malattie psichiche assumessero anche in quei luoghi le stesse forme. Kraepelin, nel suo viaggio, non notò alcuna differenza tra i sofferenti psichici di quelle popolazioni rispetto a quelle europee328, non ponendosi il problema se l’assenza di differenza derivasse o meno dall’identità dei contenitori (categorie da lui elaborate)329. Prova di ciò fu la rilevazione da parte di Kraepelin di alcune forme patologiche che non avevano corrispettivi in Occidente, ma che erano molto diffuse in quei luoghi. Per ovviare a questo problema egli denaturò di significato tale situazione, sostenendo che il diverso nome e le diverse forme di espressione della malattia, non fossero altro che un modo alternativo per nominare una sindrome psicotica già ben identificata in Europa e non ancora compresa in quelle località. Per tal ragione egli affermò che la psichiatria doveva tenere in considerazione in maniera relativa l’origine culturale dei soggetti che aveva in cura. Il DSM-III riprende questa tradizione, asserendo che le malattie mentali che affliggono i differenti soggetti sparsi nel mondo sono le medesime e dunque i contenitori per poterle identificare, ovvero i quadri costituiti da sintomi da rintracciare, devono essere considerati universali. In altri termini, con il DSM-III la psichiatria adotta una modalità di rapportarsi ai sintomi che mette in luce come ciò che differisce nelle varie culture umane siano le modalità con cui i diversi soggetti vivono e sperimentano sintomi, i quali, però, corrispondo alla medesima patologia psichica. Lo psichiatra deve considerare, grazie al sistema multiassiale, le diverse culture come strumenti per interpretare e dar senso alle diverse modalità di rapportarsi al mondo, che denaturate dai connotati strettamente locali, possono essere tutte equiparate e ricondotte nei medesimi schemi interpretativi. Non è un caso che il DSM-III sostenga che proprio il sistema
328 E. Kraepelin, Psichiatria comparativa, in I fogli di Oriss, VI, dicembre 1996 329 Cfr P. Coppo, Etnopsichiatria, Il saggiatore, Milano 1996
multiassiale e l’adozione della diagnostica politetica serva principalmente a permettere la comprensione degli individui differenti che popolano il mondo. Questa definizione, sebbene da un lato conceda una qualche forma di apertura alle diversità tipiche dalla soggettività, dall’altro giustifica in modo rigoroso la pretesa universale dello stesso manuale.