La sessualità diventa oggetto della medicina, che vuol dire che a partire dal XVIII secolo essa diviene determinata nella sua verità dalla prassi terapeutica, la quale mira a confessare il soggetto attorno alle proprie pratiche sessuali. Così facendo la sessualità viene definita quale oggetto naturale che si apre alla possibilità di subire dei processi patologici, i quali invocano interventi terapeutici e di normalizzazione. In altri termini, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, la sessualità diviene un oggetto naturale da decifrare, il quale, però, conserva ampi spazi di oscurità che solo lo specialista della scienza medica può riuscire a stanare ed interpretare. Nasce così una forma del discorso scientifico-medico che avvolge il sesso, il quale dona delle nuove modalità di concepirsi come soggetti, interiorizzando l’ordine di verità istituito dallo stesso dispositivo di sessualità. In particolare secondo la ricostruzione di Foucault nascono alla fine dell’800 le possibilità di distinguere la medicina del sesso dalla medicina generale del corpo, ciò avviene perché si identifica, per la prima volta nella storia,
un istinto sessuale, suscettibile, anche senza alterazioni organiche, di presentare anomalie
costitutive, deviazioni e processi patologici. A questo proposito afferma: “a questi anni
di una medicina e di un ortopedia che gli riferirebbero adesso in maniera specifica, l’apertura in poche parole del grande campo medico-psicologico delle perversioni, che doveva sostituire le vecchie categorie morali della dissolutezza o dell’eccesso296”. Si può
facilmente cogliere come le perversioni sessuali si rendano utili al doppio scopo proprio della biopolitica, ovvero da una parte normalizzano l’individuo, dall’altra si formano quale difesa sociale, poiché non solo il sesso poteva essere affetto da patologie (perversioni), ma poteva anche trasmettere le stesse a generazioni future, corrompendo così la popolazione, dunque la ricchezza e la sussistenza dello stato. Per cogliere tale situazione bisogna far riferimento alla teoria della degenerazione coniata da Benedict-August-Morel verso la metà dell’XIX secolo. La tesi di Morel, espressa nel volume Traité des dégénérescences physique, intellectuelles et
morales de l’espacé humaine (1857), è che ogni tipo di alienazione mentale sia riconducibile
per il suo intero al linguaggio della biologia e della storia naturale, così facendo non c’è differenza tra curare una patologia organica o curare una malattia mentale. Se non esistono differenze tra le varie specie di malattia, poiché sono tutte causate da alterazioni biologiche, sussiste invece un’importante distinzione tra il malato organico che si trova per sua natura in una condizione transitoria, e il malato mentale il quale si situa in una natura che è sempre definitiva. Morel suggerisce di chiamare la patologia mentale con il termine degenerescenza, poiché essa è uno stato patologico causato da lesioni dirette o indirette del sistema nervoso centrale, il quale a sua volta influenzerà il sistema nervoso dei discendenti. In altri termini, Morel sostiene che la malattia mentale non sia curabile o reversibile, che sia causata da alterazioni del sistema nervoso e che essa venga trasmessa di generazione in generazione. Dunque, utilizzando la terminologia filosofica, si potrebbe dire che la degenerescenza così come teorizzata da Morel è una condizione ontologica e allo stesso tempo infettiva, poiché il germe viene passato dai figli ai genitori. La teoria della degenerescenza ebbe una grandissima diffusione dalla metà del 1850 sino al primo decennio del 1900 e portò con sé la paura che la specie umana stesse degenerando a causa della presenza di individui portatori del germe della degenerescenza. Ciò comportò che la biologia e la medicina si ergessero al servizio della politica, la quale assumeva il nuovo compito di proteggere la popolazione dalla minaccia della degenerazione297. Alla base della teoria di Morel si erge l’operato di Buffon, il quale nell’opera monumentale Histoire naturelle pubblicata in vari volumi nella seconda metà del settecento, analizza l’essere umano con le stesse categorie zoologiche e biologiche utilizzate
296 Ivi., pp. 104-105
297 Su questo tema si può far riferimento all’ottima ricostruzione fornita da M. Simonazzi all’interno dell’opera
da lui scritta Degenerazionismo. Psichiatria, Eugenetica e Biopolitica, Bruno Mondadori, Milano 2013 e all’opera di J. C. Coffin, La transmission de la folie 1850-1914, L’Harmattan, Paris, 2003
per gli altri animali, ovvero egli sposta l’oggetto dei suoi studi dal singolo uomo alla specie umana298. In particolare egli all’interno del libro XIV della sua Histoire naturelle intitolato De
la dégénération des animaux sostiene che la degenerazione umana sia riscontrabile nel fatto
che in principio l’uomo era bianco e si trovava ad abitare in Europa, poi successivamente egli è migrato in varie parti del pianeta e per adattarsi al clima ha mutato il colore della pelle e i suoi tratti fisiologici. Dunque, per Buffon esiste una razza originale, che è quella del bianco europeo tutte le altre sono inquadrabili all’interno di un allontanamento più o meno evidente da tale razza e costituiscono delle forme di degenerazione della razza stessa. In un primo tempo la teoria della degenerescenza coniata da Buffon trova ampia diffusione all’interno del campo medico, poiché l’accento si poneva sulla possibilità di fare ereditare differenti tipi di patologie (sia organiche che mentali) ai propri discendenti. Ma con l’inizio dell’ottocento il termine degenerescenza subisce una trasformazione che la fa passare dal solo terreno medico sino ad abbracciare il terreno della società. In particolare, tale passaggio si deve a Prosper Lucas che nel 1847 scrive il Traité philosophique et physiologique de l’hérédité naturelle, nel quale si indaga non solo la trasmissione delle pure patologie, ma la trasmissione delle istanze anti-sociali. In altri termini Lucas crede che tutto quello che l’uomo fa all’interno della società, compresi gli atteggiamenti più o meno sociali, è frutto di principi biologici i quali si ereditano dai genitori. Ne segue che l’alcolismo, la tendenza a delinquere ecc. siano il frutto di meccanismi biologici, i quali se individuati possono offrire la possibilità di comprendere e dirigere la natura umana. Si coglie come il trattato di Lucas sposti l’attenzione dalla sola volontà di studiare l’ereditarietà delle patologie al fine di proteggere la vita dei singoli, alla possibilità di guardare e dirigere la vita della popolazione intera, la quale viene determinata a comportarsi socialmente da istanze biologiche che si radicano nel profondo dei singoli. Per tal ragione, grazie al trattato di Lucas, si può parlare di ereditarietà patologica, e, di pari passo, anche di degenerescenza della specie umana, in quanto l’ereditarietà di alcune forme biologiche non solo conduce ad essere malati, ma porta anche alla possibilità di diffondere dei particolari atteggiamenti che vanno ad inficiare la permanenza della specie umana sulla terra. Questo è lo sfondo culturale che porta Morel ad elaborare la propria teoria della degenerescenza, la quale viene grazie a lui iscritta in un terreno psichiatrico diventando la tesi
298 A questo proposito Simonazzi scrive: “il passaggio dall’individuo alla specie costituisce un importante cambiamento nell’immagine stessa dell’uomo. In primo luogo Buffon sottolinea la rilevanza della dimensione biologica, in particolare della sessualità e della riproduzione, che rappresentano le funzioni fondamentali da cui dipendono la diffusione o l’estinzione della specie […] in secondo luogo la spiegazione dell’esistenza di molteplici razze all’interno dell’unica specie umana si fonda su elementi naturali come il clima, il nutrimento e e le abitudini. In terzo luogo, il rapporto tra tipo di ideale della specie e i singoli individui, ognuno differente dall’altro, introduce il tema della degenerazione. Quanto il singolo individuo può allontanarsi dal tipo ideale? E questo allentamento dev’essere sempre inteso come un peggioramento e una degenerazione? Degenerazionismo. Psichiatria, Eugenetica e Biopolitica, Bruno Mondadori, Milano 2013, p. 16
più diffusa che anima la pratica della cura della psiche. Infatti, Morel dichiara più volte, all’interno del suo Traité, che lo scopo che perseguì studiando l’ereditarietà della follia, fu quello di collegare in maniera stabile psichiatria e medicina organica. In particolare per fare ciò egli adottò un nuovo punto di vista, mutuandolo da Buffon, che non fu quello del singolo, ma quello della specie umana. In particolare egli sostenne che la degenerescenza fosse causata da un germe che si trasmetteva al momento della fecondazione, il quale non solo portava il nascituro a ricevere lo stato patologico dei genitori, ma ne aumentava il grado. Morel sostenne così che la degenerescenza fosse progressiva e che la stessa, intesa quale devianza rispetto ad una specie originaria, aumentasse sempre di più sino a quando l’uomo non raggiungesse uno stadio di sterilità e di incapacità intellettiva a causa del cumulo delle patologie ereditarie. Il punto fondamentale di tale teoria è che la terapia che la psichiatria deve perseguire non avrà più di mira solo il singolo soggetto, ma si dovrà rifare alla sopravvivenza della specie. Detto con altre parole l’obbiettivo della cura psichiatrica diviene quello di conservare la specie umana nonostante la degenerescenza della specie. A questo proposito Simonazzi offre un’ottima lettura di come la psichiatria secondo Morel deve adoperarsi per proteggere la specie, infatti egli scrive: “la psichiatria ha quindi il compito di intervenire a livello sociale e
per questo motivo deve dotarsi degli strumenti necessari. Il degenerato dovrà essere trattato, entro certi limiti, al pari di un individuo infettivo. L’isolamento del manicomio ha dunque una duplice funzione: da una parte costituisce un luogo terapeutico, dall’altro rappresenta una difesa sociale. Infatti la degenerazione individuale può avere un immediato riflesso sulla degenerazione della specie se non si adottano misure di igiene sociale come quelle dell’internamento […] Morel conia l’espressione la moralisation des masses […] per indicare una terapia di igiene morale che ha come finalità un nuovo soggetto terapeutico per la psichiatria: la popolazione299”. Si può cogliere come la teoria della degenerazione, nata a
metà dell’ottocento, rappresenti a pieno la teoria delle medicalizzazione proposta da Foucault, la quale mostra come tramite la naturalizzazione dell’idea di salute si riesca a normalizzare la vita dei soggetti per mezzo delle istanze mediche e di pari passo si riesca a salvaguardare la vita della popolazione. Non a caso Morel sostiene che la psichiatria diviene la pratica medica che assume al proprio centro la popolazione, la quale deve essere preservata dalla sua possibile fine e per fare ciò bisogna isolare i soggetti portatori di disturbi psichici, i quali non saranno pericolosi solo per il soggetto, ma anche per la parte sana della popolazione. In altri termini, proprio come sostiene Foucault, la psichiatria diventa l’emblema di quella modalità biopolitica che agisce tramite la cura dei soggetti al fine di difendere e proteggere la
popolazione. Infatti Foucault scrive: “la psichiatria non cerca più, o meglio, non cerca più
essenzialmente di guarire. Propone di funzionare come protezione della società contro i pericoli di cui può essere, senza rimedio, vittima per colpa di individui che si trovano in uno stato anormale […] essa assumerà un ruolo di difesa sociale generalizzata e, attraverso la nozione di ereditarietà, si concederà al contempo un diritto di ingerenza nella sessualità familiare. Diventa la disciplina di protezione scientifica della società, la scienza della protezione biologica della specie300”. Foucault, mette, così, in luce come la psichiatria tramite
la gestione delle anomalie individuali riesce a diventare la massima istanza di protezione della società, la quale riesce a difendere la stessa dai pericoli che la minano dall’interno.