Come la tecnica medica agisce sul corpo femminile
8. La medicalizzazione del parto
8.2. Dal parto naturale…
Perché nella specie umana il parto è così doloroso? Perché la femmina dell’essere umano è l’unico mammifero ad avere bisogno dell’aiuto di altri suoi simili per dare alla luce un figlio? Le risposte a questi interrogativi vanno ricercate nella nostra storia evolutiva, più precisamente nel passaggio alla stazione eretta e nell’aumento delle dimensioni del nostro cervello, che hanno “costretto” le ossa del bacino dei nostri progenitori a modificarsi per selezione naturale.
Noi esseri umani moderni apparteniamo alla specie Homo sapiens, collocata nella famiglia degli Ominidi (Hominidae). Sappiamo che il nostro patrimonio genetico è per il 96% identico a quello delle scimmie antropomorfe più vicine a noi (scimpanzé, gorilla, orango), ma gli Ominidi sono gli unici Primati in grado di deambulare stabilmente sugli arti posteriori18. La deambulazione sulle gambe ha comportato una radicale modificazione del bacino umano, che il feto è costretto ad attraversare durante il parto. Nel corso dell’evoluzione «esso si è ristretto nel suo asse antero-posteriore e si è allargato sull’asse traverso […] permettendo di centrare le gambe sotto il corpo e quindi il mantenimento di un buon equilibrio»19. Ma la modificazione più importante è stata la curvatura in avanti del bacino, che ha continuato a permettere la nascita una volta intrapreso il cammino evolutivo verso l’encefalizzazione, con la quale la massa cerebrale è passata dai 400 cm3
delle scimmie antropomorfe ai 1400 cm3 dell’Homo sapiens. L’anatomia femminile ha dovuto infatti “adattarsi” allo sviluppo cerebrale della specie, poiché un bacino meno evoluto non avrebbe potuto garantire il passaggio della voluminosa testa del feto20. «La forma del bacino dell’uomo moderno ha rappresentato l’unica possibilità che permettesse di mettere in atto l’unico meccanismo in grado di acconsentire la nascita di un feto con l’encefalo sviluppato: la flesso-rotazione cefalica fetale all’interno della pelvi femminile»21. Nelle altre specie animali è stata proprio l’impossibilità della testa del feto di flettersi e ruotare ad aver impedito l’encefalizzazione; in presenza di un cranio fetale più piccolo, il loro parto è più agevole. Nella donna, invece, il feto va incontro a una serie di movimenti e di cambiamenti di posizione che rendono il parto molto difficoltoso e doloroso: «la testa fetale deve adattarsi ad una serie di fenomeni meccanici permittenti; il
18
L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, p. 110.
19 Ivi, cit. p. 110. 20 Ivi, p. 111. 21 Ivi, cit. p. 111.
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primo di questi è la cosiddetta riduzione, sia diretta, mediante la quale la testa fetale viene fisicamente compressa dal cingolo pelvico materno, che indiretta, mediante la quale l’estremo cefalico fetale si impegna nel bacino materno presentando il diametro più favorevole»22. Giunto nel tratto medio del canale del parto, in cui il bacino presenta una sezione di forma diversa rispetto alla sua imboccatura, la testa del feto deve effettuare un’ulteriore movimento – stavolta una rotazione parziale di 45° – in modo da disporsi con il viso all’indietro e la nuca in avanti. «Per aversi l’espulsione totale del feto deve compiersi però ancora il movimento di rotazione delle spalle che analogamente a quanto successo per la testa seguono i distretti del bacino più favorevoli. […] A questo punto il feto può finalmente sgusciare fuori alla vita esterna»23.
Per la donna il parto è talmente problematico che, a differenza delle femmine degli altri mammiferi, le risulta molto complicato riuscire a portarlo a termine da sola. A sanare questo “handicap naturale” ha provveduto l’intelligenza, e quindi la cultura, con la
cooperazione interumana24. Possiamo immaginare come già in epoca preistorica ogni partoriente fosse assistita dalle altre femmine del suo gruppo familiare e possiamo ritenere l’aiuto reciproco fra donne durante il parto «la prima forma di socializzazione umana dolce, […] contrapposta all’altra prima forma di socializzazione, quella aggressiva [e maschile] costretta dalla esigenza della caccia di gruppo»25.
8.3. … al taglio cesareo
«Come potrà evolvere questo grossolano meccanismo imperfetto che costringe il feto a nascere in condizioni di grave immaturità [per limitare le dimensioni del cervello e quindi del cranio] e la donna a partorire con gravi difficoltà ed in condizioni di estrema dipendenza?»26 La medicina occidentale ha pensato di ovviare al problema scegliendo la
22
Ivi, cit. pp. 111-112.
«[…] la riduzione diretta è possibile perché la testa fetale non è ancora completamente ossificata e quindi le ossa craniche sono modellabili, comprimibili; la riduzione indiretta è possibile perché si ha una accentuata flessione [in avanti] della testa fetale che con questo movimento sostituisce il diametro più immediato ma sfavorevole, quello occipito-frontale più lungo (11-11,5 cm) con quello sottoccipito-bregmatico (9,5 cm) più corto e favorevole» (L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 112).
23
L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 112.
24 Ivi, p. 113. 25 Ivi, cit. p. 113. 26 Ivi, cit. p. 113.
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soluzione del taglio cesareo, che al giorno d’oggi è sempre più praticato, specialmente nel nostro Paese27. Secondo Chiechi, agendo in tal modo si trascura sempre più «la via della persona per inseguire quella della tecnica»28, si è passati dalla strada della collaborazione a quella della medicalizzazione.
«Mentre nella società tradizionale occidentale la nascita era accettata come evento attivo, […] l’introduzione del taglio cesareo apportava un mutamento radicale in questa concezione: la nascita diventava un evento passivo, cioè subìto da entrambi [madre e figlio]. A far nascere non era più la donna, attraverso il suo corpo, ma l’uomo con le sue mani e la sua arte»29. Questa nuova tecnica cambiò la concezione stessa del parto: con essa la donna si affidava totalmente alle mani del medico, sapendo che per donare la vita a suo figlio poteva andare incontro alla propria morte.
Tanti meccanismi del travaglio e del parto naturale sono tuttora sconosciuti e altri si può dire che siano stati dimenticati: «lo studio e la conoscenza delle potenzialità della donna stessa che potessero aiutarla a partorire più sicuramente e felicemente sono state abbandonate e le nuove generazioni di ostetrici ed ostetriche sanno sempre meno accondiscendere la fisiologia del travaglio, hanno sempre meno dimestichezza con il parto spontaneo»30. La figura dell’ostetrica, un tempo unica vera esperta in questo campo, è stata sempre più emarginata e relegata al ruolo di assistente docile e silenziosa del medico; il suo lavoro è stato dichiarato inadeguato e si è cercata una soluzione nella tecnica chirurgica, quasi “imponendo” il parto per via addominale. Si è ormai «imposta la visione tecnologica della gravidanza»31: il parto naturale è considerato traumatico e violento, «con il suo bagaglio di dolore, grida, sudore, fatica, spinte, lacerazioni, tagli, suture»32; da molte donne è visto come una pratica superata, primitiva, adatta alla società contadina di
27
Ivi, pp. 113-114.
Il taglio cesareo è «l’intervento operatorio che permette l’estrazione del feto attraverso un’apertura ottenuta chirurgicamente nelle pareti addominale e uterina» (AA. VV., Salute. Dizionario medico CAP-DEM, RCS Libri 2006, voce Cesareo, parto). A dimostrazione di quanto sia antica questa pratica, sono giunte fino a noi numerose testimonianze scritte: tra le più antiche, quelle risalenti ai regni di Hammurabi a Babilonia e di Numa Pompilio a Roma. «Presso i Romani, la Lex Caesarea [dal verbo caedo, “taglio”] rendeva obbligatorio praticare questo intervento su tutte le donne morte in travaglio di parto. L’operazione ha preso il nome appunto da questa legge» (AA. VV., Salute. Dizionario medico CAP-DEM, RCS Libri 2006, voce Cesareo,
parto). Comprensibilmente, in accordo con le tecniche mediche allora disponibili, il taglio cesareo veniva
effettuato solo in caso di morte della madre, per salvare almeno il figlio che portava in grembo.
28
L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 115.
29
F. Pizzini, Corpo medico e corpo femminile. Parto, riproduzione artificiale, menopausa, Franco Angeli 1999, cit. p. 44.
30
L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. pp. 115-116.
31
Ivi, cit. p. 116.
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una volta33, non certo all’evoluto mondo di oggi, in cui la scienza permette di eludere lo sforzo fisico e la sofferenza.
È ovvio che la gravidanza, essendo di per sé un fenomeno naturale, implichi dei momenti di imprevedibilità che possono sfociare in problemi patologici, ma al riguardo la medicina del passato aveva sempre preferito agire a livello terapeutico, più che preventivo. Oggi, invece, grazie ai progressi della tecnica medica, abbiamo a che fare con un nuovo tipo di gravidanza, che possiamo definire gravidanza patologica o tecnologica. Così, per la donna incinta, ora sono due le “strade” percorribili. Se vivrà la gravidanza come un normale evento fisiologico, allora la affronterà con naturalità, avendo come figura di riferimento l’ostetrica e non il medico, che sarà chiamato a intervenire solo in caso di necessità. L’altra via è quella del parto non fisiologico, chirurgico, che può avvenire solo in un ambiente “artificiale” rigidamente controllato, sterile e asettico34. È la
scelta delle donne restie ad accettare l’incertezza intrinseca della gravidanza. Si tratta di un problema di ordine culturale: «la donna oggi è disposta ad accettare questo rischio di imprevedibilità legato alla naturalità delle cose […]?»35
. Non si vuole, in questa sede, criticare l’indubbia utilità del taglio cesareo, che ha salvato nel corso dei secoli molte vite, sia di madri che di figli. Quello che si intende denunciare è l’abuso di una manovra d’emergenza ormai diventata quotidianità, perché non dobbiamo dimenticarci che il taglio cesareo è un intervento chirurgico a tutti gli effetti.