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La richiesta del taglio cesareo da una prospettiva culturale

Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 150-154)

Come la tecnica medica agisce sul corpo femminile

8. La medicalizzazione del parto

8.6. La richiesta del taglio cesareo da una prospettiva culturale

Il taglio cesareo, evitando il travaglio, elimina di conseguenza tutti i rischi ad esso correlati. La medicina, negli anni, ha fatto pervenire alle donne numerosi messaggi in cui il taglio cesareo era indicato come la soluzione migliore per garantire un parto sereno sia per la madre che per il figlio, in grado di eliminare definitivamente complicazioni, lacerazioni e inutili sofferenze. Tali messaggi hanno richiesto del tempo per essere assimilati nell’immaginario collettivo, ma ormai non c’è da stupirsi se le donne sono convinte della validità di queste tesi e vedono perciò il taglio cesareo come la modalità di parto in assoluto più sicura e meno dolorosa: come detto, «oggi il parto spontaneo spaventa e il taglio cesareo rassicura»63 (cfr. par. 8.4). Si è giunti a questa situazione proprio perché «molti ginecologi hanno cominciato a preferire il taglio cesareo ed abbandonato la via vaginale perché meno rischioso in molti casi e perché tecnicamente più controllabile in tutti i casi»64. Così, come «la medicina ha convinto la donna a sottoporsi al taglio cesareo perché più sicuro per madre e figlio, oggi per gli stessi motivi la donna stessa lo richiede; la prospettiva che si possa arrivare a sottoporre tutte le donne al taglio cesareo allarma medico e società, ma inevitabilmente si raccoglie quello che si semina»65. «In definitiva il taglio cesareo rappresenta soltanto il […] prodotto di un

60 Ivi, cit. p. 128. 61 Ivi, cit. p. 129. 62 Ivi, cit. p. 130. 63 Ivi, cit. p. 135. 64 Ivi, cit. p. 130. 65 Ivi, cit. p. 130.

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cammino iniziato negli anni Cinquanta mirante non a rispettare e migliorare il percorso naturale della maternità ma a sostituirlo con l’intervento tecnologico»66.

Ora i medici sono più restii ad assecondare tale richiesta: la stessa medicina che prima imponeva il taglio cesareo, lo nega ora che le è a sua volta “imposto” sotto forma di legittima scelta della donna 67. Ma questo rifiuto comincia ad essere visto come l’atteggiamento ingiusto e arrogante di chi teme solo una riduzione della propria autorità e della propria autonomia professionale68.

Come più volte detto, quello del taglio cesareo è un problema culturale. In un certo senso possiamo affermare che nell’età moderna il parto è stato inserito in un percorso di “naturalità tecnologica”, per cui anche il parto per via chirurgica, ormai, è visto solo come un’ulteriore tappa della “tecnicizzazione” della biologia umana, lanciata verso una medicalizzazione totale che non sembra spaventare ma, anzi, sembra quasi essere auspicata69. «[…] il parto è stato medicalizzato dovunque e comunque; si partorisce in ospedale in sale travaglio che si trasformano in sale operatorie; l’ambiente del parto attuale è quello ospedaliero […] dove di naturale rimane poco anche nel parto vaginale; si svolge con i tecnici ed i superspecialisti, con le anestesie, le episiotomie, le suture, la cardiotocografia»70. Tra parto vaginale e taglio cesareo la differenza, in termini di naturalità, si assottiglia sempre più: l’unico dettaglio che ancora li distingue è il “varco” da cui il neonato viene alla luce, per il resto sono coinvolte le stesse persone, che agiscono negli stessi luoghi, seguendo le stesse rigide procedure e impiegando la stessa strumentazione tecnica. Anche nel parto vaginale l’assistenza medica ha ormai un ruolo così preponderante da fargli «oggettivamente [perdere] i criteri di fisiologicità e

naturalità» 71 . Per questo Chiechi si chiede: «Come può [una donna] sostenere

credibilmente che la gravidanza è un evento naturale nel momento in cui se ne occupa un medico, [che] la riempie di esami e medicine, la ricovera, la prepara per un intervento chirurgico?» 72 Chiechi identifica il colpevole di questa situazione nella moderna ginecologia, che spesso sembra dimenticare che «utilizzare le conoscenze scientifiche e la

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Ivi, cit. p. 135.

Conseguenza non secondaria di questo processo è stata la perdita di autonomia dell’“arte” ostetrica e la sua istituzionalizzazione nelle strutture ospedaliere.

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, p. 131.

68 Ivi, p. 130. 69 Ivi, p. 134. 70 Ivi, cit. p. 134. 71 Ivi, cit. p. 135. 72 Ivi, cit. p. 160.

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crescita culturale per assecondare la biologia femminile è l’obbiettivo a cui dovrebbe tendere»73.

La donna rivendica sempre più il diritto alla propria autonomia, esercitando una libertà attiva che si manifesta sotto forma di richiesta di una prestazione. Il problema etico che si pone è «in quale percorso si inserisce questo diritto e questa richiesta, se in un percorso di “umanità” o in un percorso di medicalizzazione; il mondo della natura è il mondo della persona e degli affetti, dei legami familiari e della complessità biologica, della variabilità e della mutevolezza»74, dell’imprevedibilità e delle difficoltà. «Quanto il rischio debba essere tenuto fuori, quanto il malformato evitato […] fa parte della propria formazione, cultura, crescita, credo»75.

Come già più volte ribadito, il taglio cesareo è nato come procedura d’emergenza, non certo come alternativa, tutto sommato equivalente, al parto naturale. Se l’intervento fosse effettivamente eseguito solo per il bene della donna e del nascituro, esso non avrebbe scatenato tutti gli interrogativi e i dubbi che invece sono sorti già da decenni. Siamo spettatori di uno scontro tra due culture cominciato agli inizi del Novecento: una «vede la gravidanza, il travaglio ed il parto come dei processi fisiologici che dovrebbero procedere senza interferenza in assenza di specifiche complicazioni e che trova principale sostenitrice l’ostetrica»76, l’altra «vede il taglio cesareo come una maniera alternativa al

parto spontaneo e che pertanto può essere proposto o preferito come tale»77 (cfr. par. 9.3). La questione dell’eticità del soddisfare la richiesta di taglio cesareo è quindi aperta. Senza che le loro autonomie collidano, il medico ha il dovere di non ostacolare la libera scelta della donna, il dovere di non rifiutarsi di esaudire la sua richiesta anche nel caso in cui l’intervento da lei scelto non lo trovasse d’accordo, il dovere di non proporre un intervento non strettamente necessario. Il suo primo compito è aiutare la donna e renderla pienamente consapevole e responsabile delle proprie scelte e delle relative conseguenze, compito sicuramente più agevole se le suddette scelte saranno state spontanee e non

73 Ivi, cit. p. 163. 74 Ivi, cit. p. 136. 75 Ivi, cit. pp. 136-137.

Oltretutto, nonostante il parto naturale le terrorizzi, le donne dovrebbero ricredersi sulla sicurezza del parto chirurgico, che non è affatto una certezza assoluta: la mortalità materna ha anzi percentuali più elevate, senza contare che è possibile l’insorgere di complicazioni nelle gravidanze successive al primo taglio cesareo. Inoltre, non tutti i medici sono concordi sul fatto che venire alla luce attraverso il ventre materno sia per il bambino la soluzione migliore in assoluto (L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, p. 137).

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 141.

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pilotate78.

Non si può infine evitare di considerare le implicazioni legali della questione. Se un medico accetta di praticare un taglio cesareo su richiesta della donna, senza reali motivazioni mediche, e dall’operazione derivassero gravi conseguenze per la madre o per il figlio, per la legge egli risulterebbe essere l’unico responsabile. Allo stesso tempo, però, optare per un parto chirurgico gestito garantirebbe al medico un maggior controllo sul parto stesso, in modo da limitare al minimo eventuali complicazioni, con le loro inevitabili ripercussioni giudiziarie79: oggi, lo stesso medico che viene accusato dalla società di praticare troppi cesarei, corre il rischio di essere condannato dalla legge per non averne praticati abbastanza80.

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Ivi, pp. 138-139.

79

Ivi, p. 139.

Si tratta di un caso emblematico di “medicina difensiva”.

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Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 150-154)

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