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La classificazione sociale come conseguenza della medicalizzazione

Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 34-37)

L’invadenza della medicina e le sue implicazioni etiche

2. Medicalizzazione: quando la società è “malata” di medicina

2.6. La classificazione sociale come conseguenza della medicalizzazione

La moderna medicina esercita un controllo sociale sulla popolazione. Il suo “potere definitorio” è così vasto che da essa ci si aspetta l’ultima parola sulla nostra e altrui salute: alla medicina è stato delegato non solo il compito di trovare una cura per le malattie, ma addirittura quello di stabilire cosa significhi essere sano, malato, incinta, a rischio, allontanando a poco a poco dagli individui la capacità “naturale” di autodefinirsi. È la medicina che convince gli individui di essere malati e bisognosi di cure, che fa avvertire loro la necessità di essere dichiarati sani o di conoscere la “cura” migliore per tornare ad esserlo e rientrare nella cosiddetta “norma”. Essa inoltre ha la capacità di generare sempre nuove tipologie di pazienti76.

La medicina può decidere cosa è bene e cosa è male. «In ogni società la medicina, al pari del diritto e della religione, definisce ciò che è normale, giusto o desiderabile. La medicina ha l’autorità di etichettare come malattia legittima ciò che lamenta un individuo, di dichiararne malato un altro anche se non si lamenta, e di rifiutare a un terzo il riconoscimento sociale della sua sofferenza»77. Alla medicina quindi spetta sempre l’ultima parola sulle sensazioni soggettive dell’individuo: essa solamente può oggettivarle, dichiarandole sintomi a tutti gli effetti. Così come tocca al giudice stabilire che cosa è legale e chi infrange la legge e al prete dichiarare che cosa è sacro e chi commette un

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, p. 91.

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I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, cit. pp. 72-73.

75

B. Duden, I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne, Bollati Boringhieri 2006, p. 138.

76

I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, p. 51.

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peccato, così «il medico decide che cosa è un sintomo e chi è malato»78.

Illich propone un parallelo con le società primitive, nelle quali era riconosciuto al guaritore il potere morale di discernere il bene dal male. Nella nostra società tecnicamente avanzata questo potere, passato nelle mani del medico, si espande ulteriormente e viene esercitato attraverso la professionalizzazione delle mansioni sanitarie. «Soltanto i dottori oggi “sanno” che cosa costituisce una malattia, chi è malato, e che cosa bisogna fare al malato e a quelli che essi considerano “esposti a uno speciale rischio”. […] la classificazione sociale è stata medicalizzata a tal punto che ogni devianza deve avere un’etichetta medica»79

.

«In una società medicalizzata l’influenza dei medici […] si estende […] anche alle categorie cui le persone sono assegnate. La burocrazia medica suddivide gli individui in quelli che possono guidare l’automobile, quelli che possono assentarsi da lavoro, quelli che debbono essere rinchiusi, quelli che possono fare il soldato, quelli che possono andare oltre frontiera, […] quelli che sono morti, quelli che sono in grado di commettere un delitto e quelli che sono responsabili d’averlo commesso»80

. Il possesso di un certificato firmato da un medico «fornisce al titolare uno status speciale basato non sull’opinione civica ma su quella sanitaria»81. Una delle conseguenze di questa proliferazione di attestati medici è il condizionamento che subisce la vita degli individui, che possono vedere usurpata la loro libertà a causa della mancanza di determinati requisiti sanitari o per la presenza di anomalie rispetto agli standard: «la diagnosi può negare la nascita a un essere umano con geni cattivi, escludere un altro dalla carriera e un terzo dalla vita politica»82. «Una volta che una società è organizzata in modo tale che la medicina può trasformare gli individui in pazienti perché sono ancora in pancia o neonati o in menopausa o in qualche altra “età di rischio”, inevitabilmente la popolazione cede una parte della sua autonomia ai propri terapeuti»83.

«La ritualizzazione delle fasi della vita è un fatto tutt’altro che nuovo; quella che è nuova è la loro intensa medicalizzazione. […] La supervisione medica permanente […] fa di tutta la vita una serie di periodi di rischio, ciascuno dei quali richiede una tutela

78 Ivi, cit. p. 54. 79 Ivi, cit. p. 55. 80 Ivi, cit. pp. 86-87. 81 Ivi, cit. p. 87. 82 Ivi, cit. p. 101. 83 Ivi, cit. pp. 87-88.

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speciale. […] la vita diventa un pellegrinaggio tra test e cliniche verso la corsia dove essa ebbe inizio»84. Essa è ridotta a un percorso che, nel bene e nel male, deve essere pianificato e modellato istituzionalmente85. La vita così intesa «comincia a esistere con l’esame prenatale, quando il dottore decide se e come il feto dovrà essere partorito, e terminerà con un timbro su un grafico che prescriverà di sospendere la rianimazione. Tra il parto e il termine estremo, questo fascio di interventi biomedici trova la sua migliore collocazione in una città che sia costruita come un utero meccanico»86.

Tra gli stati che solo recentemente hanno generato una domanda di assistenza medica troviamo la vecchiaia, un tempo «considerata ora un dubbio privilegio ora una pietosa conclusione ma mai una malattia»87. Nella moderna società occidentale, invece, aumenta costantemente la quota della popolazione «che rivendica il diritto ad essere curata della propria vecchiaia»88; questo ha condotto alla medicalizzazione della fase finale della vita, cioè alla sua trasformazione in uno stato che necessita di continua assistenza professionale.

La medicina non pervade solo la parte conclusiva della vita, ma anche il suo principio. L’autorità del medico, che ha fatto la sua comparsa in sala-parto alla metà del diciannovesimo secolo, si è a poco a poco estesa nel tempo, «finendo per medicalizzare l’infanzia, la fanciullezza e la pubertà»89. Il controllo medico-sociale sull’uomo moderno

si esplica «facendo del neonato un paziente da tenere in clinica finché non se ne certifichi la buona salute, e definendo il lamento della nonna un bisogno di terapie anziché di comprensivo rispetto»90; in questo modo «l’impresa medica crea non soltanto una legittimazione dell’uomo-consumatore formulata in termini biologici, ma anche nuove spinte verso un’escalation della megamacchina»91

che si è pian piano sostituita alla società. 84 Ivi, cit. pp. 88-89. 85 Ivi, p. 89. 86 Ivi, cit. p. 89. 87 Ivi, cit. p. 91. 88 Ivi, cit. p. 91. 89 Ivi, cit. p. 95. 90 Ivi, cit. p. 98. 91 Ivi, cit. p. 98.

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Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 34-37)

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