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La storia del dolore: dall’“arte di soffrire” alle tecniche analgesiche

Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 45-49)

L’invadenza della medicina e le sue implicazioni etiche

2. Medicalizzazione: quando la società è “malata” di medicina

2.12. La storia del dolore: dall’“arte di soffrire” alle tecniche analgesiche

Affinché il dolore corporeo sia un’autentica esperienza personale e «costituisca una sofferenza nel senso pieno del termine, bisogna che sia inserito in un quadro culturale»138. La cultura, infatti, offre tutti i mezzi necessari per affrontare al meglio il dolore: fornisce i gesti e le parole con cui esternarlo, insegna l’uso di una farmacopea naturale volta ad alleviarlo, propone dei miti che ne giustificano l’origine e modelli da seguire per sopportarlo. Infine, l’ambiente culturale permette di integrare tutte queste conoscenze in una vera e propria “arte di soffrire”139

. La medicalizzazione del dolore, che si è imposta nella civiltà occidentale – e non solo – in epoca moderna, ha scardinato in relativamente

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I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, cit. p. 157.

136 Ivi, cit. p. 157. 137 Ivi, cit. p. 158. 138 Ivi, cit. p. 158. 139 Ivi, pp. 158-160.

Con questa espressione non intendiamo una sopportazione passiva di qualunque sensazione dolorosa, bensì la capacità dell’individuo di affrontare il dolore facendo innanzitutto ricorso alle proprie risorse, e solo se queste si rivelassero insufficienti rivolgersi ai rimedi offerti dalla medicina.

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poco tempo questa complessa struttura culturale elaborata nel corso di secoli. Con il suo intervento, la tecnica medica «ha reso o incomprensibile o scandalosa l’idea che l’abilità nell’arte di soffrire possa essere la maniera più efficace e più universalmente valida di affrontare il dolore»140.

I criteri dell’incontro tra medico e paziente e le reazioni di entrambi davanti al dolore sono oggi decisi dai canoni sociali. Fino a quando il medico ha rivestito il ruolo di semplice guaritore, il dolore era una condizione essenziale che anticipava il recupero della salute; solo se egli falliva nel suo intento di guarire, non gli restava che alleviare la sofferenza del paziente, senza per altro vedere in questo esito una disonorevole sconfitta, come invece accade ai medici di oggi. «Il funzionario della medicina attuale si trova in una posizione diversa: egli mira in primo luogo al trattamento, non alla guarigione. […] Si vanta di conoscere la meccanica del dolore, e in tal modo elude l’invito del paziente alla compassione»141.

Come si è giunti a un atteggiamento di questo tipo? Per spiegarlo, Illich passa in rassegna la concezione del dolore nelle civiltà del passato, a partire dai Greci. Per Ippocrate e i suoi discepoli «nel corso della cura il dolore poteva anche sparire, ma non era certo questo l’obiettivo principale dell’intervento medico»142

. Non che la sofferenza fosse gradita, ma senza di essa non era concepibile nemmeno la felicità, «il dolore era il riflesso dell’evoluzione [dell’universo] sull’anima, il suo modo di viverla»143. Il dolore del

corpo era perciò intimamente connesso a quello dell’anima, al punto che si impiegavano le stesse parole per designare entrambi. Anche le ideologie che si affermarono in Europa nei secoli successivi promuovevano la personale accettazione del dolore, quali che fossero le cause metafisiche che gli attribuivano144. Per tutte le religioni e le scuole di pensiero il dolore era un’ineluttabile componente della vita e «aveva il gusto amaro di un male cosmico»145. «Sin dalla nascita ognuno era chiamato ad imparare l’arte di vivere in una valle di lacrime»146. «Il dolore era concepito come il riflesso umano di un universo

140

I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, cit. p. 160.

141 Ivi, cit. p. 161. 142 Ivi, cit. p. 161. 143 Ivi, cit. p. 162. 144

Ad esempio, a seconda che si prenda in considerazione il Neoplatonismo, il Manicheismo o il Cristianesimo, il dolore «era la manifestazione di una debolezza della natura, di una volontà diabolica, o di una meritata maledizione divina» (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, cit. p. 162).

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I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, cit. p. 163.

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imperfetto, non come una semplice disfunzione meccanica di qualche suo sottosistema. […] Il dolore denotava una corruzione insita nella natura, e l’uomo dal canto suo era una parte di quel tutto. Non si poteva escludere l’uno senza l’altro; il dolore non era pensabile come qualcosa di distinto dal disturbo. […] il dolore era un’esperienza dell’anima»147.

Questi atteggiamenti caratterizzano e accomunano le culture mediterranee postclassiche fino al XVII secolo148. Era ancora lontana «l’idea che il dolore non richiedesse d’essere sofferto, alleviato e interpretato dalla persona colpita, ma poteva essere eliminato […] mediante l’intervento […] di un medico»149

.

Bisognerà attendere Cartesio perché inizi a farsi strada l’idea della soppressione tecnica del dolore. Con la divisione cartesiana del corpo dall’anima, infatti, si comincia a considerare il primo come se fosse una macchina controllata dalla seconda. Poiché in questa visione il corpo è un apparecchio che è possibile riparare quando si “inceppa”, il dolore non è altro che un segnale con cui esso avverte l’anima di un proprio malfunzionamento. Secondo i cartesiani Dio non poteva dotare l’uomo di un dispositivo migliore del senso del dolore affinché potesse conservarsi nella maniera più perfetta150. Leibniz arriva a definire il dolore come «un espediente necessario e brillante per garantire il funzionamento dell’uomo»151

. Così, dopo Cartesio, non è insolito che nei discorsi sul dolore compaia l’aggettivo “utile”. «Da esperienza della precarietà della vita, [il dolore] si è trasformato in una spia di specifiche avarie»152.

Cartesio aveva così preparato la strada all’eliminazione scientifica del dolore. Nei due secoli successivi si impose una nuova mentalità, che per la prima volta poteva lamentarsi del mondo proprio perché carico di sofferenza. Alla fine dell’Ottocento ormai «il dolore non aveva più bisogno di spiegazioni metafisiche»153 e poteva finalmente «essere sottoposto a studi empirici aventi lo scopo di eliminarlo»154. Il progresso della civiltà iniziò ad essere misurato in funzione della riduzione della sofferenza.

Il dolore è visto oggi come un evento che colpisce chi è così sfortunato da non poter

147 Ivi, cit. p. 164. 148 Ivi, cit. p. 163. 149 Ivi, cit. pp. 163-164. 150 Ivi, cit. pp. 164-165. 151

G. W. Leibniz, Essais de théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, Garnier- Flammarion 1969. Citato in: I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, p. 165.

152

I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Arnoldo Mondadori 1977, cit. p. 165.

153

Ivi, cit. p. 165.

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godere delle cure che la moderna medicina mette a disposizione155. «In questo contesto sembra ormai razionale fuggire il dolore, […] piuttosto che fronteggiarlo. Sembra ragionevole eliminare il dolore, anche a costo di perdere l’indipendenza. Sembra mentalità illuminata considerare inesistenti tutti i problemi non-tecnici sollevati dal dolore»156. Per tutti questi motivi, Illich parla di quella attuale come di una società “anestetizzata”157

. In una società in cui è stato soffocato per via medica, il dolore perde il suo significato, significato che invece possedeva nelle culture tradizionali, che insegnavano a sopportarne il peso. «La nuova esperienza che ha preso il posto della sofferenza dignitosa è una conservazione artificialmente prolungata, opaca, spersonalizzata. La soppressione del dolore trasforma sempre più l’individuo in un insensibile spettatore della decadenza del proprio io»158.

Consideriamo il dolore provato dalla donna nel corso del parto e il numero ingente di richieste di anestesia epidurale e di taglio cesareo che vengono avanzate oggi: alla luce delle considerazioni fatte finora, non risultano insoliti né la domanda di poter partorire senza dolore né il desiderio diffuso di sottrarsi all’esperienza del parto, arrivando addirittura a preferire sottoporsi a un’operazione chirurgica non priva di rischi (cfr. Cap. 8). 155 Ivi, p. 166. 156 Ivi, cit. p. 166. 157

Una diretta conseguenza della medicalizzazione della società è l’innalzamento della soglia a partire dalla quale sono percepite le esperienze a base fisiologica: noi moderni consumatori di analgesia non siamo più avvezzi ad apprezzare i piaceri semplici della vita e siamo alla ricerca di emozioni sempre più forti, ottenute attraverso il rumore, la velocità, la violenza, il pericolo (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della

salute, Arnoldo Mondadori 1977, pp. 166-167).

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Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 45-49)

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