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Il disagio morale del medico e degli altri operatori sanitar

Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 64-69)

L’invadenza della medicina e le sue implicazioni etiche

3. Cosa è giusto e cosa è sbagliato: l’etica in medicina

3.8. Il disagio morale del medico e degli altri operatori sanitar

Quando l’individuo si trova al cospetto della medicina e diventa un “paziente”, vive un’esperienza di difficoltà e di vulnerabilità; ebbene, nel confrontarsi «con la malattia, la

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, p. 58.

75 Ivi, cit. p. 58. 76 Ivi, cit. p. 58-59. 77 Ivi, pp. 59-60.

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sofferenza umana, la vita, la nascita, la morte»78, anche gli operatori sanitari affrontano una sorta di disagio morale, ovviamente di natura diversa. Per loro la tipologia più pericolosa di disagio è quello che gli anglosassoni chiamano moral distress (“sofferenza morale”), che colpisce «l’operatore [che] sa che quella che sta facendo è una azione moralmente scorretta ma ugualmente è costretto a farla per dovere istituzionale o per obbedienza gerarchica»79. «Oggi la medicina è una struttura sanitaria, con i manager, i politici, gli amministrativi, i paramedici, i tecnici, i biologi, i chimici, i medici. E la medicina non è solo cura della malattia, è anche prevenzione, cura della fisiologia. E a volte affronta percorsi inaspettati, incomprensibili e non condivisibili»80.

«La discussione bioetica è accesa sulle cellule staminali, sulla eutanasia, se la vita inizia nel momento dell’impianto od allo stadio dei pronuclei ed è invece silente sui drammi che non appartengono alle questioni di principio»81, che spesso coinvolgono gli operatori sanitari più da vicino e possono opprimerli e demotivarli più intensamente di quei grandi dilemmi. Prendiamo, ad esempio, il modo in cui viene affrontata oggigiorno la sindrome di Down. Come affermava già Illich (cfr. par. 2.6), la medicina moderna si arroga il diritto di definire cosa sia accettabile e cosa non lo sia. Ebbene, «la nostra medicina silenziosamente e senza discussione alcuna ha dichiarato la sindrome di Down una malformazione […] inaccettabile per la nostra società»82: l’identificazione degli

individui affetti da tale patologia come “esseri indesiderati” si è affermata senza clamore, in modo implicito, prima negli studi dei ginecologi e da qui nelle menti di tutti, comprese quelle dei loro genitori. Ci sono vari esami prenatali – da eseguire in base all’età o alla fascia di rischio in cui si rientra – che permettono di diagnosticare la presenza di tale sindrome: amniocentesi e villocentesi (tra le tecniche dirette), tri-test e valutazione della translucenza nucale del feto (tra le tecniche indirette) (cfr. par. 7.2). In ogni caso non esiste attualmente alcuna cura, perciò, se l’esito dell’esame dovesse essere positivo, l’unica alternativa possibile al proseguimento della gravidanza è la sua interruzione, ovvero l’aborto83; viene spontaneo chiedersi se tutto questo sia eticamente e umanamente

corretto. È qui che si pone il moral distress: «il biologo di un centro di medicina prenatale

78 Ivi, cit. p. 69. 79 Ivi, cit. p. 70. 80 Ivi, cit. p. 71. 81 Ivi, cit. p. 71. 82 Ivi, cit. p. 71. 83 Ivi, p. 71.

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esegue quotidianamente la diagnostica della trisomia 2184, con la consapevolezza che la sua diagnosi è un certificato di interruzione di gravidanza»85; egli può percepire tutto questo come non etico, ma non può rifiutarsi di eseguire il test.

Come abbiamo visto, l’esito positivo delle analisi di laboratorio può essere causa di un’interruzione volontaria di gravidanza, intesa come scelta consapevole dei genitori

dopo aver effettuato il test. Tuttavia, non bisogna dimenticare che esiste la possibilità di

abortire anche solo per il fatto di sottoporsi all’amniocentesi o alla villocentesi. Si tratta, infatti, di due esami invasivi, che comportano un rischio di aborto, come conseguenza diretta del prelievo del campione, attorno all’1-2% dei casi. In sostanza, sia il test in sé sia il suo esito possono “provocare” un aborto, con la sostanziale differenza che nel primo caso potrebbe risultare interrotta una gravidanza del tutto sana. Di questo rischio la madre e il padre sono informati86: un loro eventuale consenso a effettuare comunque l’esame dimostra come essi siano disposti a correrlo pur di non avere un figlio che potrebbe presentare delle malformazioni o non soddisfare altri requisiti imposti come “normali” dalla medicina87. Se si prosegue su questa strada, chi potrà impedire in futuro che nuove caratteristiche fisiche o mentali siano definite “inadatte” e quindi che le persone che le possiedono siano considerate “non degne” di venire al mondo? Il rischio è che tali decisioni diventino davvero troppo arbitrarie.

Una figura che soffre abitualmente il moral distress è quella dell’ostetrica, specialmente in tempi recenti. Questa figura professionale ha subito, nel corso degli anni, una marginalizzazione sempre più marcata (cfr. Cap. 9), dovendo allo stesso tempo fare i conti, sempre più frequentemente, con procedure che vanno contro la coscienza professionale ed etica che le ostetriche maturano nel corso della loro esperienza lavorativa88. «L’ostetrica è nata insieme al parto spontaneo, è nata per aiutare la donna a partorire, unico essere vivente ad avere un parto così difficoltoso e [a] trovarsi nella condizione di poter difficilmente partorire da sola, o per lo meno, con gravi rischi. Donna fra le donne ha imparato e tramandato l’arte dell’assistenza al parto, fatta non soltanto di

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Anomalia cromosomica che determina la sindrome di Down.

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 72.

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A dire il vero, Chiechi denuncia una certa superficialità dei ginecologi nell’esporre ai genitori il problema, poiché sempre più spesso essi consigliano caldamente di sottoporsi all’amniocentesi o alla villocentesi «non soffermandosi a considerare e discutere con la donna le conseguenze della scelta di questo esame» (L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 73).

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, p. 72.

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tecnica, ma anche e soprattutto di pathos, umanità, amore, dedizione, sacrificio, simpatia, autorità»89. A partire dalla seconda metà del XX secolo ha avuto inizio il processo di medicalizzazione del parto e ha iniziato a imporsi «la gestione medica del parto, l’evoluzione tecnologica dell’assistenza alla nascita»90. Questo processo ha contribuito

alla riduzione dello spazio professionale e del ruolo attivo dell’ostetrica91

; le sue conoscenze hanno subito un lento declino e in parte si sono “trasferite” verso altre figure: ciò che un tempo era di esclusiva competenza delle ostetriche, quindi “femminile”, è passato alla responsabilità dei ginecologi, diventando in qualche modo “maschile”92

. Ma ci sono cose che un medico, per quanto preparato, non potrà mai offrire a una donna che sta per dare alla luce un figlio. Dai tempi dei tempi, infatti, l’ostetrica soffriva insieme alla partoriente, la aiutava, la spronava, la capiva, condivideva con lei le emozioni di quei particolari, quanto unici, momenti. Oggi, invece, deve dimenticare tutto questo, poiché è diventata una «mortificata […] vigilatrice di tracciati cardiotocografici ed esecutrice delle disposizioni mediche»93, che spesso non condivide o ritiene troppo praticate rispetto alla loro reale necessità, come nel caso dell’episiotomia o del taglio cesareo (cfr. Cap. 8). In questo contesto, a rimetterci sono state tutte le donne: lo scenario umano che le circondava al momento del parto è profondamente mutato, nella forma e nella sostanza.

Anche il medico, tuttavia, è una vittima del moderno sistema sanitario, così impersonale e tecnicizzato. La trasformazione degli ospedali in vere e proprie aziende, gestite secondo direttive manageriali, ha generato «una medicina troppo lontana dalla sofferenza, […] troppo distratta dal vero obiettivo e dal vero interesse per la malattia»94

, troppo impegnata a rispettare gli impegni presi in termini di profitto e di produttività. «In queste condizioni il medico è stritolato fra [la sua] coscienza etica che gli impone il trattamento secondo le necessità del malato ed i suoi tempi, ed i tempi del DRG95 che gli

89 Ivi, cit. p. 74. 90 Ivi, cit. p. 74. 91

In passato il medico interveniva solo durante i parti più a rischio, in caso di pericolo di vita della partoriente. Egli quindi aveva un ruolo, se non marginale, certamente non più importante di quello dell’ostetrica, come invece avviene oggi.

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Il termine “maschile”, qui usato, non è da intendersi solamente in riferimento al sesso del medico che assiste la partoriente, quanto piuttosto alla distanza emotiva e spirituale che lo separa da lei, risultato della sua formazione professionale e della sua mentalità prettamente tecnico-scientifica. Si tratta, infatti, di considerazioni spesso valide anche per le ginecologhe donne.

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 74.

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Ivi, cit. p. 75.

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DRG sta per Diagnosis-Related Groups (“raggruppamenti omogenei di diagnosi”). Si tratta di «un sistema che permette di classificare tutti i pazienti dimessi da un ospedale (ricoverati in regime ordinario o day

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impongono la dimissione secondo gli schemi della produttività burocratica ed ottusa»96. «Il mancato rispetto dei diritti del malato e le costrizioni istituzionali a cui gli operatori sono perennemente sottoposti produce a cascata la crisi etica e la progressione della

sofferenza morale negli operatori, medici, infermieri, ostetriche, studenti,

specializzandi»97. Chiechi afferma che l’angoscia morale che gli operatori subiscono rimane un problema per lo più “sotterraneo”, sottovalutato e trascurato. Una delle sue possibili conseguenze può essere l’abbandono della struttura ospedaliera per cercare sistemazioni eticamente più appaganti98. L’unico punto da cui partire per liberarsi definitivamente dal moral distress non può che essere una educazione etica del personale sanitario99.

quantificare economicamente tale assorbimento di risorse e quindi di remunerare ciascun episodio di ricovero. Una delle finalità del sistema è quella di controllare e contenere la spesa sanitaria. Il DRG viene attribuito ad ogni paziente dimesso […] tramite un software chiamato DRG-grouper mediante l’utilizzo di poche variabili specifiche del paziente: età, sesso, tipo di dimissione, diagnosi principale, diagnosi secondarie, procedure/interventi chirurgici. Tali variabili sono utilizzate dal software […] a seguito della compilazione, da parte del medico responsabile della dimissione, della scheda di dimissione ospedaliera (SDO) presente in tutte le cartelle cliniche dei dimessi dalla struttura ospedaliera e inserita in un tracciato informatizzato. […] Il sistema DRG viene applicato a tutte le aziende ospedaliere pubbliche e a quelle private accreditate (ovvero che possono emettere prestazioni ospedaliere per conto del SSN) italiane e alle ASL» (http://it.wikipedia.org/wiki/Diagnosis-related_group, accesso: 16/01/2013).

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L. M. Chiechi, Donna, etica e salute, Aracne 2006, cit. p. 75.

97 Ivi, cit. p. 76. 98 Ivi, p. 76. 99 Ivi, p. 77.

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Nel documento La medicalizzazione del corpo della donna (pagine 64-69)

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