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CAPITOLO II: DAL DOPOGUERRA AL BOOM ECONOMICO

2. La ripresa degli studi sociali dopo il fasciamo: vecchie e nuove opposizioni

2.2. L’influenza americana e lo scientific management

2.2.1. Dalle Relazioni Umane alle Relazioni Industriali

In questo clima cominciarono a diffondersi anche in Italia i primi studi di Relazioni Umane, ritenuti indispensabili per un rapido miglioramento in termini di profitto aziendale. Nel 1955 venne organizzato il convegno di Stresa sull’organizzazione umana nell’economia industriale, il cui valore fu di rafforzare i legami tra quel piccolo gruppo di addetti ai lavori, che sposava tale causa, in contrapposizione ai sindacati e ai partiti di sinistra (CGIL e PCI), che invece cercavano di ostacolare l’introduzione di questo ‘miglior’ sistema di rapporti umani nelle imprese. In questi anni divenne molto profonda la contrapposizione tra la CISL, che fece proprio il compito di studiare e diffondere questi nuovi tipi di rapporti178, e la CGIL che invece ne denunciava con forza il reale fine di subordinazione e sfruttamento

dei lavoratori da parte dei padroni, con l’aggravante di minare alla base la forza collettiva dei lavoratori per renderli sempre più isolati e indifesi. Per molti anni il tema delle relazioni umane contribuì a produrre un profondo distacco tra il movimento operaio e la sociologia, vista come “semplice strumento di mistificazione, asservimento e corruzione ideologica” (Massironi, 1975, p. 52).

Fino al 1955-’56 si moltiplicarono “gli istituti per l’insegnamento pratico delle relazioni umane e le pubblicazioni di ogni livello e periodicità sull’argomento”, dal “1956 la tematica delle relazioni umane sembra scomparire quasi del tutto dalle pubblicazioni e dai convegni organizzati da istituti legati all’industria” (ibidem). Il motivo di questo imminente abbandono del tema può essere rintracciato nella decisa opposizione della sinistra che denunciava gli intenti pratici di questo nuovo modello: il coinvolgimento dei lavoratori nella politica produttivistica e di profitto dell’azienda, la “identificazione

178 Nel 1951 veniva costituita a Firenze una scuola per la formazione dei quadri denominata Centro Studi, diretta dal professor

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degli interessi dei lavoratori con quelli dell’azienda, e la richiesta di abbandono della lotta di classe in favore di una concezione di collaborazione di classe” (ibidem). Le stesse aziende cominciarono ad ostacolare la diffusione di questo nuovo sistema di rapporti ritenuto poco risolutivo dei problemi di direzione del personale, rapporti con i sindacati e negoziati collettivi. Si crearono le condizioni per l’affermazione delle relazioni industriali che sostituivano al rapporto azienda-singolo lavoratore la contrattazione collettiva attraverso la mediazione dei sindacati. Il passaggio dalle relazioni umane alle relazioni industriali ebbe inizio dalle aziende più avanzate, come l’Olivetti, e dalle aziende a partecipazione statale, come l’ENI e l’IRI, in quest’ultimo caso grazie anche al distacco da Confindustria e alla nascita nel 1958 dell’Intersind (Balbo et al., 1975).

2.2.1.1. Il caso Olivetti

La Olivetti rappresenta un caso unico e particolare di politica aziendale non solo sulla scena italiana ma internazionale. In un contesto in cui le aziende italiane erano per lo più gestite attraverso una politica ragionieristica, autoritaria e dinastica, Olivetti e il suo staff, di estrazioni antifascista, per lo più socialista o appartenente al Partito d’azione, davano vita ad una politica aziendale marcatamente progressista. Adriano Olivetti si pose innanzitutto il compito di perseguire uno sviluppo della sua azienda che non mettesse a repentaglio gli equilibri propri del contesto in cui nasceva e si proponeva di crescere179 (Balbo

et al., 1975).

Nel 1951 veniva costituito il GTCUC (Gruppo Tecnico per il Coordinamento Urbanistico del Canavese) in cui l’Olivetti partecipava, insieme al comune di Ivrea, con l’obiettivo di analizzare i fenomeni di squilibrio territoriale e cercare di risolverli. Venne costituita un’équipe di ricerca, a carattere fortemente interdisciplinare, costituita da urbanisti, uno statistico, uno psichiatra, un pedagogista ed un sociologo, il professore italo americano Paul Campisi. Nonostante la parte finale della ricerca rimase incompiuta e i suoi risultati non vennero pubblicati in Italia, questa iniziativa contribuì, in modo determinante, a una ridefinizione della figura professionale del sociologo sul piano pubblico: “il sociologo nell’équipe interdisciplinare si trova in una posizione centrale ed ha, assieme all’urbanista, una funzione coordinatrice” (Massironi, 1975, p. 58).

179 Adriano Olivetti, erede di una famiglia imprenditoriale, è promotore di una cultura riformatrice che va ben al di là dei temi

e dei problemi relativi esclusivamente alla fabbrica. Nel 1950 la Olivetti realizza la Lettera22, una macchina per scrivere portatile dal design essenziale che avrà un enorme successo sia in Italia che all’estero, ricevendo diversi premi; ed è tutt’ora esposta nella collezione permanete di design del Museum of Modern Art di New York (Griner, 2016).

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Anche all’interno della fabbrica cominciarono ad aprirsi spazi per i ricercatori sociali ed i sociologi, venne messa in pratica una serie di avanzate sperimentazioni a sostegno della classe operaia: riduzione dell’orario di lavoro, asili nido per i figli dei dipendenti, mense aziendali e 40 assistenti sociali alle dipendenze dell’azienda ma assolutamente autonomi nella gestione del proprio lavoro, onde evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione da parte dei capo-reparto (Balbo et al., 1975).

Nel 1955 venne costituito l’USRS (Ufficio Studi e Relazioni Sociali) che vide l’immissione diretta di un sociologo nell’organizzazione aziendale. Luciano Gallino, nel 1956, venne invitato da Olivetti a prendere attivamente parte ai lavori di questo ufficio attraverso la “compilazione di schede di lettura tratte da articoli, saggi [e] libri attinenti ai problemi dell’organizzazione industriale” al fine di raccogliere tutte queste informazioni “in un «Bollettino Interno» ad uso dei quadri e dei capi intermedi” (Massironi, 1975, p. 59).

All’interno della fabbrica vennero, inoltre, costituite una serie di strutture specifiche, coordinate da un’équipe interna intorno al cui nucleo gravitavano una serie di consulenti esterni “il Centro Culturale delle Biblioteche Olivetti, il Centro Sociale, la Redazione del Notiziario Olivetti, le Pubbliche Relazioni (dipendente dalla direzione della pubblicità), gli Uffici delle Relazioni con il Personale, il Gruppo di Direzione politica del Movimento di Comunità, il Gruppo per la propaganda politica del Movimento” (ivi, p. 61).

Dal gennaio del 1952 iniziano le pubblicazioni della rivista Tecnica e organizzazione. Rivista di studi sul

lavoro umano che sin dal suo primo numero dichiarava la sua attenzione per la sociologia industriale al

fine di analizzare i problemi posti dallo sviluppo tecnologico. Francesco Brambilla fu il direttore e il responsabile della sezione economia e sociologia industriale, Antonio Carbonaro il redattore, mentre Angelo Pagani il responsabile della sezione relazioni umane nell’industria. L’attenzione della rivista alla nuova scienza non si limitò alla sociologia industriale ma prese in considerazione la più ampia problematica dell’affermazione della sociologia come scienza e come professione nell’Italia della Rinascita. Scrisse sulla rivista un gruppo di sociologici che negli anni successivi occuperà posizioni di potere all’interno e all’esterno dell’università: F. Barbano, A. Carbonaro, L. Diena, A. Pagani, F. Ferrarotti, G. Galli, E. Lepora, A. Pizzorno, L. Gallino (ibidem).

Franco Ferrarotti, che dal 1948 avviò una collaborazione con Olivetti, durata fino alla morte di questi nel febbraio del 1960, nel testo La società e l’utopia. Torino, Ivrea, Roma e altrove (2001) così ricorda quell’esperienza ad Ivrea “La parola licenziamento non esisteva nel nostro vocabolario, non poteva esistere. E la fabbrica esisteva e lavorava e si sviluppava in tutto il mondo, rispettando la propria comunità di origine. Quindi non c’era alcuna distruzione, alcun cambiamento violento dell’ambiente in cui la

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fabbrica era nata e a poco a poco si era sviluppata. C’era un grande rispetto. Eravamo di quarant’anni di anticipo sull’ecologia di cui oggi si parla. Allora non ne parlavamo: la realizzavamo a poco a poco, giorno per giorno, mese dopo mese. […]. Non si sentiva né la mano benefica né l’ombra del padrone. Il padrone non c’era. C’era questa grande realtà tecnica che diventava anche, ed era allo stesso tempo, una realtà umana. C’erano le case degli operai, degli impiegati. Non era l’operaio immigrato dal centro-sud: era un operaio contadino, che manteneva il legame col proprio campicello e che quindi il week-end lo passava non ai mari o ai monti, non fuggiva dalla sua comunità ma tornava ai suoi campi. Restava contadino, agricoltore, piccolo proprietario. […]. L’idea di una comunità concreta veniva ad Adriano Olivetti dal fatto stesso della conformazione geofisica del Canavese, quel pugno di comuni all’ingresso della Valle d’Aosta. Più che un calcolo puramente teorico era una realtà vissuta. […]. Proprio qui avevamo la possibilità di praticare le nostre idee: non concentrando tutto su Ivrea, quindi, ma attraverso l’Irur, l’Istituto per il rinnovamento urbano rurale del Canavese, decentrando la produzione nei piccoli paesi assumendone la piena responsabilità” (Ferrarotti, 2001, pp. 45-50).

La Olivetti, oltre a rappresentare un punto di aggregazione di diverse teorie e tecniche del settore produttivo, diviene un punto di riferimento fondamentale per chi si occupa di sociologia. Ferrarotti ricordando le sue giornate a casa di Adriano Olivetti condensa in poche battute lo spirito che animava quell’inedito esperimento sociale e le sue peculiarità: “Era uno studio ampio in cui ci si poteva isolare, concentrare, come accadeva a me, stando all’altra scrivania. Ma nello stesso tempo si poteva dialogare e discutere. Era uno studio in questo senso anomalo, perché più che dedicarsi allo studio propriamente teorico, libresco, qui si discuteva costantemente dell’unione fra teoria e pratica, che poi si potrebbe considerare il motto di Comunità. Comunità era industria, tecnica ad alto livello, quindi era anche teoria sociale, politica, ideologia e nello stesso tempo ogni formulazione teorica veniva poi provata nel fuoco e sul metro della pratica quotidiana. […]. Volevamo fare le riforme non predicandole astrattamente come facevano i partiti politici di massa, i sindacati all’epoca della guerra fredda, ma studiare la tecnica delle riforme. Non basta parlare di riforme, bisogna sapere, da buoni tecnici, come applicarle e badare anche agli effetti che avranno queste riforme. […] trovavo in Olivetti la possibilità di avere una sintesi della ricerca sociale, sociologica e dell’impeto trasformatore e riformatore che era in fondo ciò che volevo. Era in sostanza una nuova società e, nello stesso tempo, lo studio rigoroso, accurato, delle condizioni di fabbrica. Di una fabbrica che usciva da se stessa, e investiva in qualche modo armoniosamente la comunità circostante” (Ferrarotti, 2001, pp. 44-45).

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