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CAPITOLO I: DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FASCISMO

3. Le inchieste parlamentari post-unitarie

3.1. Analisi delle inchieste parlamenti post-unitarie

3.1.5. Il brigantaggio e la questione meridionale

Al compimento dell’Unità d’Italia il fenomeno del brigantaggio assunse un nuovo carattere politico- sociale e proporzioni particolarmente rilevanti73. Francesco II, cacciato dal regno delle Due Sicilie e alla

72 Dal 1888-89 la Francia adottò politiche protezioniste contro le importazioni italiane di seta, vino e altri prodotti che

colpirono irrimediabilmente e irreversibilmente la viticoltura meridionale, soprattutto siciliana e pugliese, che incontrò un’aspra concorrenza nei vini spagnoli mentre la seta settentrionale riusciva attraverso il mercato svizzero a trovare comunque sbocco nel mercato francese (Pescosolido, 2011).

73 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in materia di brigantaggio: Cfr. Tabella 21: Interventi parlamentari

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ricerca di un modo per farvi ritorno, con l’aiuto e la complicità di forze italiane ed europee, cominciò a tessere la rete di una vasta e ben organizzata congiura estesa, in breve tempo, in quasi tutto il Mezzogiorno (M. A. L., R. Ci., 1930). Molti credevano che ancora una volta sarebbe stato ristabilito l’ordine precedente: “Non pochi, infatti, ritenevano che quel profondo mutamento di leggi, di uomini, d’istituti, di ordinamenti, portato dalla rivoluzione del ’60, non potesse durare a lungo. I mutamenti e i rimutamenti dal 1799 in poi, le cacciate e i ritorni dei Borboni, le insurrezioni fortunate, consolidate dall’assenso regio ma poi represse nel sangue, le costituzioni date e poi ritirate, le tempeste che avevano scosso il corpo sociale e politico delle Due Sicilie, da cui però i Borboni erano usciti vittoriosi, davano la sicurezza e la speranza che anche questa volta si sarebbe tornati, prima o poi, al vecchio ordine di cose” (ibidem).

Le condizioni socioeconomiche già misere della popolazione meridionale venivano aggravate dal duro fiscalismo imposto dal nuovo Stato, che dal Piemonte riversava sul resto d’Italia una notevole quota dei debiti degli antichi stati Sardi. La già insufficiente economia meridionale entrava in crisi per il repentino cambiamento sociale e la vittoriosa concorrenza delle più progredite industrie settentrionali. Il nuovo regime doganale aveva portato all’aumento dei prezzi di numerosi beni primari, come il pane e il sale, aggravando le condizioni di miseria del popolo. Al malcontento delle plebi si aggiungeva quello dei piccoli borghesi causato dal licenziamento di numerosi funzionari. Su queste realtà soffiava il vento della propaganda che veniva da Roma e dai comitati borbonici promettendo ai ribelli compensi in denaro, prestigio e la ripartizione delle terre demaniali usurpate (ibidem). La questione delle terre demaniali aveva assunto connotati particolarmente gravi da quando, agli inizi del XIX secolo, esse erano diventate per buona parte proprietà privata. Contadini, artigiani, piccoli borghesi e nullatenenti avevano più volte tentato, nel corso degli anni, di rivendicare e quotizzare queste terre, molto spesso attraverso invasioni e violenze: “Così, nella restaurazione borbonica del 1815 e nella rivoluzione del 1821. Così, nel ’48, mentre le classi medie festeggiavano la costituzione, le masse agricole sorde alla causa della libertà, s’erano agitate per la spartizione delle terre. Così, nell'agosto 1860, mentre la visione delle camicie rosse e l’ideale della nazione italiana infiammava gli animi dei liberali, la folla a Matera aveva tumultuato per la divisione delle terre, incendiato l’archivio comunale dov’erano conservati i titoli di possesso, fatto uccisioni e incendi nel nome di Francesco II; di là il fuoco delle sedizioni s’era diffuso in numerose località della Basilicata e delle Puglie. Il contadiname, nella sua follia anarchica, aveva messo in un sol fascio impiegati, "galantuomini" e liberali, e minacciato in blocco contro tutti lo sterminio generale. E quando lo stato era intervenuto per ristabilire l’ordine in città, la resistenza era continuata nelle campagne,

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e contadini, pastori, braccianti, affamati di terra, avevano affiancato i briganti e con questi avevano preso vendetta dei "galantuomini" e delle loro proprietà” (ibidem).

Il nuovo Stato si trovò impreparato a contrastare il fronte unico formato da briganti, contadini e borbonici in un contesto aggravato dalla concessione ai municipi dei poteri di polizia che accresceva la facilità di diffusione delle armi alle fazioni municipali partigiane. La scintilla si accese in Basilicata il 7 aprile del ’61: da Lagopesole i moti si estesero ad una decina di paesi della regione. Solo otto giorni dopo giunsero a Potenza 250 soldati, ed altrettanti si avviavano nel Melfese da Eboli, mentre i briganti si ritiravano nelle loro sedi di Lagopesole (ibidem). Le bande dei briganti erano composte da forze del proletariato rurale, ex militari dell’esercito delle Due Sicilie, renitenti alla leva74, disertori ed evasi dalle carceri, ai quali si

aggiunsero, nel primo anno del conflitto, militari di professione assoldati dalla corte borbonica in esilio a Roma. Ai moti della Basilicata fecero immediatamente seguito la Calabria, la Campania, l’Abruzzo e la Puglia. Tutti ebbero come capo militare il catalano Don José Borjes, ufficiale dell’esercito spagnolo, proclamatosi generale, che, reduce dai sanguinosi moti carlisti in Spagna, e messosi al servizio del comitato borbonico di Marsiglia, era sbarcato da Malta a Brancaleone di Calabria nel settembre del ’61 (ibidem). Borjes, a capo di una trentina di ufficiali e soldati spagnoli, era sicuro di trovare sul territorio meridionale l’unanime consenso della popolazione e delle bande brigantesche ma, quando nel novembre del ’61 gli spagnoli incontrarono la banda del Crocco, vi fu un imprevisto colpo di scena: gli spagnoli di Borjes vennero disarmati e lasciati andar via. Pochi giorni dopo, mentre Borjes, con un gruppo di pochi uomini fidati, si apprestava a passare il confine dello Stato pontificio, fu colpito a morte dai bersaglieri italiani a Tagliacozzo. La morte di Borjes e l’indebolimento dei comitati borbonici, che non avevano trovato il sostegno sperato nel governo austriaco, segnò la fine del brigantaggio politico e l’inizio della sua forma più aspra, di carattere eminentemente sociale, fatto di violenze e ruberie (ibidem).

Le schiere delle bande dei briganti continuavano a rinfoltirsi su odi e rancori che contadini, pastori e plebe urbana nutrivano contro notabili e borghesi. Le bande, agguerrite, bloccavano le vie, impaurivano e ricattavano i possidenti, impedivano il traffico, aprivano le carceri, distruggevano gli archivi, saccheggiavano, ammazzavano e incendiavano le case dei benestanti liberali. Il nuovo Stato non colse subito la gravità e la complessità di quel fenomeno politico e sociale, ignorando le voci meridionali che in Parlamento chiedevano rimedi (ibidem). La realtà finì con l’imporsi al nuovo governo solo dopo le ingenti perdite di vite umane tra le fila dell’esercito nazionale. Venne istituita una commissione

74 Il 1° giugno del 1861 venne istituito il servizio militare obbligatorio tramite coscrizione, nuovo per l’Italia Meridionale

dove durante il governo borbonico funzionava un servizio di leva obbligatorio ma soggetto a sorteggio, evitabile attraverso forme di riscatto monetario (Wikipedia, 2018a).

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parlamentare di inchiesta, di cui fecero parte Bixio, Saffi, Sirtori, Massari, Castagnola, che propose l’istituzione di una legge eccezionale, approvata il 15 agosto del 1863 (ibidem). La legge Pica, dal nome del suo promotore, istituì il reato di brigantaggio, consigli e tribunali di guerra per assicurare immediatezza alla condanna e alla sua esecuzione, ed il domicilio coatto; emanò provvedimenti a carattere sociale, morale ed economico; ordinò la chiusura delle masserie controllate dai briganti ed il prelievo forzato delle provviste alimentari delle campagne; vigilò il traffico di contadini e braccianti dal paese alla campagna e dispose l’invio di un consistente numero di forze armate (circa 120.000 uomini, quasi la metà dell'intera forza armata italiana) (ibidem). La legge Pica si pose come strumento di dispotismo arbitrario nelle mani di fazioni municipali e familiari, determinando l’esecuzione di procedimenti sbrigativi e sommari. Furono infatti condannati proprietari innocenti, fabbricati falsi documenti per i capi di imputazione e tirati fuori centinaia di falsi testimoni. Nella sola Basilicata furono incarcerate, per complicità o sospetto o aderenze ai briganti, 2400 persone e condannate al confino forzoso ben 525 persone, tra cui 140 donne. I mezzi attuati dal governo, nonostante tutto, riuscirono a debellare il brigantaggio che nel ’64 era ormai agli sgoccioli, tanto che per reprimere gli ultimi moti del ’65 bastarono i mezzi ordinari di polizia (ibidem).

Se il brigantaggio, come fenomeno di massa, era ormai nel ’65 una questione chiusa, non cessavano però le rivolte tra i contadini meridionali, la cui avversione nei confronti dello Stato cresceva per effetto della coscrizione obbligatoria e dell’inasprimento fiscale. Inoltre, la liquidazione delle terre ecclesiastiche e dei beni demaniali, incamerati dal nuovo Stato, anziché favorire la formazione di uno strato di piccoli e medi agricoltori, finì per rafforzare la potenza economica e l’influenza politica e sociale della grande proprietà latifondista. Nel 1865 veniva inoltre ultimata l’unificazione doganale, monetaria, finanziaria e amministrativa con l’estensione all’intero paese della legislazione e degli ordinamenti del Regno sardo (Wikipedia, 2018a; Ciconte, 2018).

Il brigantaggio, e i problemi politici e sociali che esso aveva posto, mise subito il nuovo governo unitario di fronte ad un problema relativo e circoscritto al territorio meridionale75. Al momento dell’unificazione

l’intera classe politica condivideva la generale convinzione che le differenze dei livelli di vita tra l’area padana e l’area meridionale fossero imputabili unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. Ciò indusse i regnanti ad estendere, senza particolari accorgimenti e diversificazioni, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile, il sistema fiscale e il regime di liberalismo completo negli scambi, vigenti nel Piemonte sabaudo, alle regioni del Sud. Mentre la pressione fiscale

75 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari specifici sul meridione: Cfr. Tabella 22: Interventi parlamentari sul

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aveva ripercussioni soprattutto sulle condizioni di vita delle classi meno abbienti, il regime liberistico travolgeva le industrie manifatturiere sorte intorno alla città di Napoli (Treccani, 2018d).

La locuzione questione meridionale venne utilizzata per la prima volta dal deputato radicale lombardo Antonio Billia nel 1873, per indicare la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell’Italia unita76 (Romano, 1945). Nel 1876, con la pubblicazione dei risultati

dell’inchiesta parlamentare di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, per la prima volta la questione meridionale veniva fatta conoscere agli italiani e affrontata in termini nuovi77. Prendeva avvio una

riflessione organica sul forte dislivello tra il Nord ed il Sud del Paese e sui problemi che questo generava nell’Italia unita. L’inchiesta di Sonnino e Franchetti, i resoconti del viaggio di Giuseppe Zanardelli, le Lettere meridionali di Pasquale Villari (1878), e poi gli scritti di Giustino Fortunato aprirono il ricco filone del meridionalismo classico78 (Giannola, 2012).

76 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in merito alla questione meridionale: Cfr. Tabella 23: Interventi

parlamentari in merito alla ‘questione meridionale’. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 190.

77 L’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia venne indetta a seguito di un peggioramento della situazione

dell’ordine pubblico nelle regioni del Mezzogiorno e in Sicilia. Il governo decise di subordinare l’azione di provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza all’esecuzione di questa inchiesta che venne affidata a un gruppo di parlamentari, della Destra e della Sinistra storica, e di magistrati (Wikipedia, 2018b). L’inchiesta, svolta tra il 1875 e il 1876 con rigore di impostazione e acutezza di analisi tanto da rappresentare ancora oggi una pietra militare della letteratura meridionalista, formulò una diagnosi dei mali siciliani esprimendo un’aperta condanna della politica repressiva adottata dalla Destra nei confronti della Sicilia. Nel primo volume dell’inchiesta, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, l’attenzione venne posta alle radici storico-sociali della violenza diffusa e della mafia (Lucchese, 2006) (Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in merito alla malavita organizzata nelle varie regioni d’Italia dall’unità al 1915: Cfr. Tabella 24: Interventi parlamentari in merito alla mala vita organizzata in. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 191). L’aspetto specifico della criminalità organizzata dell’isola veniva individuata nell’universale complicità di cui essa godeva ai più svariati livelli, in un radicato sistema di clientele e rapporti sociali particolaristici; fattori che minavano il consenso e la fiducia della popolazione nei confronti delle istituzioni e del bene comune. Risultava per la prima volta evidente che questo tipo di malavita era ineliminabile senza una sostanziale modifica dei rapporti socioeconomici (Lucchese, 2006). Si rilevò, inoltre, che l’abolizione formale del regime feudale (1812) non aveva modificato la realtà di dominio e sopraffazione che caratterizzava i rapporti nelle campagne, una condizione che si era aggravata con l’Unità d’Italia a causa dell’accrescimento dell’influenza e del potere dei latifondisti a discapito delle classi meno abbienti. Sonnino e Franchetti affermavano che la soluzione da parte dello Stato non andava cercata nell’applicazione di metodi repressivi ma nell’introduzione di un sistema giuridico-politico fortemente accentramento, capace di sottrarre alle consorterie locali il controllo della polizia e della magistratura, facendo prevalere l’autorità della legge e della giustizia sull’autorità privata (ibidem). Un altro importante aspetto trattato nell’inchiesta fu l’analisi della condizione di sfruttamento dei carusi impiegati come garzoni nelle miniere di zolfo, condizione descritta nell’ultimo capitolo dell’inchiesta intitolato Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane. I due ricercatori visitarono insieme le nove province siciliane nel 1875 ma scrissero poi separatamente i due volumi dell'inchiesta. Il primo si concentrava sulla politica e sull’amministrazione, il secondo sulla miserabile vita dei contadini. I risultati dell’inchiesta vennero presentati nel 1877 con il titolo La Sicilia nel 1876. Nonostante il valido lavoro e le acute conclusioni a cui giungeva l’indagine essa venne accolta dall’opinione pubblica con reazioni negative e le sue indicazioni non vennero recepite dal governo nei successivi interventi legislativi (ibidem). L’intera inchiesta può essere consultata online: Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, La Sicilia nel 1876.

78 Questa letteratura critica di analisi sociale raccolse diversi studiosi delle più diverse ispirazioni ideologiche: dai liberali

Antonio De Viti De Marco, Giustino Fortunato, Piero Gobetti, Luigi Einaudi, Benedetto Croce, al cattolico Luigi Sturzo, ai radicali e socialisti come Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, o marxisti come Emilio Sereni e Antonio Gramsci (Giannola, 2012).

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Intanto, anche il Mezzogiorno era investito da grandi trasformazioni: le varie province spezzavano l’antica soggezione verso Napoli, in Campania, e verso Palermo, in Sicilia; in alcune zone, come le pianure campane e pugliesi, la conca di Palermo e la piana di Catania, prendeva avvio un importante progresso agrario: aumentava la commercializzazione dei prodotti; cominciava a svilupparsi una serie di centri urbani e migliorava il livello generale dell’istruzione e della vita pubblica (Treccani, 2018d). Alla fine degli anni ’80 la vera e propria guerra economica con la Francia, di cui il Meridione era il maggior cliente agrario, inflisse un duro colpo all’agricoltura meridionale, determinando un imponente movimento migratorio. In questo contesto maturò, alla fine del XIX secolo, la riflessione di Francesco Saverio Nitti, secondo cui il sottosviluppo meridionale era stato determinato dal drenaggio dei capitali del Sud verso il Nord attraverso il fisco, il credito e la politica doganale, a indirizzo prima liberistico e poi protezionistico, nei settori più consistenti come la siderurgia, la coltivazione e la lavorazione dello zucchero e del grano (ibidem). La soluzione che Nitti auspicava era di una forte politica interventista statale, in grado di avviare il Mezzogiorno verso una vera e propria industrializzazione, grazie all’utilizzo dell’energia idroelettrica, di cui l’Italia poteva essere una buona produttrice. Gli economisti favorevoli al libero scambio sviluppavano intanto un’altra tesi classica del meridionalismo, l’anti protezionismo, tema cui il socialismo italiano aveva dedicato poca attenzione. In questo contesto risultò estremamente innovativa la posizione assunta da Gaetano Salvemini nell’analisi della questione meridionale e delle azioni per contrastarla. Salvemini individuò nella grande borghesia agraria, avvantaggiata dal dazio sul grano, e nella piccola borghesia urbana, il male da combattere attraverso un’alleanza di classe tra contadini del Sud e operai del Nord (ibidem).

Bisognerà comunque attendere l’età giolittiana per un primo intervento speciale a favore del Mezzogiorno, più precisamente il 1904, quando furono varate le ‘leggi speciali’: “quella per la Basilicata e quella per Napoli, volte a incoraggiare la modernizzazione dell’agricoltura e, nel caso di Napoli, lo sviluppo industriale mediante una serie di stanziamenti statali e di agevolazioni fiscali e creditizie. Queste leggi - cui seguirono altre analoghe per la Calabria e per le isole - avevano il limite di non incidere se non limitatamente sulla struttura sociale del Mezzogiorno, di curare dunque più i sintomi che le cause del male; ma avevano almeno il vantaggio di essere attuabili in tempi brevi (la legge per Napoli, ad esempio, rese possibile la costruzione del centro siderurgico di Bagnoli) e costituirono un precedente cui si sarebbe ispirata, anche in tempi recenti, la pratica degli "interventi speciali" dello Stato nelle aree depresse” (Sabbatucci e Vidotto, 2008, pp. 57-58).

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