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CAPITOLO I: DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FASCISMO

4. L’Italia fascista

4.4. Propaganda, radio, stampa, cinema e arti figurative

A partire dagli anni Trenta la propaganda del regime si fece sempre più incalzante e capillare. La crisi, che metteva a dura prova la vita quotidiana e il consenso delle masse popolari, poneva la necessità di un maggiore controllo delle istituzioni culturali, dell’educazione dei giovani e dei mezzi di informazione. Nel 1927 fu fondato l’EIAR, ente radiofonico gestito direttamente dal partito. Le scuole, i municipi, le case del fascio vennero dotate gratuitamente di apparecchi radio: il messaggio del Duce doveva raggiungere ogni angolo del paese. Per un maggiore controllo degli organi di stampa vennero introdotte le «veline», indicazioni inviate dall’agenzia di stampa nazionale, la Stefani, ai direttori dei quotidiani circa le notizie da pubblicare e il modo in cui trattarle. Nel 1935 venne istituito il Ministero per la Stampa

e la Propaganda (dal 1937 Ministero per la Cultura Popolare- Minculpop) allo scopo di rafforzare

l’opera di “indottrinamento ideologico delle masse” (Veneruso, 1981).

Anche la cinematografia si propose al fascismo come uno straordinario medium propagandistico130. Ma

i primi tentativi di andare al di là della mera produzione cine-giornalistica ed educativa, effettuati commissionando al proprio organo tecnico – l’ente statale dell'Istituto Nazionale Luce, nato nel novembre del 1925 - pellicole come Il grido dell’aquila (Mario Volpe, 1923) e la fiction di propaganda

Camicia Nera (Giovacchino Forzano, 1933) ebbero risultati rovinosi sul piano economico-finanziario e

mediocri in termini estetico-comunicazionali (Argentieri, 1979). Il regime dovette cedere di fronte all’idea che il cinema fosse soprattutto uno strumento economico sottomesso alle leggi del mercato. Gli imprenditori del settore insistettero per sottrarre il più possibile il cinema ai condizionamenti politici, e far sì che questo rispondesse solo al gusto del pubblico e non alle imposizioni politiche. Quello che poté fare il regime fu imporre una stretta censura sulle pellicole. Film italiani come Il cappello a tre punte (Mario Camerini, 1935) e Il Ladro (Anton Germano Rossi, 1939) furono purgati dalla censura, ma l’intervento fu molto più deciso nei confronti della produzione straniera, della quale non vennero ammessi i films che avrebbero screditato il popolo italiano131 (ibidem). Nel 1931 il ministro delle

Corporazioni Bottai, come ricorda Brunetta (1991), affermò che “il pubblico invariabilmente si annoia quando il cinema lo vuole educare. Il pubblico vuole essere divertito ed è precisamente su questo terreno che noi oggi vogliamo aiutare l'industria italiana” (Gozzini, 2003). La produzione si concentrò sul genere dei cosiddetti «telefoni bianchi», films d’evasione dalla realtà quotidiana, caratterizzati da quell’ottimismo di maniera tipico della vita degli ambienti alto-borghesi, privo di implicazioni politiche

130 Per un approfondimento si veda Cannistraro, 1972, pp.413-463.

131 Per citarne alcuni: Little Caesar (Mervyn LeRoy, 1931), A farewell to arms (Frank Borzage, 1932), Idiot’s delight

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e storiche, di cui l’esempio più rappresentativo fu Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld (Savio, 1975). Il messaggio fascista venne relegato ai documentari di propaganda nazionale e patriottica, i films-

LUCE, che, dall’aprile 1926, venivano obbligatoriamente proiettati prima di ogni spettacolo

cinematografico (Sabbatucci e Vidotto, 2008). I “telefoni bianchi” avevano funzionato, come afferma Bertetto (1979), “come strumento di integrazione sociale e accettazione dell'esistente” (Gozzini, 2003). A metà degli anni Settanta, uno studio sistematico ha permesso una rivalutazione complessiva di questo genere, rivisto in chiave di anticipazione del fenomeno neorealista, soprattutto nel senso di un’attenzione non ideologica e non letteraria per interni borghesi, squarci di vita sociale e personaggi lontani dalla retorica imperiale e bellicista del regime (Redi,1979; Mida-Quaglietti 1980). Già durante la Seconda guerra mondiale la cultura cinematografica italiana si aprì infatti alle esperienze e ai drammi di vita popolare e piccolo-borghese132 (Mida-Quaglietti 1980).

Un altro settore che subì l’invasione dell’ideologia fascista fu quello delle arti figurative. Il fascismo non cercò una vera e propria arte di regime, ma piuttosto si preoccupò di acquisire il consenso degli artisti attraverso un gioco di committenze e acquisti, garantendo il pluralismo delle espressioni e non privilegiandone nessuna (Castellotti, 2004). Venne attuata una politica di rafforzamento delle grandi istituzioni espositive - Biennale di Venezia e Triennale di Milano - cui si affiancarono alcune novità come la Quadriennale di Roma e le mostre sindacali a carattere regionale, a partire dalla mostra Sindacale Regionale Lombarda del 1928. A livello artistico negli anni del regime si andò delineando il movimento di Novecento, che sviluppò in direzione realistica e monumentale ogni riferimento alla tradizione italiana (ibidem). Il gruppo Novecento era stato costituito nel 1922 dalla giornalista e critica d’arte Margherita Sarfatti, quando si riunirono alla Galleria Pesaro di Milano sette pittori, tra i quali Anselmo Bucci, Achille Funi e Mario Sironi, tesi al recupero dei valori classici e puristi da un punto di vista stilistico e ideologico. I principi programmatici erano del tutto in linea con l’ideologia fascista: il rapporto di continuità con la tradizione, il rifiuto dello sperimentalismo e degli eccessi delle Avanguardie, cui veniva contrapposto un realismo idealizzato e monumentale. Grazie alla promozione della Sarfatti, Novecento raccolse negli anni Venti e Trenta grandi successi, sperando in un riconoscimento ufficiale da parte del fascismo come arte di stato che tuttavia non arrivò (ibidem). Negli stessi anni si verificò un rinnovato interesse dell’arte per la realtà sociale, tramite una promozione della pittura murale, utilizzata anche a fini propagandistici dallo

132 Nel 1943 uscì Ossessione di Luchino Visconti, opera che riuscì a rompere i vincoli ideologici e propagandistici con una

narrazione piuttosto spietata dell’angoscia quotidiana della vita di provincia. E alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1941 venne presentato La corona di ferro, film dal chiaro messaggio pacifista (Argentieri, 1979; Sabbatucci e Vidotto, 2008).

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stesso regime per le sue qualità comunicative. Anche in questo contesto figura di spicco fu Mario Sironi, che nel 1933 per la Triennale di Milano progettò grandi cicli di mosaici e pitture murali su temi allegorici, come Le opere e i giorni, ciclo che esaltava il lavoro, sia rurale che industriale, adoperando figure monumentali dall’impronta solenne (ibidem). Nello stesso anno Sironi elaborava il Manifesto della

pittura murale, pubblicato nel dicembre del 1933 su La colonna, in cui emergeva una visione di questo

genere artistico come lo strumento efficace per esprimere quell’arte fascista che voleva educare il popolo, formandone l’etica (ibidem). Il progetto di intervento del governo nel panorama artistico venne guidato da Giuseppe Bottai nell’elaborazione di un programma di promozione di diversi eventi artistici e nella creazione dei Sindacati di Belle Arti, in cui far confluire gli artisti. Le azioni culminanti della politica artistica del regime furono l’istituzione di un Ufficio per l’arte contemporanea (1940) e la promulgazione della Legge del 2 per cento (1942), con la quale lo stato assicurava l’impegno a investire almeno il 2% delle somme destinate agli edifici pubblici in opere d’arte utili all’abbellimento delle stesse (ibidem). La politica autarchica interessò anche le arti. Il suo risultato venne illustrato da Ardengo Soffici nell’articolo Arte Fascista, pubblicato in Periplo dell’Arte nel 1928, e riproposto da Paola Barocchi nel volume Dal Novecento ai dibattiti sulla figura monumentale, 1925–1945. L’articolo di Soffici prendeva le mosse da un discorso che Mussolini tenne a Perugia, durante il quale affermò che la cultura fascista “non deve essere né tutta volta al passato né tutta volta all’avvenire, ma attuale e cioè animata dal doppio spirito del passato e dell’avvenire” (Barocchi, 1990, p. 27). In linea con il principio autarchico, Soffici affermava che l’arte fascista doveva “essere un’arte di spiriti nazionali, con caratteristiche particolari italiane che la distinguano dall’arte di ogni altro paese” (ibidem).

La Mostra della Rivoluzione fascista133, del 1932, dimostrò l’abilità del fascismo nel pilotare l’arte al

fine di dare di sé un’immagine fondata sulla tradizione e sul progresso, ma solo in architettura il fascismo puntò su una vera e propria arte di regime (Castellotti, 2004). Nel 1928 venne organizzata a Roma da Adalberto Libera la prima Esposizione dell’architettura razionale, in seguito alla quale si costituì il MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale). Nel 1931 poco dopo la seconda esposizione, venne redatto il Manifesto per l’architettura razionale, i cui firmatari cercarono di procurarsi il favore di Mussolini dichiarando l’architettura razionalista arte di Stato. Tuttavia, alle posizioni più innovatrici -

133 La mostra rientra in quell’attitudine alla spettacolarizzazione della vita politica che durante il regime costituì la base e il

presupposto della strategia politica del fascismo. Oltre alla politica dell’immagine che si concretizzava in simboli quali il fascio littorio, la camicia nera e il saluto romano, il regime inaugurò una serie di cicli espositivi come occasioni per presentare le conquiste del governo. Si ricorda la Mostra Nazionale delle Bonifiche (Roma, 2 ottobre 1932) in occasione della Esposizione agricola nazionale che comprendeva anche la Mostra del Grano e l’Esposizione di Frutticultura; la Mostra Nazionale dello Sport (Milano, 1935) e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano (Roma, 1939) (Russo, 1999).

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sostenute da Giuseppe Pagano negli editoriali di Casabella - si contrapposero i sostenitori della tradizione accademica, che proponevano un’arte ispirata a un “classicismo semplificato”, adatto a veicolare le virtù della romanità cui il fascismo intendeva rifarsi. Emblematico di questa tendenza è il quartiere dell’EUR, costruito in occasione dell’Esposizione Universale di Roma del 1942, di cui si occupò Marcello Piacentini (ibidem).