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CAPITOLO I: DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FASCISMO

3. Le inchieste parlamentari post-unitarie

3.1. Analisi delle inchieste parlamenti post-unitarie

3.1.3. Economia, industria e commercio

Al momento dell'unità nazionale l'Italia presentava strutture economiche e sociali fortemente arretrate rispetto ai più progrediti paesi dell’Europa occidentale (Belgio, Olanda, Francia e Germania), soprattutto rispetto all’Inghilterra, investita dalla rivoluzione industriale e dalla trasformazione dell’agricoltura in senso capitalistico fin dall’ultimo ventennio del ’700 (Rai Storia, 2018b; Lupo, 2010). La diversa condizione di sviluppo capitalistico industriale dell’Inghilterra era frutto di una combinazione di fattori eterogenei, storici, economici, politici e sociali: una tradizione consolidata di scambi commerciali con l’estero, uno stato unitario, un’estesa linea ferroviaria, conquiste coloniali e protezionismo doganale. La politica commerciale dei Paesi europei era caratterizzata dalla continua ricerca e acquisizione di nuove e vaste aree di mercato, politiche che i paesi mediterranei non riuscivano ad attuare, schiacciate dal peso di una concorrenza che si dimostrava iniqua già solo nelle condizioni di partenza (Castronovo, 2003). L’Italia oltre a risentire della mancanza di materie prime, dell’insufficienza di capitali, di un inadeguato sviluppo tecnico, era caratterizzata da una mentalità ancora legata alla rendita agraria che si mostrava nella scarsa sensibilità, o a volte nella diffidenza, dell’ambiente politico tradizionale e dei possessori di rendita nei confronti dello sviluppo industriale visto essenzialmente come fonte di perturbazioni sociali (Rai Storia, 2018b).

L’agricoltura rappresentava l’attività fondamentale della maggioranza della popolazione in un contesto segnato da “profonde differenze e varietà di condizioni naturali e di sviluppo non solo tra regione e regione ma anche tra zone diverse della stessa regione”39 (ibidem). Nel corso dell’Ottocento, però, anche

38 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari relativi all’economia, l’industria e il commercio nell’Italia tra il 1861

e il 1915: Cfr. Tabella 3: Interventi parlamenti in ambito economico, industriale e commerciale in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 45.

39 La produzione per il mercato rappresentava una parte secondaria dell’economia italiana, ancora largamente precapitalista,

in cui l’attività produttiva era ancora rivolta al soddisfacimento diretto dei bisogni dei produttori e dei loro nuclei familiari. Difficilmente ci si rivolgeva al mercato per l’acquisto di merci, tutto ciò che si consumava veniva per lo più prodotto in ambito familiare: prodotti alimentari, attrezzi da lavoro, prodotti tessili. Le famiglie contadine o artigiane rappresentavano le unità produttive di base che riuscivano a soddisfare i limitati consumi delle popolazioni (Rai Storia, 2018b).

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l’Italia fu investita da profondi mutamenti economici e sociali, che modificarono il tradizionale equilibrio dell’economia contadina e artigiana. Il lento processo di formazione dell’industria moderna ebbe inizio nelle regioni settentrionali grazie ad una favorevole congiuntura di fattori economici e sociali. “L’aumento generale dei prezzi, l’espansione demografica, l’avvento di un nuovo ceto di conduttori agricoli - rappresentato soprattutto dagli affittuari capitalisti della bassa padana, impegnato nell’introduzione di nuove attrezzature agricole e di metodi più razionali di coltivazione del suolo, crearono le condizioni per un’accumulazione più intensa del capitale, per lo sviluppo del commercio con l’estero - soprattutto per i vini, le sete, i risi, le pelli da concia – e, in alcuni casi, per il riequilibrio della bilancia commerciale” (ibidem). Soprattutto il Piemonte e la Lombardia, ma anche la Toscana, riuscirono a inserirsi in quel movimento di espansione che caratterizzava l’economia europea40. Dall’estero

venivano importati non soltanto impianti, ma anche tecnici e capitali da rischio per l’attività manifatturiera, per le ferrovie e per i servizi (ibidem). L'economia delle regioni settentrionali presentava maggiori potenzialità di sviluppo41 rispetto all’economia meridionale, caratterizzata da accentuati

sintomi di debolezza e ristagno42 (Castronovo, 2003).

Nella trasformazione del volto dell’Italia da Paese agricolo a Paese industriale un ruolo fondamentale ebbe l’industria leggera. Il “settore trainante dello sviluppo industriale italiano fu quello tessile. La lavorazione della seta occupava un posto di primo piano nella nascente industria43, seguita per importanza

40 Le regioni nord-occidentali che riuscirono ad inserirsi nei circuiti di scambio europei attraverso un aumento delle

esportazioni agricole non furono investite da un processo di potenziamento dell’industria, ma videro notevoli progressi nei metodi di coltivazione di alcune colture e nell’allevamento del bestiame che, insieme alla liberalizzazione delle tariffe doganali, favorirono la crescita di nuovi ceti e una più vasta circolazione della manodopera (Castronovo, 2003).

41 L'industria del nord era caratterizzata da un maggiore indice dei consumi interni; una struttura urbana più densa e fornita di

servizi, quali: istituiti di credito, casse di risparmio, organismi amministrativi, scuole professionali, raccordi stradali e ferroviari (Castronovo, 2003).

42 Le campagne meridionali non erano state investite dalle grandi opere di bonifica, dissodamento e sistemazione idraulica;

l’agricoltura era caratterizzata da estesi latifondi nobiliari gestiti attraverso rapporti di tipo feudale da aristocratici e nuclei della borghesia agraria che accrescevano il proprio patrimonio, oltre che attraverso il reddito fondiario, grazie all’investimento in proprietà urbane, titoli di credito, attività professionali e usuraie. Accanto ai grandi proprietari i mercanti e i banchieri si dedicavano ad una serie di attività speculative per aumentare il loro capitale. Nei sobborghi di Napoli e Salerno due fabbricanti svizzeri diedero vita ad una serie di industrie tessili il cui successo era garantito dal monopolio di cui godevano in questo settore sul mercato interno e da altri privilegi. Tale situazione determinò una stagnazione degli investimenti nella lavorazione del cotone ed uno sviluppo contraddittorio dei rapporti fra l'industria tessile e l'economia circostante. La stessa sfavorevole congiuntura si determinò in altri settori come quello delle industrie cartiere, meccaniche e della lavorazione dei prodotti conciari; non si sviluppò una nuova domanda né tanto meno crebbero industrie sussidiarie. I principali settori industriali dell’economia meridionale si mantennero in vita solo grazie ai pesanti dazi doganali introdotti sull’importazione dei prodotti esteri (Castronovo, 2003).

43 La Lombardia mostrava un netto primato nella produzione serica, in questa regione nella seconda metà dell’’800 si

producevano i quattro decimi di tutta la seta italiana, grazie anche all’incremento della coltivazione del gelso e della bachicoltura. L’industria manifatturiera era ancora fortemente legata la mondo rurale sia dal punto di vista della manodopera, che proveniva in larga parte dalle campagne circostanti – donne, ragazze e bambine impiegate in maniera saltuaria e stagionale -, che delle risorse indispensabili al suo funzionamento: i corsi d’acqua locali offrivano l’energia motrice per le macchine mentre le piazze dei paesi costituivano i primi mercati. La lavorazione della seta si svolgeva in filande sparse nei cascinali

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dal cotonificio44 e dalla produzione laniera” (Rai Storia, 2018b). Fortemente legati al mondo agricolo,

per lo sfruttamento delle risorse energetiche e l’impiego di manodopera contadina, tali settori produttivi videro una sostanziale modifica dei loro metodi di funzionamento solo verso la seconda metà dell’Ottocento, quando la diffusione dell’applicazione del vapore permise l’adozione di impianti più moderni e la costruzione di nuove fabbriche, sganciate dai precedenti vincoli paesaggistici. Nella filatura del cotone, e parzialmente nell’industria della seta, si determinava il passaggio dalle forme manifatturiere tradizionali alla fabbrica moderna: aumentava la specializzazione, gli operai venivano stabilmente inquadrati e si allargavano le basi del commercio interno. Nel cotonificio e nel setificio si formarono i primi nuclei di operai salariati continuativamente legati all’industria45. Le condizioni di vita e di lavoro

delle classi più povere, con l’introduzione dei rapporti di tipo capitalistico nei settori economici produttivi del paese, si aggravarono profondamente (ibidem). I settori meccanici e metallurgici presentavano evidenti ritardi rispetto agli altri paesi europei, soprattutto Inghilterra e Belgio, sia nella modernizzazione degli impianti che nella qualificazione della manodopera impiegata. Solo nei primi anni dell’Ottocento, grazie ad un massiccio intervento statale, attuato attraverso la concessione di sovvenzioni pubbliche all’industria pesante, nacquero alcuni stabilimenti (Castronovo, 2003).

La politica economica post-unitaria seguì subito una linea liberista con l’applicazione delle tariffe doganali piemontesi del 1851 seguite, nel 1863, dalla stipula di un trattato di commercio di libero scambio dapprima con la Francia, poi con l'Inghilterra, il Belgio, la Danimarca e l'Olanda. La politica liberista determinò un aumento dell'esportazione di seta greggia, canapa, vini, olio, prodotti zootecnici ecc. Si assistette a uno sviluppo delle attività terziarie dei pubblici servizi il cui impulso fondamentale venne dagli investimenti dei paesi europei - soprattutto Inghilterra, Francia e Belgio - in alcuni settori strategici come le ferrovie, gli istituti di credito, l’attività commerciale e l’energia (gas ed illuminazione). La crescita del valore della produzione non si tradusse in una generale modernizzazione del paese: su di essa

attraverso tecniche ed attrezzature inadeguate alla realizzazione di un concorrenziale prodotto finito che potesse essere venduto sui mercati europei, costringendo i produttivi all’esclusiva esportazione del materiale grezzo (Rai Storia, 2018b).

44 L’altro ramo dell’industria tessile che subì una grandissima espansione fin dalla prima metà dell’Ottocento fu la filatura e

la tessitura del cotone. In Lombardia gli stabilimenti tessili erano già parzialmente meccanizzati e di proporzioni considerevoli (Rai Storia, 2018b).

45 L’avanzata dell’industria mutava profondamente la fisionomia e il paesaggio di intere zone che perdevano i loro millenari

tratti agricoli. Il nuovo proletariato industriale italiano era costituito dai contadini semi proletarizzati delle colline, soprattutto donne e bambini nell’industria tessile, che entravano nelle fabbriche in modo prima stagionale e poi permanente. Il lavoro operaio era caratterizzato da lunghissime giornate lavorative, 16-17 ore nei periodi di maggiore attività delle fabbriche, precedute e seguite da lunghe marce per recarsi sui luoghi di lavoro molto distanti dalle abitazioni. I locali delle fabbriche predisposti al lavoro erano particolarmente piccoli ed insalubri, non vi era nessun tipo di prevenzione delle malattie e degli infortuni ed i salari erano bassissimi. Le famiglie operaie e contadine vivevano una condizione al limite della sussistenza, qualsiasi evento imprevisto come un cattivo raccolto, il licenziamento, la malattia o la morte di un membro attivo della famiglia, era sufficiente a fare precipitare molte persone nella miseria e nell’indigenza (Rai Storia, 2018b).

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pesavano una serie di freni, in particolare la forte pressione fiscale e il sottoutilizzo delle linee ferroviarie per il commercio interno, al quale, tranne che per alcuni prodotti, veniva preferito il commercio via mare. Il settore manifatturiero e quello mercantile vennero favoriti dalle linee di indirizzo liberista; aumentarono le produzioni del lino, della canapa, della carta e della concia ma, così come l’industria alimentare - tranne che per la raffinazione dello zucchero e il settore conservativo – e l’industria siderurgica e metalmeccanica, questi settori non furono investiti da un ammodernamento dei mezzi e delle tecniche di produzione (Castronovo, 2003). La politica liberista si rivelò del tutto insufficiente ai fini di modernizzazione e di crescita del paese. La situazione mutò verso la fine degli anni Settanta quando una forte crisi, determinata dall’immissione sul mercato internazionale di cereali - americani, russi e di alcuni paesi asiatici - a basso prezzo, colpì i paesi europei, provocando un rallentamento del tasso di crescita economica, che si protrasse fino agli ultimi anni dell’’800. Il crollo dei prezzi agricoli determinato dalla crisi restrinse la massa dei consumi, riversando i suoi effetti anche sugli altri settori produttivi, in particolare l’industria e il settore terziario. I Paesi europei – Inghilterra, Francia e Germania - cominciarono ad adottare politiche protezioniste46 (Castronovo, 2003).

In Italia il protezionismo venne avviato nel 1878 con l’introduzione delle tariffe doganali, ed inasprito nel 1887. Negli anni del protezionismo si assistette a una forte spinta agli investimenti nell’industria pesante (ibidem). “Furono realizzati ammodernamenti tecnici estesi, con la drastica riduzione degli altiforni a legna e l’introduzione di nuovi e potenti forni Martin e Bessemer a Savona, Sestri Ponente, Villa Cogozzo (Brescia), Pont-Saint-Martin (Valle d’Aosta), Milano e soprattutto Terni. Qui, nel 1884, sorse il più grande stabilimento siderurgico nazionale. […]. Cominciò a formarsi allora, favorito dalla legge Boselli sulla marina del 1885, quell’asse tra siderurgia e cantieristica che costituì uno degli anelli più forti e duraturi del capitalismo industriale italiano fino alla crisi del 1929” 47 (Pescosolido, 2011). Si

46 La politica protezionistica venne adottata per proteggere la produzione agricola o industriale nazionale dalla concorrenza

estera. Venivano applicati pesanti dazi doganali sui prodotti stranieri al fine di impedirne l'importazione. Sia gli industriali che i proprietari terrieri, colpiti dal crollo dei prezzi e dalla diminuzione della produzione cerealicola e zootecnica, si dimostrarono favorevoli all’adozione di tale politica. In Italia a favore del protezionismo si schierarono soprattutto gli industriali, tra questi un ruolo di spicco assunse Alessandro Rossi, produttore laniere e senatore, che si impegnò a favore dello sviluppo industriale del paese da egli ritenuto indispensabile per un ulteriore sviluppo in senso commerciale e agricolo (Castronovo, 2003).

47 Nel 1881 venne fondata La Navigazione Generale Italiana dalla fusione tra le maggiori compagnie di navigazione

dell’epoca, la Rubattino di Genova e la Florio di Palermo. “La legge Brin del 1884 per il potenziamento della marina a vapore si tradusse in un energico sostegno alla cantieristica e ad altre produzioni meccaniche. La legge Boselli del 1885 tentò di rilanciare, mediante sgravi fiscali e premi di fabbricazione, un’industria cantieristica pesantemente in crisi. Alle compagnie ferroviarie, con le quali nel 1885 furono stipulate le nuove convenzioni per la costruzione di nuove linee e la gestione ventennale della rete, furono concesse anticipazioni e altre garanzie per il reperimento dei fondi necessari ai nuovi impegni costruttivi e gestionali. Anche alla Terni furono accordate anticipazioni sui contratti stipulati con la marina per la fornitura di corazze e apparecchiature navali. Infine va sottolineato che fu sempre in questi anni, e non con la nascita delle banche miste nel 1894-95, che si ebbe il primo forte intreccio tra sistema creditizio e industria pesante, imperniato sulla Banca generale e

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delineavano e consolidavano in questi anni produzioni, nomi, intrecci e alleanze, che segneranno gran parte della storia industriale e capitalistica del nostro paese: “dalla Edison per l’industria elettrica, alla Breda, dalla Terni alla Franco Tosi alla Società delle Ferriere” (ibidem). Ma, come affermano Sabbatucci e Vidotto (2008), “sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come quello chimico (soprattutto l'industria della gomma, che aveva il suo centro principale negli stabilimenti Pirelli di Milano) o addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico: quest'ultimo si giovò dell'accresciuta richiesta di materiale ferroviario, di navi e di armamenti da parte dello Stato, nonché della domanda di macchinari indotta dallo sviluppo industriale nel suo complesso. Il principale fatto nuovo nel campo della meccanica fu però costituito dall'affermazione dell'industria automobilistica, dove, nonostante la ristrettezza del mercato interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati), riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune, di dimensioni semiartigianali, scomparvero nel giro di pochi anni; altre - come la Fiat di Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli - riuscirono a consolidarsi per poi acquistare, a partire dalla grande guerra, una posizione di preminenza nel mondo industriale italiano” (Sabbatucci e Vidotto, 2008, p. 145). Il protezionismo non giovò invece all’agricoltura, che subiva un generale arretramento a causa di un indebolimento del potere dei proprietari fondiari e alla caduta generale dei guadagni dei ceti rurali (Castronovo, 2003).

In termini complessivi, si posero, in questi ultimi dieci anni del secolo, le basi per il decollo industriale vissuto dall’Italia all’inizio del ’900: “Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua fu del 6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo. Fra il 1896 e il 1914, il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato, mentre la quota dell'industria, nella formazione del prodotto nazionale, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria, attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43% dell'agricoltura. […]. Nel primo quindicennio del secolo, il reddito procapite aumentò […] di quasi il 30% (mentre era rimasto pressoché invariato nei precedenti quarant’anni)” (Sabbatucci e Vidotto, 2008, p. 145). Il decollo industriale incise profondamente sulla qualità della vita della popolazione italiana, l’aumento del reddito procapite “consentì a vasti strati di cittadini di destinare una quota crescente dei bilanci familiari - fin allora assorbiti in misura schiacciante dalle spese per l’alimentazione - alla casa, ai trasporti, all’istruzione, alle attività ricreative e soprattutto all’acquisto di beni di consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette,

sul Credito mobiliare (due istituti sorti con specifiche finalità di investimento a medio e lungo termine nell’industria), ma anche indirettamente sulla stessa Banca nazionale, intreccio che costituirà una delle caratteristiche di lungo periodo del capitalismo industriale italiano” (Pescosolido, 2011).

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macchine da cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora la prima timida comparsa sul mercato nazionale. […]. I segni di questo mutamento erano visibili soprattutto nelle città […] grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici - illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente - gestiti non di rado dagli stessi comuni tramite apposite aziende "municipalizzate". Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie, nonostante il varo delle prime iniziative organiche di edilizia popolare da parte dei governi e delle amministrazioni locali. Le case operaie erano per lo più malsane e sovraffollate. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un’eccezione nelle grandi città (e un’autentica rarità nei centri rurali). Il riscaldamento centralizzato era un lusso. Ma la diffusione dell’acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo in modo decisivo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni gastroenteriche) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la mortalità infantile - indicatore fra i più importanti dell’arretratezza economica e civile - fece registrare un notevole calo (dal 17,4% nel 1900 al 13% nel 1914), portandosi su percentuali più vicine che in passato a quelle dei paesi più avanzati (10,5 in Gran Bretagna, 11,1 in Francia)” (ibidem). Ma, come spiegano Sabbatucci e Vidotto, nonostante i progressi il divario tra l’Italia e gli Stati europei più avanzati restava notevole: “Alla vigilia della guerra mondiale il reddito procapite era circa la metà di quello inglese e due terzi di quello tedesco. L'analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si avviava a scomparire in tutta l’Europa del Nord. Il consumo annuo di carne di ogni italiano era di tre volte inferiore a quello di un inglese. La quota della popolazione attiva impiegata nelle campagne era ancora del 55% ([…] del 40% in Francia, del 35% in Germania e addirittura dell’8% in Inghilterra): una quota troppo alta per le capacità produttive dell’agricoltura italiana, […] [come] dimostrato dal fatto che l’emigrazione verso l’estero, anziché diminuire in coincidenza con lo sviluppo economico, crebbe fino a raggiungere la cifra impressionante di 870.000 partenze nel solo 1913, per un totale di circa 8 milioni (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente) fra il 1900 e il 1914” (ivi, pp. 145-146).