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CAPITOLO II: DAL DOPOGUERRA AL BOOM ECONOMICO

1. L’Italia del dopoguerra

1.4. Gli anni del centrosinistra: le grandi riforme

Gli anni ’50 furono segnati da una serie di avvenimenti internazionali che incisero sui futuri sviluppi del contesto politico italiano. Il 9 marzo del 1953 moriva Joseph Stalin, al suo funerale parteciparono più di 1milione di persone. A succedergli alla carica di premier – dopo un breve periodo di leadership di Georgij Malenkov – fu Nikita Sergeevič Chruščëv, che al XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica del 1956 criticò le politiche di Stalin e denunciò i suoi crimini. Le dichiarazioni di Chruščëv ebbero un impatto immediato sui paesi dell’est Europa controllati dall’Unione Sovietica, in Ungheria nell’ottobre del 1956 esplose una violenta rivolta antisovietica che venne repressa nel sangue dai carri armati russi (Di Giovine, 2016b). L’invasione militare dell’Ungheria scatenò proteste e manifestazioni in tutto il mondo occidentale, in Italia le sinistre, ed in particolare il Partito Comunista, vissero un momento di particolare disorientamento. “I dirigenti del PC appoggia[ro]no l’invasione sovietica in Ungheria ma la base [era] turbata, molti intellettuali lascia[ro]no il partito, la maggioranza dei socialisti, con a capo il loro leader Pietro Nenni, condanna[va] invece senza riserve la repressione sovietica” (ibidem). Mentre i socialisti si allontanavano sempre più dalle posizioni di Mosca, i democristiani

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cercavano nuovi equilibri politici dopo i ripetuti fallimenti della formula del centrismo – “tra il 1953 e il 1960 i governi a maggioranza DC cad[dero] uno dopo l’altro” (ibidem). Si delineava la possibilità di un’alleanza tra PSI e DC, ma entrambi i partiti trovarono proprio al loro interno le principali forme di opposizione. L’ala sinistra del PSI non era d’accordo con la decisione di Nenni di rompere l’alleanza con i comunisti e appoggiare la DC; nella DC l’alleanza era sostenuta da Amintore Fanfani, segretario del partito dal 1954 e presidente del Consiglio nel ’58, che vide l’aprirsi di una faida nelle file dei suoi stessi sostenitori: “da una parte i seguaci del segretario, dall’altra i cosiddetti dorotei, che interpreta[va]no l’ala moderata del partito e chied[evano] prudenza nel gestire l’apertura a sinistra” (ibidem). Tra i dorotei, molto legati alle posizioni ufficiali della Chiesa, vi erano personaggi di spicco come Segni, Rumor e Colombo, ma l’elezione al Vaticano di Giovanni XXIII nel 1958, e la sua Enciclica al Concilio Vaticano II, determinarono un’apertura al dialogo con la sinistra. Quando nel febbraio del 1960 cadde un governo a guida DC, presieduto da Segni, venne chiamato a formare un nuovo esecutivo Tambroni, esponente della sinistra DC, che si dichiarava aperto verso il centrosinistra. I socialisti, non avendo preventivamente discusso un piano di riforme che potesse essere condiviso con la DC, negarono la fiducia al governo che riuscì però ad insediarsi grazie ai voti del Movimento Sociale, il partito che si considerava erede del fascismo. Il governo Tambroni entrò immediatamente in crisi a causa di una scelta infausta dello stesso Premier, che concesse la possibilità al Movimento Sociale di celebrare il suo congresso a Genova. La risposta delle sinistre, e di Genova, città medaglia d’oro della resistenza, non si fece attendere; entrarono in scena le associazioni partigiane e scoppiarono disordini e proteste che in breve tempo si diffusero in tutta Italia – “gli scontri più gravi [furono] a Reggio Emilia dove si conta[ro]no cinque morti” (ibidem). Venne messo in discussione il “mito della resistenza e dell’antifascismo, [che] [era] alla base della costituzione, ed [era] per molti il fondamento della Repubblica Italiana”, il 19 luglio Tambroni si dimise. Il mondo culturale, dal cinema alla letteratura, recuperava i valori della resistenza che sembravano essere stati accantonati durante tutto il corso degli anni ’50: vennero pubblicati romanzi come La ragazza di

Bube (1960) di Carlo Cassola e Una questione privata (1963) di Fenoglio, mentre nel 1959 al Festival

del cinema di Venezia vinse il Leone D’Oro Il generale della Rovere di Roberto Rossellini, film che esaltava i valori della resistenza (ibidem).

I tempi sembravano maturi per l’esperimento politico di centrosinistra. Franco Ferrarotti, che dal 1958 al 1960 fu in Parlamento in rappresentanza del Movimento Comunità di Adriano Olivetti, così descrive quel momento storico: “Erano anni difficili, ma splendidi, esilaranti, di grande cambiamento. Noi sentivamo, proprio all’inizio della terza legislatura, tra il ’58 e il ’63, sentivamo che la formula politica dell’immediato dopoguerra, cioè il partito-Stato, Democrazia Cristiana come un grande pianeta Saturno

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con degli anelli, dei satelliti, si era usurato. E debbo dire che tutti i partiti, non proprio tutti, ma certamente nella stessa Democrazia Cristiana come partito di maggioranza c’era questa sensazione. Persone come Amintore Fanfani, Aldo Moro si rendevano ormai conto che bisognava cercare una nuova alleanza che non poteva essere con i voti, diciamo, del passato, doveva essere con chi? Ma con i partiti che erano stati esclusi sempre dal governo. Tambroni era uomo disponibile, era un perfetto, se mi consente, opportunista. Si presentò in Parlamento chiedendo il voto di fiducia, a me toccò di fare la prima dichiarazione di voto. Io comincia col dire: Chi crede di prendere in giro il Presidente del Consiglio? Dice che il suo governo può prendere i voti dove li trova, anche i voti fascisti perché si tratta solo di approvare il bilancio? Ma che crede i bilanci dello Stato italiano sono forse le bollette del gas, dell’elettricità, dell’acqua di casa sua? Questo non è un fatto privato Onorevole Tambroni. Prenda atto che lei si presenta a questa Camera, che in fondo in grande maggioranza è antifascista, è democratica, chiedendo i voti, utilizzando i voti, seppure esterni, con una manovra opportunistica indegna, all’estrema destra. [Con la caduta di Tambroni] L’Italia entra in una sorta di guado difficile, pericoloso che può preludere o ad una conservazione di tipo postfascista, fascista ecc – estremamente conservatrice, che sarebbe stata fatale in un paese che andava sviluppandosi – oppure può costruire un embrionale governo di centro-sinistra in cui almeno uno dei partiti storici della classe operaia, il partito di Nenni, il Partito Socialista Italiano, è rappresentato” (ibidem).

Alla fine degli anni ’60 si realizzava quell’alleanza politica che venne definita da Aldo Moro, segretario della DC, delle convergenze parallele. A luglio si formò un nuovo governo presieduto da Amintore Fanfani, “un monocolore democristiano appoggiato da repubblicani e socialdemocratici che però riceve[tte] l’astensione dei socialisti e anche dei monarchici” (ibidem). Era la prima tappa del centro- sinistra. Fanfani propose un programma di riforme che cercava al tempo stesso di “rispondere ai cambiamenti della società italiana e […] rinnovare l’egemonia della DC” (ibidem). Il simbolo di questo nuovo corso fu la televisione di Stato, la Rai, diretta da Ettore Bernabei, che dal 1960 propose una serie di programmi didattici come Non è mai troppo tardi, che andò in onda fino al 1968 (anno in cui era ormai aumentata notevolmente la frequenza alla scuola dell’obbligo), l’obiettivo era quello di fornire un adeguato grado di alfabetizzazione alla popolazione italiana per consentire, agli adulti analfabeti, di conseguire il diploma elementare. Non solo l’istruzione di base ma anche l’alfabetizzazione politica passavano attraverso la televisione, in occasione delle imminenti elezioni amministrative nell’ottobre del 1960 andava in onda la trasmissione Tribuna elettorale, che divenne la principale piazza di circolazione delle idee politiche. Fanfani dagli stessi studi della trasmissione, il 4 novembre del 1960 dichiarò: “Così tutti i cittadini anche quelli che non leggono i giornali, anche quelli che non vanno ai comizi hanno potuto

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ascoltare tutte le opinioni manifestate in assoluta libertà” (ibidem). Proprio con le elezioni amministrative si ebbero i primi esperimenti di governo di centrosinistra a Milano, Genova e Firenze: “Nenni tenta[va] la carta dell’alleanza […] segue[ndo] la politica del doppio binario: nelle roccaforti rosse resta[va] alleato con i comunisti, nelle città in bilico si [univa] alla DC” (ibidem).

In questo periodo sembrarono mutare non solo le condizioni interne ma anche il corso della politica internazionale. In America, dopo una lunga presidenza Eisenhower, si respirava un clima nuovo; nel 1961 venne eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, che promise “una nuova frontiera fatta di democrazia, giustizia, libertà” (ibidem). Il presidente Kennedy affrontò la questione di una possibile alleanza della DC con i socialisti, alle imminenti elezioni politiche, in forma non ufficiale, dichiarando di vedere con “simpatia” una possibile confluenza di interessi, se questa sembrasse agli italiani e ai dirigenti del partito la migliore soluzione possibile. Il Dipartimento di Stato americano impose però ai socialisti alcune condizioni per l’accesso al governo: “il partito socialista [doveva] riconoscere l’appartenenza dell’Italia alla Nato e troncare definitivamente ogni legame con Mosca” (ibidem), ma Fanfani si oppose rivendicando una maggiore autonomia nella gestione della politica interna ed estera. Si dichiararono favorevoli all’intesa con i socialisti i grandi industriali come Mattei e Valletta – Mattei aveva “sviluppato intese commerciali con cinesi, russi, etiopi, iraniani ed arabi per la produzione di energia” che contrastavano con gli interessi delle società petrolifere americane; mentre Valletta intravedeva in questa nuova alleanza la possibilità reale di aiuti statali, vitali per la modernizzazione del paese e lo sviluppo stesso della Fiat – mentre si opposero i piccoli e medi imprenditori che temevano di perdere le vantaggiose condizioni che il miracolo economico aveva creato - i bassi salari e la debolezza dei sindacati – ed erano spaventati da possibili tentazioni dirigistiche dello Stato (ibidem). Nel VIII Congresso della DC, che si svolse a Napoli nel gennaio del 1962, Moro propose la formazione di un governo di centrosinistra con l’obiettivo di convincere tutto il partito ad accettare l’accordo con i socialisti, obiettivo che raggiunse dopo un discorso di sette ore. Nel febbraio del 1962 Fanfani presentava alle camere un nuovo governo che i socialisti appoggiarono dall’esterno entrando nella maggioranza (ibidem).

Il boom economico si era nutrito soprattutto di un autosviluppo non controllato che, come affermava Ugo La Malfa, Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, nella nota aggiuntiva alla Relazione

generale Sulle condizioni economiche del Paese, aveva certo determinato numerosi effetti positivi ma

non poteva risolvere “i problemi fondamentali del paese: il Mezzogiorno e la lotta alla disoccupazione, dell’emigrazione, delle grandi riforme – servizi, scuola, sanità, ecc.” (ibidem). Maturava, dunque, l’esigenza di dirigere questo sviluppo attraverso nuove forme di programmazione ed un piano complesso

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di riforme che investisse diversi settori: “scuola, urbanistica, attuazione delle regioni, nazionalizzazione delle imprese elettriche” (ibidem). I primi ostacoli affrontati dalla nuova coalizione di governo si manifestarono con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica nel maggio del ’62 – i socialisti avevano indicato Saragat ma Moro, per rassicurare l’ala moderata del suo partito, propose e fece eleggere il conservatore Antonio Segni - e il rinnovo del contratto dei metalmeccanici nel luglio dello stesso anno – i fatti di Piazza Statuto vennero affrontati aprendo un tavolo di concertazione, proposto dalla CISL, con imprenditori, sindacato e governo. Nel dicembre del ’62 vennero nazionalizzate le imprese produttrici di energia elettrica e nacque l’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), nonostante le forti resistenze “superate dall’enorme risarcimento offerto alla Edison e alle altre aziende private del settore, 1500miliardi” (ibidem). Nel dicembre del 1962 arrivava la seconda grande riforma del quarto governo Fanfani: la riforma della scuola che prevedeva “l’estensione della scuola dell’obbligo fino ai 14 anni e la nascita della scuola media unificata” (ibidem). Il governo Fanfani varava anche importanti riforme nel campo del lavoro: veniva “aumentato il sussidio di disoccupazione, disciplinato il cottimo e l’affitto di manodopera, stabilita la parità delle donne sul lavoro” (ibidem).

La morte, in un misterioso incidente aereo nell’ottobre del 1962, di Enrico Mattei, uno dei principali autori del centrosinistra e della nazionalizzazioni, sembrò aprire la strada ad una nuova ondata di opposizioni al governo di centrosinistra: la borsa iniziò a vacillare e i giornali ad attaccare il governo (ibidem). Le altre riforme in programma rischiavano di saltare, e fu proprio ciò che avvenne sia per l’istituzione delle regioni – ostacolata dall’ala conservatrice della DC, che vedeva nella possibile autonomia delle regioni a guida PC un pericolo per l’unità del paese – che per la riforma urbanistica – presentata dal ministro dei lavori pubblici Fiorentino Sullo, venne respinta dalla segreteria della DC che non appoggiava il progetto, la riforma prevedeva lo sviluppo dell’edilizia popolare attraverso l’esproprio di terreni e vincoli per la salvaguardia del territorio con l’obiettivo di contrastare la speculazione selvaggia che stava deturpando il paese (ibidem). Le elezioni politiche dell’aprile del 1963 vennero affrontate in un clima abbastanza teso ed incerto: “I risultati non premia[ro]no l’alleanza, la DC per[se] 4 punti percentuale, per la prima volta dal 1948 scende[va] sotto il 40%, i liberali, grandi oppositori del centrosinistra ,raddoppia[va]no i voti raggiungendo il 7%, anche i socialisti non otten[nero] i voti sperati restan[d]o ancorati alle loro percentuali (13,8%); il PC invece guadagna[va] più di 2 punti e mezzo raggiungendo il 25,3%” (ibidem).

Fanfani, contestato dall’ala destra del partito, si dimise, e venne affidato a Moro, il quale affermava pubblicamente l’impossibilità di tornare ad un governo centrista, l’incarico di formare un nuovo governo. Moro aprì all’entrata dei socialisti nella compagine di governo ma questi respinsero la proposta; solo sei

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mesi più tardi, ed un governo ponte presieduto da Giovanni Leone, si arrivò ad un accordo definitivo che portò, il 4 dicembre del ’63, all’insediamento del primo vero governo di centrosinistra presieduto da Aldo Moro con Nenni vicepresidente (ibidem).

Le azioni intraprese dal PSI e dalla DC furono dettate da esigenze opposte: il Partito Socialista per recuperare credibilità di fronte all’elettorato chiedeva riforme molto incisive, la DC doveva invece tranquillizzare l’elettorato smorzando qualsiasi tentativo di riforma troppo rivoluzionario (ibidem). Nel gennaio del ’64 nasceva il PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), dalla scissione dell’ala sinistra del Partito Socialista, il cui leader, Pietro Ingrao, definì l’esperimento di centrosinistra come “una scelta funzionale al neocapitalismo” (ibidem). L’ala destra della DC, capitanata da Giorgio Amendola, si dichiarava “attenta alle riforme e [favorevole] al dialogo con il Partito Socialista” mentre Togliatti attuava una strategia della doppia opposizione “morbida in Parlamento e dura nelle Piazze” (ibidem). Nel 1963 mutava lo scenario internazionale: moriva Papa Giovanni Paolo XXIII e il presidente Kennedy veniva ucciso a Dallas; ma i loro successori, Lindon Johnson e Paolo VI, non si allontanarono dalla linea tracciata. Il 1964 si apriva tra i segnali negativi degli indicatori economici, il tasso di crescita del prodotto interno lordo era sceso al 2,8%, l’economia rallentava e molti capitali fuggivano all’estero (ibidem). Gli imprenditori chiesero al governo l’abbandono dei progetti di riforma per un immediato tentativo di risoluzione dei problemi economici. Il ministro del Tesoro, Emilio Colombo, annunciò una politica dei due tempi: “prima il risanamento della situazione economica e poi le riforme” (ibidem). I socialisti non accettarono la proposta di Colombo - “il 25 giugno del 1964 un solo voto contrario ai finanziamenti alla scuola privata spezza[va] il fronte tra democristiani e laici” -, si aprì una pericolosa crisi di governo e si diffusero voci di un possibile colpo di Stato170. I socialisti si videro costretti a rinunciare alle riforme –

la legge urbanistica e la programmazione economica – al fine di giungere ad un accordo con la DC. Nell’agosto del ’64 venne formato da Moro un nuovo governo di centrosinistra, e venne aletto al Quirinale, dopo l’improvvisa morte di Segni colpito da una trombosi celebrale, il socialdemocratico Saragat. Altre riforme, come la riforma tributaria e quella della pubblica amministrazione, non vennero attuate ma in compenso ripartì lo sviluppo economico, che aveva visto una battuta d’arresto nel 1964, “nel ’66 il prodotto interno lordo cresce[va] del 6%” (ibidem). Negli anni di presidenza di Saragat le posizioni del Partito Socialista e del Partito Socialdemocratico si avvicinarono, il 30 novembre del ’66 i

170 I giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi condussero un’inchiesta, che venne pubblicata sull’Espresso nel 1967, dalla

quale emersero i dettagli dell’organizzazione di un piano di intervento militare, dal nome Piano Solo, ai danni dei vertici della sinistra. Il Piano prevedeva l’arresto e la deportazione in appositi luoghi di concentramento, situati in Sardegna e altre isole, dei capi della sinistra, ma venne bloccato da Moro e dai vertici della DC (Di Giovine, 2016b).

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due partiti si riunificarono nel PSU, Partito Socialista Unificato, presieduto da Pietro Nenni. Nel marzo del ’66, dopo una nuova crisi di governo, nacque un nuovo eseguito guidato da Aldo Moro che affrontava il suo terzo mandato di governo (ibidem). Nonostante le numerose rinunce al grande progetto di riforme, in questi anni vennero apportati una serie di ammodernamenti nel campo del lavoro, dell’assistenza e dell’istruzione. Nel 1967 erano già visibili i risultati della riforma della scuola del 1962 “il numero degli alunni nella scuola media statale [era] salito del 18% e all’università le matricole [erano] cresciute del 60%” (ibidem). Nel 1966 venne approvata la legge per la giusta causa nei licenziamenti, il licenziamento nelle aziende con più di 35 dipendenti poteva avvenire solo per giusta causa. Nel 1969 venne approvata la pensione sociale per ultra sessantacinquenni sprovvisti di reddito e crebbero le pensioni per l’invalidità, che passarono da 1milione e 200mila del 1960 ai 3milioni e mezzo del 1970 (ibidem).

La situazione sociale, intanto, mutava velocemente: il consumismo innescò una rivoluzione dei costumi che si tradusse ben presto in un’aspra contestazione dei giovani contro la società borghese-capitalistica e le sue istituzioni; alle proteste giovanili si affiancarono le rivendicazioni operaie (ibidem). La risposta della classe politica fu lenta e faticosa e la sua inadeguatezza si palesò chiaramente nelle scelte elettorali delle elezioni politiche del 1968: “Il PSU non raggiun[se] nemmeno la percentuale che il PSI aveva ottenuto da solo nel turno precedente, prima della scissione col PSIUP. Socialisti e socialdemocratici appena riunitisi, si divi[sero] di nuovo nel ’69. La DC in qualche modo [tenne], il suo elettorato [aveva] premiato la condotta prudente […] sui progetti di riforma. Il PC cresce[va] ancora” (ibidem). Le elezioni aprirono una nuova crisi di governo che portò alle dimissioni di Moro e alla creazione di un nuovo esecutivo guidato da Mariano Rumor. Il governo Rumor nel tentativo di rispondere alle proteste giovanili varò una legge che consentiva il libero accesso alle università (ibidem).

L’esperimento del centrosinistra andò avanti ma la stagione delle grandi riforme sembrava ormai chiusa con la contestazione studentesca e l’autunno caldo del ’69. Nonostante le numerose difficoltà il governo di centrosinistra riuscì però a varare altre importanti riforme “come lo smantellamento del codice penale fascista, l’introduzione del divorzio, l’istituzione del referendum, la nascita delle regioni e l’approvazione dello statuto dei lavoratori” (ibidem).