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CAPITOLO I: DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FASCISMO

4. L’Italia fascista

4.1. Le strategie socioeconomiche del regime fascista

Nel corso del Ventennio la strategia economica del regime si rivelò incoerente. Nei primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò una linea liberista, volta a rilanciare la produzione, incoraggiando l’iniziativa privata e allentando i controlli statali, strategia che si rivelò fallimentare, provocando un aumento dell’inflazione e un forte deterioramento del valore della lira (Sabbatucci e Vidotto, 2008). Nell’estate del ’25 il nuovo ministro delle finanze, Giuseppe Volpi, inaugurò una politica fondata sul protezionismo ed un maggior intervento statale nell’economia. Mussolini, convinto sostenitore di una modernizzazione dell’agricoltura, appoggiò una politica volta all’acquisizione di un’autonomia economica nel settore agricolo che riuscisse a far assumere all’Italia un posto di primo piano sulla scena economica internazionale112 (ibidem). Il primo importante provvedimento adottato da Volpi fu l’aumento

110 Tra questi Antonio Gramsci, segretario del Partito Comunista, che morì in carcere, e Sandro Pertini, dirigente socialista e

futuro presidente della Repubblica Italiana.

111 Solo la Chiesa cattolica, grazie al Concordato e ai Patti Lateranensi del 1929, riuscì a mantenere, in cambio dell’appoggio

al regime, un suo spazio libero da ingerenze statali.

112 La nuova politica agraria si concretizzò grazie al lavoro di figure di altissimo profilo, tra cui Arrigo Serpieri e Giuseppe

Tassinari. Nel 1923 nacque l’Istituto di economia e statistica agraria, il cui compito era sostenere tecnicamente e scientificamente le azioni del governo. In seguito, nacque l’Istituto di economia agraria (1928) con il compito di studiare le politiche agricole e il processo di sviluppo dell’agricoltura (Zanibelli, 2016).

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dei dazi sui cereali, accompagnato da una forte campagna propagandistica detta battaglia del grano113,

il cui obiettivo era il raggiungimento dell’autosufficienza nel settore cerealicolo. Venne aumentata la superficie coltivata a grano e vennero impiegate tecniche più avanzate di coltivazione che favorirono le industrie produttrici di concimi e macchine agricole. Il risultato fu un aumento della produzione di grano, che alla fine degli anni ’20 raggiunse il 50% delle coltivazioni totali, e una diminuzione delle importazioni, che si ridussero, nello stesso periodo di tempo, a un terzo. La battaglia del grano aveva però ottenuto le sue fortune a discapito di altri settori, come le colture specializzate rivolte all’esportazione e l’allevamento (ibidem).

Il secondo obiettivo fu la rivalutazione della lira che, come accennato, aveva subito una forte svalutazione. Il Duce, nell’agosto del 1926, dichiarò e fissò l’obiettivo di quota novanta: la lira che aveva raggiunto un tasso di cambio con la sterlina pari a 153, doveva essere portata ad un cambio di 90 lire per una sterlina; obiettivo che venne raggiunto in poco più di un anno. Alla base di questa operazione c’era soprattutto la volontà di dare al paese un’immagine di stabilità monetaria, rassicurando i ceti medi sui loro risparmi. Gli effetti della rivalutazione furono però contrastanti: da un lato le industrie vennero agevolate dalla riduzione del costo del lavoro, determinato dal taglio di stipendi e salari ai lavoratori dipendenti, e dagli sgravi fiscali concessi dal governo; mentre dall’altro l’aumento del prezzo delle merci italiane sul mercato estero le rese meno concorrenziali. Il risultato fu un aumento del potere e dei vantaggi delle grandi imprese e il fallimento di molte piccole e medie imprese che si videro schiacciate dal peso delle restrizioni attuate (ibidem). La crisi del ’29 investì anche la già fragile economia italiana. La più colpita fu l’agricoltura, che vide un ulteriore tracollo dei prezzi di tutti i suoi prodotti, ma anche le industrie, grandi e piccole, si trovarono in gravi difficoltà affrontate dal regime attraverso un nuovo taglio ai già miseri salari dei lavoratori dipendenti. “La disoccupazione nell’industria e nel commercio aumentò bruscamente, passando dalle 300.000 unità del ’29 a 1.3000.000 nel ’33” (ivi, p. 173). La risposta del regime non si discostò molto dalla politica economica precedente: l’intervento statale, diretto o indiretto, si fece sempre più presente in tutti i settori in crisi e fu sempre accompagnato da una compressione dei salari, venne inoltre avviato un vasto programma di opere pubbliche volto a rilanciare la produzione e attutire le tensioni sociali. Per sostenere le iniziative dello stato vennero creati due istituti, nel 1931 fu

113 La propaganda adottata per la battaglia del grano si basava su motivazioni di tipo etico. Giuseppe Tassinari, presidente

della Confederazione nazionale fascista degli agricoltori, dichiarava: “La battaglia del grano, prima che l’insieme complesso di provvedimenti tecnici ed economici per l’incremento della produzione frumentaria, è un grido di fede e un segno di volontà che Mussolini aveva indicato auspicando il giorno in cui la terra italiana avrebbe dato il pane per tutti gli italiani.” (Daneo, 1980, p. 120).

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fondato l’Istituto mobiliare italiano (Imi) per il finanziamento a medio e lungo termine delle imprese, mentre nel 1933 fu creato l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) finalizzato al salvataggio delle banche e delle industrie entrate in crisi (ibidem).

La svolta arrivò nel 1935, quando l’Italia dovette fare i conti con le sanzioni economiche imposte dalla

Società delle Nazioni, a causa dell’annessione dell’Etiopia. Mussolini sfruttò il provvedimento restrittivo

per lanciare il progetto dell’autarchia di Stato: politica economica di autosufficienza energetica e alimentare, che, assieme alle politiche di crescita demografica, avrebbe permesso all’Italia di ricoprire un ruolo chiave nello scenario geopolitico internazionale. Gli anni dell’autarchia furono il periodo di maggiore sperimentazione in campo agrario e scientifico, dal momento che bisognava sostituire le materie prime che non potevano più essere importate. L’autarchia si tradusse in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre e dei combustibili sintetici, ma, nonostante i progressi in alcuni settori, l’autosufficienza rimase un traguardo irrealizzabile (Ruzzenenti, 2010).

L’economia del Ventennio fascista fu caratterizzata da grandi contraddizioni, da incoerenze della propaganda con la celebrazione della vita e del lavoro nelle campagne da un lato, l’esaltazione della forza industriale italiana, fondamentale per fare dell’Italia una potenza militare internazionale, dall’altro. La quota degli addetti all’agricoltura calò dal 58 al 51%, mentre quella degli occupati nell’industria passò dal 23 al 26,5%; quella degli addetti al terziario dal 18 al 22% (Toniolo, 1980).Nonostante questi segni di sviluppo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale l’Italia era ancora un paese fortemente arretrato114.

Nel corso del Ventennio vennero introdotte le principali forme di previdenza sociale, ma la loro applicazione andò molto a rilento. Nel 1927 divenne obbligatorio un sistema pensionistico per i lavoratori dipendenti dell’industria; - altre categorie invece, come i lavoratori agricoli, i lavoratori domestici, i lavoratori indipendenti e i professionisti furono escluse dal pensionamento - e vennero introdotti ispettori del lavoro per garantire l’osservanza della nuova normativa, ma l’attività di controllo non fu sempre efficace (Veneruso, 1981). Alla fine degli anni Venti vennero introdotte particolari forme assicurative “in caso di invalidità parziale o permanente incontrata sul luogo del lavoro. Nessuna forma previdenziale, salvo nel caso di malattie sociali come la tubercolosi o di stati di particolare interesse sociale, come la gravidanza e il puerperio, veniva invece riconosciuta in caso di malattia, per cui le spese mediche,

114 “La disaggregazione dei consumi nelle componenti principali rivela però che il disagio delle classi più povere dovette

essere ben maggiore, se già dal 1924 i generi alimentari di origine vegetale iniziarono la loro ripida discesa, fermatasi solo nel 1937; la crisi del 1927 venne registrata anche dai consumi di origine animale e dai grassi, mentre i generi di vestiario declinarono solo dal 1930 in poi (la spesa per l’abitazione, che sale violentemente dal 1926 al 1935, lungi dal rivelare un miglioramento dello standard di vita, è indice del fatto che una certa liberalizzazione dei canoni di affitto, da un lato, e la loro rigidità monetaria, dall’altro, finirono col fare incidere di più questo capitolo di spesa sul bilancio domestico, a parità, o a deterioramento, di prestazioni)”(Zamagni, 1975, p. 547).

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farmaceutiche e ospedaliere erano a totale carico del paziente e della sua famiglia, salvo casi di provata indigenza, per la quale interveniva l’assistenza privata e pubblica” (ivi, pp.171-172). Il regime fascista riconobbe anche il diritto alle ferie, regolate però all’interno dell’organizzazione dopolavoristica (ibidem).

Il grande progetto di opere pubbliche, messo in atto dal Duce come risposta alla crisi del ’29, divenne un baluardo della sua opera propagandistica. Furono realizzate nuove strade e nuovi tronchi ferroviari115,

ponti e canali, opere idrauliche e di arginazione, rassodamento del terreno, vennero costruiti nuovi edifici pubblici e risanati diversi centri urbani, tra cui la capitale. Sul piano delle infrastrutture il governo costruì le due linee Roma-Napoli (1927) e Bologna-Firenze (1934), vere e proprie icone del regime, le cosiddette

direttissime che oltre alla reale funzionalità dovevano celebrare la supremazia italica nel campo della

tecnica116 (Maggi, 2003). Nel 1928 fu creata l’Anas (Azienda nazionale autonoma delle strade) con il

compito di provvedere alla manutenzione della rete stradale nazionale (Troilo, 2016).

Uno degli strumenti essenziali del fascismo per lasciare il proprio segno nella società italiana fu sicuramente l’architettura. Le costruzioni pubbliche avevano il doppio compito di favorire la modernizzazione della società e contemporaneamente creare luoghi di aggregazione utili al consenso. Vennero costruiti edifici scolastici, edifici pubblici (stadi, piscine, case popolari, municipi, case del fascio, ospedali, stazioni ferroviarie e automobilistiche) e interi nuovi quartieri. Tutto doveva testimoniare la grandezza dello stato e la sua priorità sul privato. Edifici pubblici e monumenti (al Duce, al soldato e al milite fascista) rispondevano ai criteri della grandiosità e della virilità, i due canoni prevalenti nella propaganda estetica del regime (Troilo, 2016). Alla propaganda che ribadiva l’importanza di opere di rara grandezza, costruite con efficienza senza pari, si contrapponeva una serie di problemi pratici come l’espropriazione degli edifici esistenti per la demolizione e la costruzione di nuovi palazzi. Ai segnali di dissenso da parte dei cittadini, preoccupati per gli interventi troppo invasivi, si accompagnavano le difficoltà del reperimento dei fondi necessari alle opere, che spesso arrivavano da mutui fatti da istituti di credito o assicurativi.La maggior parte degli interventi strutturali del regime si concentrava nelle regioni settentrionali, acutizzando il già presente divario tra Nord e Sud del Paese (ibidem).

115 Ben nota è la campagna per la puntualità dei treni. Per un approfondimento si veda Cavazza (2005), vol. II, pp.735-736. 116 Per promuovere il turismo interno si crearono i treni popolari, che dimostravano come i benefici della politica sociale

intrapresa dal regime riguardasse anche le classi meno abbienti della popolazione. Un’operazione politico-sociale-culturale che interessava però solo una parte del paese, ovvero il Centro e soprattutto il Nord (Casini, 2016).

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Tra le principali azioni socioeconomiche del regime vi è senza dubbio il programma di bonifica integrale, volto a garantire il recupero e la valorizzazione di terre incolte o mal gestite. L’ambizioso progetto del Duce fu tuttavia attuato solo parzialmente. Nonostante la propaganda, le difficoltà incontrate dalla finanza pubblica scoraggiarono l’applicazione delle leggi sugli adempimenti di bonifica da parte dei proprietari. In particolare, la politica dei consorzi di bonifica fu ostacolata dagli espropri, che i proprietari faticavano ad accettare, e dai piani di investimento per le innovazioni in campo agrario117 (Di Bartolo,

2016). La più riuscita opera di bonifica fu quella dell’Agro Pontino, cominciata nel 1930 e condotta dall’Opera nazionale combattenti, un vasto territorio paludoso e malarico nel Lazio meridionale. L’operazione portò alla creazione di 3000 nuovi poderi, dove vennero insediati i contadini provenienti dalle regioni del Centro-Nord, alleggerendo gli squilibri della densità demografica tra le regioni del nord e quelle del sud (Sabbatucci e Vidotto, 2008). A prescindere dai concreti risultati, la bonifica delle Paludi Pontine permise al fascismo di registrare un importante successo propagandistico. L’opera venne presentata come un’occasione per accrescere le capacità produttive dell’agricoltura italiana, tramite il risanamento dei terreni paludosi e la loro colonizzazione. Si inquadrava perfettamente nell’ambito dell’ideologia fascista, che propugnava il ritorno alla terra, la de-urbanizzazione e la ruralizzazione, con la creazione di nuovi insediamenti di vita che permettessero una continuità di occupazione familiare (Di Bartolo, 2016). Tuttavia, l’esito della clamorosa campagna demografico-ruralista non corrispondeva alla realtà illustrata dai mezzi di informazione. L’evento migratorio dei coloni, in maggioranza provenienti dal Veneto e dalla Valle Padana, non registrò i risultati tanto pubblicizzati. I coloni dovettero fare i conti con le grandi difficoltà ambientali delle zone, che li spinsero più volte ad animate proteste. Ai racconti elogiativi della vita dei coloni118 si alternarono narrazioni di alcolismo diffuso, prostituzione, lavori in

nero e salariato al di fuori del proprio podere, rivendita dei prodotti nel mercato illegale (ibidem).Il nucleo familiare poteva contare persino una ventina di componenti, questo aggravava le condizioni di miseria in cui in realtà vivevano i braccianti e i mezzadri. Testimonianze orali raccontano una realtà diversa da quella delle fonti fasciste che proclamavano l’obiettivo del regime di favorire l’emancipazione della classe rurale. Quella realtà era fatta di sfruttamento e questo spiega piuttosto bene come, al momento della caduta di Mussolini, un’intensa partecipazione alla lotta per la liberazione venne proprio da questi contesti (ibidem). La campagna di ruralizzazione dell’Italia si era subito saldata alla polemica contro l’urbanesimo. La concentrazione massiccia della popolazione nella città era considerata ideologicamente come uno dei mali della modernità, causa del disordine politico e sociale. Per sottrarre parte della

117 Di Bartolo cita il caso del Tavoliere di Puglia analizzato e presentato da Bevilacqua nel suo testo del 1988. 118 Per un approfondimento si legga Paese che vai di M. Pompei (1937).

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popolazione all’influenza corruttrice dei centri urbanizzati, si scelse di adottare un modello di insediamento individuale formato da casolari isolati nelle campagne. Anche questi ultimi erano interessati dalle politiche di bonifica, in particolar modo quartieri abitati dal sottoproletariato, considerati insalubri e fatiscenti. In questi casi la bonifica prevedeva un vero e proprio sventramento di interi quartieri, con il conseguente trasferimento degli abitanti nelle campagne. Bisogna comunque tenere presente che, nonostante la dichiarata politica ruralista, il governo procedette con la fondazione di nuove città, come Aprilia, Sabaudia, Littoria e Pomezia (ibidem).

In riferimento ai movimenti migratori spontanei interni, Francesca Fauri (2015) sottolinea come il fascismo puntò ad ostacolarli con l’intento di arginare il fenomeno dell’urbanesimo e come, nonostante i vincoli alla mobilità introdotti dal regime, gli anni Trenta furono comunque caratterizzati da una forte mobilità interna, che vide un milione e mezzo di persone spostarsi lungo la penisola e le isole (Fauri, 2005). Paradossalmente in quegli anni prese avvio un consistente processo di urbanizzazione che vide una crescita progressiva dei flussi provenienti dal Meridione verso le aree settentrionali (Corti- Sanfilippo, 2012). Il regime adottò nel corso del Ventennio anche una politica specifica per l’emigrazione. Inizialmente la promozione dell’emigrazione, portata avanti dai governi liberali, venne fatta propria anche dal governo fascista, ma le cose cambiarono nel 1924, quando questo avviò una ridefinizione della propria politica, contraria ora agli espatri in quanto causa del depauperamento della nazione (Gallo, 2005). La nuova politica migratoria, derivata dalla pressione della crescita demografica, puntava a sostituire l’emigrazione con i flussi di colonizzazione interna nelle aree interessate dalla bonifica e con quelli diretti verso le colonie africane o verso la Germania hitleriana (Bonifazi, 2013). L’emigrazione non si esaurì, vennero fortemente sanzionati gli spostamenti spontanei, ma i flussi migratori continuarono a esistere, gestiti e controllati dal regime con apposita legislazione e particolari comitati119 (Gargolini, 2016).