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L’agricoltura e le condizioni di vita della popolazione

CAPITOLO I: DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FASCISMO

3. Le inchieste parlamentari post-unitarie

3.1. Analisi delle inchieste parlamenti post-unitarie

3.1.4. L’agricoltura e le condizioni di vita della popolazione

Nell’Italia dell’Ottocento la vita per le classi subalterne, ossia la maggioranza della popolazione, era molto dura, al Nord e al Sud, nelle campagne e nelle città: adulti e bambini erano accomunati da condizioni di esistenza e lavoro estremamente difficili48. Nelle famiglie delle classi povere la vita

48 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari effettuati tra il 1861 e il 1915 in relazione alla povertà, all’infanzia e

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quotidiana assumeva spesso i contorni di una lotta per la sopravvivenza. Le classi lavoratrici, all’interno di un’economia complessivamente povera e sottosviluppata, conducevano un’esistenza segnata da un lavoro poco remunerativo, povertà di risorse e precarie condizioni abitative49 (Rai Scuola, 2018).

In generale, la condizione delle abitazioni rurali era molto depressa50. Le case, raggruppate in borghi o

villaggi oppure sparse per la campagna erano spesso piccole e mal ventilate, al loro interno gli uomini convivevano con gli animali mentre all’esterno erano circondate da letamai e piccole strade piene di immondizia. Indipendentemente dal numero dei membri della famiglia, le case erano generalmente costituite da due stanze sovrapposte, una inferiore con i pavimenti in terra battuta e una superiore, cui si accedeva, attraverso una scala a pioli, tramite un buco praticato in un angolo del soffitto. Queste abitazioni rurali erano umide e fredde nella cattiva stagione ed eccessivamente calde nella stagione estiva. Durante i mesi freddi la stalla assumeva una funzione centrale. Le famiglie contadine, per ridurre al minimo il consumo di legna si rifugiavano nelle stalle, che divenivano oltre a utili ripari anche luoghi di incontro e di ritrovo nei quali si spendevano tutti i momenti di convivialità (ibidem). Anche le abitazioni urbane erano caratterizzate da situazioni di generalizzato degrado51, pur differenziandosi fortemente tra

situazioni difficili e situazioni al limite della vivibilità, riscontrabili soprattutto in alcuni centri del Mezzogiorno (l’esempio più macroscopico al riguardo era quello di Napoli52). Gli strati urbani più poveri

si concentravano in quartieri ad alta densità abitativa ed elevato tasso di affollamento per vano, in abitazioni decadenti, umide e sporche, cui si aggiungeva la strettezza delle strade e la mancanza di spazi d’incontro. Inoltre, lo spostamento della popolazione dalle campagne alle città si traduceva in un’endemica carenza di abitazioni, il cui affitto, dato l’aumento della richiesta, raggiungeva livelli sempre più alti, spesso insopportabili per il bilancio delle famiglie (ibidem).

suicidio, all’assistenza sanitaria ed altri istituti di assistenza, alle società di mutuo soccorso, alle opere pie: Cfr. Tabella 4: Interventi parlamenti relativi a diverse categorie sociali, alle loro condizioni, ai loro problemi e ai mezzi per risolverli. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 79.

49 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in merito alle condizioni delle classi lavoratrici; alle società

cooperative, agli scioperi ed ai provvedimenti adottati per la regolazione delle attività lavorative: Cfr. Tabella 5: Interventi parlamenti sulle condizioni di vita e di lavoro di contadini ed operai e sui mezzi per regolarle. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 104.

50 Ritroviamo il primo ed unico esplicito riferimento alle case rurali nel 1865 con la relazione presentata da Carlo Carpinati

Le case rurali nel senso della legge 26 gennaio 1865.

51 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari relativi alle abitazioni urbane: Cfr. Tabella 6: Interventi parlamenti

sulle abitazioni popolari urbane in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 127.

52 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari relativi alle condizioni delle abitazioni e a quelle generali di Napoli:

Cfr. Tabella 7: Interventi parlamenti sulle condizioni generali e delle abitazioni della città di Napoli 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 130.

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Un altro aspetto che rifletteva le condizioni di estrema povertà in cui vivevano le famiglie delle classi popolari era costituito dall’alimentazione. In linea generale il bilancio nutritivo degli strati più bassi della popolazione, sia in città sia in campagna, era carente dal punto di vista dell’apporto proteico, vitaminico e calorico53 (ibidem). La maggior parte della popolazione viveva una condizione di sottoalimentazione

che produceva effetti deleteri sulla mortalità e sulla morbilità54; una condizione che si mostrerà in tutta

la sua drammaticità negli anni post-unitari, quando la chiamata all’esercito rivelerà la presenza di un elevato numero di non idonei alla leva (ibidem). Il regime alimentare dei ceti rurali, ma anche di tanta parte dei ceti popolari urbani, era poco o per nulla variegato, composto principalmente da largo consumo dei cereali e dei legumi e da bassissimo consumo di carni fresche, a causa del loro prezzo elevato. L’autoconsumo, data la ristrettezza dei mercati e la scarsa commercializzazione dei prodotti agricoli, aveva un ruolo importante. La vita della popolazione era fortemente condizionata dalle ricorrenti carestie, causate da annate di cattivo raccolto che “portavano con sé una serie di mali quali il rincaro del prezzo dei grani, le incette e le speculazioni sui cereali, l’aumento della disoccupazione e del pauperismo, la fame generalizzata ed il rialzo del tasso di mortalità” (ibidem). La prevalenza dei cereali nella dieta dei contadini era un fenomeno generalizzato a tutta la penisola, ma in alcune zone questa cronica sottoalimentazione determinò effetti particolarmente gravi sulle condizioni sanitarie della popolazione: “In vaste aree dell’Italia settentrionale, dove la miseria contadina costringeva centinaia di migliaia di lavoratori della terra a cibarsi quasi esclusivamente di polenta e di pane fatto con il mais, [si] determinò l’espandersi della pellagra, qualificata comunemente come malattia della fame o mal della miseria55.

53 Gli interventi parlamentari sul tema dell’alimentazione risultano esigui, sei in tutto dal 1861 al 1915: Cfr. Tabella 8:

Interventi parlamenti in materia di alimentazione. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 134.

54 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari relativi alla mortalità e morbilità della popolazione italiana dal 1861

al 1915: Cfr. Tabella 9: Interventi parlamenti in merito alla mortalità e morbilità della popolazione italiana 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 135.

55 La diffusione della pellagra si fermò a ridosso dell’Italia centrale, dove venne ostacolata dalla vasta persistenza del sistema

mezzadrile, e rimase completamente sconosciuta nel sud, dove il mais era scarsamente coltivato. Le zone più colpite furono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna, ma la malattia seminò molti morti anche in Piemonte, Umbria e Marche, dove si arrestò. Solo nel 1879 si fece un primo censimento dei pellagrosi, esteso a tutte le regioni del regno. “La cifra totale dei pellagrosi censiti fu di 97.855 così suddivisa: Piemonte 1692, Liguria 148, Lombardia 40.838, Veneto 29.936, Emilia 18.728, Toscana 4382, Marche e Umbria 2155, Abruzzi e Molise 0, Lazio 76” (Antonini, 1935). La prima inchiesta sulla pellagra svolta nell’Italia unita fu indetta dalla Direzione dell’agricoltura nel 1878 con l’obiettivo di raccogliere e fornire dati sulla diffusione della malattia, ma anche consentire una classificazione sociale dei ceti più colpiti. La classe bracciantile risultava tra le più esposte, ma anche mezzadri impoveriti e varie figure ai margini della società, come mendicanti o anche muratori e filatrici, che vivevano in condizioni di assoluta povertà (Ventrella, 2005). Vi era però ancora molta incertezza sulle cause della malattia, ancora intorno al 1850 non veniva accolta in generale la relazione fra il mais guasto e la pellagra, ma neppure quella generica fra pellagra e alimentazione maidica. Strenuo difensore dell'insufficienza alimentare del mais fu il fisiologo Filippo Lussana, seguito da Clodomiro Bonfigli e da Gaetano Strambio junior. Successivamente si contesero il campo le due teorie dell'insufficienza alimentare del mais (O. Rossi, P. Rondoni) e della tossicità del mais guasto (Balardini), teorie che finalmente ricoscevano la miseria come principale causa della malattia. “Il più costante ed efficace seguace del tossicozeismo

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[…] [La pellagra] nel suo ultimo stadio si manifestava attraverso forme di alienazione mentale, la cosiddetta frenosi pellagrosa, che portavano al ricovero dei malati nei manicomi”56 (ibidem). Alla fine

del XIX secolo il numero di decessi causati dalla pellagra era elevato ma con l’inizio del nuovo secolo, grazie al generale miglioramento delle condizioni di vita nelle aree di maggiore diffusione del morbo, si assistette ad un repentino calo sia dei morti che della diffusione della malattia (ibidem).

Le classi lavoratrici e popolari vivevano una situazione di profondo disagio materiale, aggravata anche dall’elevata natalità, un fenomeno che nelle campagne, dove era quasi inesistente il controllo delle nascite, assumeva le più vaste proporzioni riscontrabili sul piano nazionale57. La città, e in essa alcuni

particolari strati della popolazione, quali l’aristocrazia e gli ebrei, si mostrava più sensibile all’adozione di nuovi modelli di comportamento, anticipando quelli volti ad un più efficace controllo delle nascite. Per le famiglie popolari molto spesso i figli, nei primi anni di vita, rappresentavano un peso insostenibile, limitato solo parzialmente dall’elevato tasso di mortalità infantile, cui si faceva fronte attraverso un precoce loro avviamento all’attività lavorativa (ibidem).

Per tutto l’Ottocento le classi lavoratrici vissero condizioni di un profondo malessere, che incidevano profondamente anche su quelle condizioni igienico sanitarie, quasi ovunque estremamente limitate58. Il

fu Cesare Lombroso, che nel 1869 presentava al concorso di fondazione L. Cagnola nell'Istituto Lombardo i suoi: Studi clinici e sperimentali sulla natura, causa e terapia della pellagra e continuò […] [instancabilmente] con ricerche sperimentali, pubblicazioni di propaganda a lottare perché lo stato traducesse in legge i provvedimenti profilattici e curativi che egli aveva esposto nel Trattato della pellagra nel 1892” (Antonini, 1935). Per molto tempo la teoria di Lombroso rimase la più accreditata e su questa base nel 1880 il Consiglio d’Agricoltura approvò alcuni provvedimenti per contrastare il fenomeno: si vietò lo smercio e il consumo di mais avariato, si risanarono le case coloniche e si controllarono i sistemi idrici, vennero costruiti forni pubblici per distribuire pane ben cotto, ed essiccatoi. Dati gli scarsi risultati dei provvedimenti la risposta finale della classe dirigente fu la costruzione di manicomi dove venivano internati i pellagrosi nell’ultimo stadio della malattia (Ventrella, 2005). L’inchiesta sui malati del 1899 dimostrò una diminuzione dell’endemia pellagrosa, risultato delle generali trasformazioni socioeconomiche determinate dalla crisi agraria che, tra i numeri effetti, portò, anche, alla sostituzione del salario in natura, costituito in prevalenza da mais, con il salario in denaro che permise ai contadini la gestione in proprio dei consumi e l’accesso a molti prodotti prima troppo costosi. A ciò si aggiunse l’alleggerimento della pressione demografica nelle campagne dovuta all’aumento dell’emigrazione, un uso maggiore dei concimi chimici e la sostituzione, nelle rotazioni agrarie, del mais con foraggiere e piante industriali. Questi mutamenti portarono agli inizi del Novecento, alla quasi totale scomparsa della malattia in Piemonte e più tardi in molti centri della Lombardia e del Veneto. Solo le Marche registrano un aumento della malattia tra il 1900 e il 1905, probabilmente per la forte arretratezza delle campagne. Nel 1910 il numero di malati era sceso a 33.861 casi, la maggior parte dei quali cronici, mentre i nuovi casi diminuirono fino a scomparire del tutto (ibidem). Per un approfondimento sugli interventi parlamentari relativi al problema della pellagra: Cfr. Tabella 10: Interventi parlamenti sulla pellagra in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 136.

56 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari relativi ai manicomi e alle malattie mentali in Italia tra il 1861 e il

1915: Cfr. Tabella 11: Interventi parlamenti in materia di manicomi e malattie mentali. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 138.

57 Tra il 1861 ed il 1915 troviamo solo due interventi parlamentari specifici in relazione al problema delle nascite, che

associano nascite e analfabetismo, entrambi presentati da Giulio Salvatore Del Vecchio, il primo Gli analfabeti e le nascite nelle varie parti d’Italia nel 1894, ed il secondo l’anno successivo Su gli analfabeti e le nascite: saggio secondo: note comparative tra l’Italia ed altre nazioni (1895).

58 Numerosi furono gli interventi parlamentari in materia d’igiene in relazione a diversi ambiti, contesti territoriali e categorie

sociali. Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in materia di igiene: Cfr. Tabella 12: Interventi parlamenti in materia di igiene in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 140.

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quadro nazionale delle malattie era caratterizzato, oltre che dalla pellagra, da un’eterogeneità di fenomeni morbosi così estesi da indurre gli osservatori a esprimersi in termini di ‘scadimento’ o ‘degenerazione della razza’(ibidem). Al primo posto nella classifica delle cause di morte si attestava la tubercolosi, che colpiva maggiormente nelle grandi città ma era diffusa anche nelle campagne59. La diffusione della

tubercolosi era influenzata non solo dalle insufficienze alimentari e dall’insalubrità delle abitazioni ma anche dalle condizioni del lavoro di fabbrica o a domicilio, molto spesso esercitato in ambienti polverosi, come nell’industria cotoniera. Un’incidenza rilevante avevano poi il vaiolo e le malattie gastroenteriche: tifo, paratifo, colera, diarrea, dissenteria60. “Le affezioni gastrointestinali, che costituirono fino all’inizio

del ’900 la seconda grande causa di morte dopo la tubercolosi, colpivano, con esiti letali, soprattutto i bambini: […] originate dall’ingestione di cibi e bevande inquinate, ortaggi concimati con i liquami dei pozzi neri, acqua e latte contaminati da materie fecali, erano strettamente collegate con la situazione primitiva del Paese in fatto di approvvigionamento idrico e infrastrutture igieniche, ossia al fatto che numerosissimi comuni erano privi di qualsiasi sistema di fognature, moltissime abitazioni erano mancanti di latrine, insufficienti erano i servizi di nettezza urbana e solo una minoranza della popolazione poteva contare su acqua potabile di buona qualità” (ibidem).

L’altro male cronico dell’Italia Ottocentesca era la malaria, presente in vaste zone paludose del Mezzogiorno, continentale e insulare, e dell’Italia centrale, ma anche in quelle zone della valle padana coltivate a marcite e risaie61 (ibidem). Le popolazioni delle montagne e delle valli del Piemonte e della

Lombardia soffrivano di alcune specifiche patologie come il gozzo e il cretinismo: “Questi due morbi, derivanti soprattutto dalla carenza di iodio e legati a fattori di degenerazione ereditaria, la cui trasmissione era favorita dall’isolamento delle comunità montane, davano nella fascia alpina un’altissima percentuale di inabili al servizio militare” (ibidem). Per tutto l’Ottocento la mortalità in Italia si attestò, e rimase, su livelli molto elevati, collocando il paese a uno dei primi posti nella classifica europea dei tassi di

59 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in materia di tubercolosi: Cfr. Tabella 13: Interventi parlamenti in

materia di tubercolosi in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 147.

60 Per un approfondimento sugli interventi parlamentari in materia di colera: Cfr. Tabella 14: Interventi parlamenti in materia

di colera in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 148.

61 Luigi Torelli, rappresentante della Commissione Parlamentare Ferroviaria, pubblicava nel 1882 i risultati della sua inchiesta

sulla malaria. “La Carta della malaria dell’Italia presentava in 590 fogli mappali un quadro esatto della situazione: malaria leggera in tutte le valli a nord del Po, grave da Ferrara al Friuli, gravissima da Livorno a Grosseto, a Roma fino alle porte di Napoli, leggera in quasi tutte le altre pianure, vasta zona di malaria gravissima nella pianura del Sele e da Crotone e da Sant’Eufemia a Reggio Calabria, malaria in tutta la Sardegna più grave nei Campidani e nelle zone costiere, malaria gravissima nella pianura di Catania e di Gela e leggera nel resto della Sicilia” (Rai Storia, 2018a). Negli anni in esame vengono effettuati 35 interventi parlamentari riguardo al problema della malaria, per un approfondimento: Cfr. Tabella 15: Interventi parlamenti in materia di malaria in Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 150.

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mortalità. L’alto tasso di mortalità generale era fortemente influenzato dai livelli di mortalità infantile, “negli anni successivi all’unificazione circa la metà dei morti complessivi era costituita da bambini deceduti nei primi 5 anni di vita”62 (ibidem).

L’Italia, alla vigilia dell’unificazione, si presentava come un paese a vocazione essenzialmente agricola63: l’agricoltura contribuiva per circa il 58% del totale alla formazione del prodotto interno lordo

e, secondo i dati della Svimez, circa il 60% della popolazione lavoratrice risultava occupata in agricoltura64 (Pescosolido, 2011). La diversissima situazione delle varie aree agricole del Paese65

62 Tra il 1861 e il 1915 vennero presentati solo tre interventi parlamentari sulla mortalità infantile: il primo nel 1904 da Pierre

Boudin dal titolo La mortalità infantile; il secondo nel 1906 da Emilio Conti Questioni igieniche e sociali: risparmio, cooperazione rurale, socialismo e mortalità infantile; ed il terzo nel 1908 da Francesco Coletti dal titolo La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale della Sardegna.

63 Gli interventi parlamentari in materia di agricoltura dal 1861 al 1915 furono numerosi e relativi a diversi aspetti della vita

agricola italiana. Numerose furono le monografie e diversi furono gli interventi sulle condizioni di vita e di lavoro delle classi agricole e sui vari tentativi di regolazione delle stesse, sulla geologia del territorio, sui sistemi di irrigazione, sulla divisione delle terre demaniali, sul credito agricolo, sullo sviluppo industriale dell’agricoltura, sulla crisi agraria, sugli scioperi e sui contratti di lavoro, sui consorzi e le organizzazioni agricole, sulla riforma agraria, sulle importazioni ed esportazioni, sull’emigrazione della popolazione agricola, sull’agricoltura nelle colonie; per un approfondimento: Cfr. Tabella 16: Interventi parlamenti in materia di agricoltura. Italia 1861-1915 (Fonte: Polo Bibliotecario Parlamentare), Appendice metodologica, p. 153.

64 Dal censimento del 1861 venne rilevato che sui 7 milioni di occupati in agricoltura (su una popolazione totale di 21.600.000

abitanti, senza Lazio e Veneto) risultavano: 1.260.000 piccoli proprietari, 300.000 affittuari, 1.200.000 mezzadri, 33.000 coloni, 2.700.000 braccianti più altri milioni e più di contadini non categorizzabili (Daneo, 1980).

65 Le condizioni naturali del Paese, contrariamente a quanto affermava il luogo comune, non favorivano l’agricoltura. Il

territorio italiano era per due terzi montagnoso ed erano molti gli spazi occupati da terre incolte e terreni paludosi. In tutta Italia la collina rappresentava la zona più prospera e il luogo dove maggiormente si addensava la popolazione, la coltura del gelso e l’allevamento del baco da seta rappresentavano una delle maggiori fonti di reddito. Anche le pendici delle Alpi e degli Appennini vedevano un’alta concentrazione di popolazione raccolta in borghi e paesi, caratterizzati dalla presenza di muri a secco utilizzati per trattenere il terreno e dividere la poca terra disponibile in tanti fazzoletti di terra pianeggianti. “Già dalla seconda metà del ’700 i disboscamenti e le coltivazioni che risalivano i fianchi delle montagne, congiunte alla difficile natura del terreno, spesso dilavato e argilloso, accelerarono la rottura del naturale equilibrio tra le zone destinate al bosco, alla macchia e al pascolo e quelle destinate all’agricoltura” (Rai Storia, 2018a). L’agricoltura italiana era essenzialmente povera. Solo in alcune aree dell’Italia settentrionale, ed in particolare nella Pianura Padana, si erano sviluppate, tra la fine del ’700 e l’inizio dell’’800 le prime forme di aziende agricole moderne, condotte con criteri capitalistici e l’impiego di manodopera salariata, che univano all’agricoltura (la coltivazione del riso era già altamente specializzata) l’allevamento razionale dei bovini. Quest’area rappresentava una zona ristretta in quanto larga parte della pianura nell’Emilia e nel Veneto era ancora caratterizzata da vaste paludi, prevalentemente dislocate nel delta del Po e lungo i litorali adriatici. L’Italia centrale era dominata dalla mezzadria, la terra era divisa in poderi dove le colture cerealicole si mescolavano a quelle arboree (grano, foraggi, vite, olio). Ogni podere produceva il necessario per il mantenimento della famiglia che vi lavorava e per il pagamento del canone in natura dovuto al signore. L’agricoltura toscana si presentava già ricca e moderna grazie all’appoggio di capitali locali e l’affermazione dei prodotti tipici locali sia sui mercati nazionali che esteri. A queste zone prospere, sempre in Toscana, si affiancavano la Maremma e le zone pianeggianti a sud di Siena e di Pisa che erano quasi completamente deserte, ricoperte da paludi o adibite a riserve di caccia. Nel Mezzogiorno e nelle isole l’agricoltura si basava invece sul latifondo caratterizzato da grosse distese di terra per lo più coltivate a grano. Le tracce dell’ordinamento feudale, scomparso solo agli inizi dell’Ottocento, erano ancora presenti nei contratti agrari, basati sullo scambio in natura, e nei rapporti tra signori e contadini, caratterizzati da forti forme di dipendenza. Data la cronica mancanza di acqua le uniche zone fertili erano rappresentate dagli agrumeti etnei, e i vigneti e gli uliveti del barese. Le zone incolte si rivelavano però utili per il ricambio dei pascoli, pastorizia e cerealicoltura rappresentavano le uniche fonti di reddito della popolazione. Tranne che in poche regioni, come ad esempio la Toscana, la grande proprietà era assolutamente assente nella conduzione dei fondi, assumendo un ruolo parassitario e di sfruttamento, e dove non era diffuso il latifondo la proprietà era spesso parcellizzata in minuscoli fazzoletti di terra che in caso di eredità tra più figli venivano ulteriormente suddivisi (ibidem).