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L’indagine sociale: orientamenti tematici e metodologici

CAPITOLO II: DAL DOPOGUERRA AL BOOM ECONOMICO

2. La ripresa degli studi sociali dopo il fasciamo: vecchie e nuove opposizioni

2.1. L’indagine sociale: orientamenti tematici e metodologici

Nell’immediato dopoguerra, dal 1945 al 1950, la sociologia rivolse la sua attenzione ad alcuni temi particolari, indicati da Barbano come: «il riprodursi delle due Italie, Sud-Nord, la questione meridionale, l’eredità antica e la nuova “dipendenza”, la continuità di interessi se non di posizioni sociologiche tra la “prima” e la “nuova” sociologia a proposito della questione del Meridione come questione nazionale» (Barbano, 1985, p. 52). Barbano (1993) rintraccia, inoltre, un’altra linea di continuità con la “prima” sociologia negli studi di sociologia e scienza politica che, se precedentemente si erano concentrati sul

(1998); Rettore (2005) mentre Viterbi (1970) ha tentato la ricostruzione di una bibliografia della sociologia italiana dal 1945 al 1970.

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problema delle classi politiche di governo, nel secondo dopoguerra rivolgono la loro attenzione ai “fenomeni caratteristici della democrazia come l’opinione pubblica e la campagna elettorale come evento politico rilevante” (Barbano, 1993, p. 18). Gli studi di sociologia della politica si indirizzarono soprattutto verso il “problema più democratico della partecipazione” trascurando il “problema della classe politica o dirigente [a livello sia nazionale che locale] come problema strategico per la teoria e la ricerca sociale” (ivi, p. 19). L’assunzione della società come oggetto di indagine in tutti i suoi aspetti “portò a ritenere che i problemi delle istituzioni e dello stato non fossero problemi da fare oggetto di tematizzazione sociologica” (Rei, 1993, p. 99).

Un altro tema che mette in relazione approcci diversi e stimola un forte interesse teorico ed empirico è la questione dello sviluppo su cui “convergono le esperienze di pianificazione promosse, direttamente o indirettamente da Adriano Olivetti, fondate su una concezione del territorio quale elemento terminale di sintesi tra crescita economica, modernizzazione delle strutture e processi di mutamento culturale; quelle della SVIMEZ e dell’Ente Maremma, le quali si orientano principalmente sulla tematica dell’intervento statale nel Sud; quelle, più sparse e variegate, di studio e di ricerca sulla riforma agraria, sulla cultura rurale e sui processi di inurbamento” (Alfonsi, 1993, p. 57). Felice Balbo tentò di fondare la sociologia come scienza dello sviluppo capace di “affrontare il problema generale della direzione dello sviluppo e della trasformazione della società” e contrapposta alla “«deviazione empiristica» della sociologia e delle scienze sociali in genere” come “manipolazione tecnica di condizioni empiricamente date” soprattutto attraverso l’uso della statistica che riduce la sociologia, se considerata unicamente come tecnica di governo o di intervento, a “sostegno ideologico per qualsiasi potere costituito, sia esso capitalistico, sovietico o altro” (Rei, 1993, pp. 89-91). Nel rapporto tra sviluppo sociale e ricerca si inserisce il metodo dell’inchiesta, predominante nei primi anni ’50, non solo come tecnica di indagine ma anche come “risorsa per la costruzione di un rapporto politico. L’inchiesta è vista come censimento dei problemi e individuazione delle risorse potenzialmente atte a rispondervi”173 (ivi, p. 96).

Barbano individua una serie di contributi teorici che negli anni della Rinascita hanno caratterizzato lo sviluppo della disciplina sociologica: i programmi e i piani di lavoro teorico e di ricerca; la discussione sulla sociologia come scienza e come scienza autonoma; la tematizzazione dei rapporti della sociologia

173 Nei primi anni ’50 non vi era nessuna forma di contrapposizione tra inchiesta e ricerca che venivano ritenute attività

connesse tra loro, sul finire degli anni ’50 comincia a farsi strada una netta distinzione tra ricerca sociologica, ricerca sociologica applicata, azione e politica sociale come “attività che […] obbediscono a logiche scientifiche e culturali diverse, e implicitamente si riferiscono a differenti committenti e utilizzatori” (Rei, 1993, p. 98). Tale distinzione nasce dall’esigenza di fondazione teorico scientifica della sociologia e viene accompagnata dallo sviluppo di un orientamento sociologico pratico- applicativo “capace di influire sui decisori politici ed economici e di avere ricadute sulla programmazione sociale e territoriale” (ibidem).

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con le altre scienze sociali; i rapporti tra teoria e ricerca sociale; l’analisi sociale; il passaggio dal dualismo fatto-idea, tipico delle posizione idealiste del positivismo, alle dualità fatto-struttura e fatto- valori sociali; l’evoluzione dell’analisi del rapporto tra teoria e ricerca sociale da problema scientifico a problema storico; l’americanismo, nei termini di uno sviluppo autonomo o meno della sociologia in Italia; la questione del rapporto letteratura-sociologia e sociologia-letteratura non solo come problema di generi ma anche di fonti; i rapporti della sociologia con la filosofia e altri ambiti della cultura italiana come il marxismo e la tradizione cattolica (Barbano, 1985, pp. 53-54). Negli anni ’50 maturò un bisogno nuovo delle forme di sapere sociologico in un contesto in cui la sua immagine e le sue prospettive erano ancora molto incerte a livello non solo istituzionale ma anche intellettuale e culturale: si può dunque affermare che, chi in quegli anni decideva di dedicarsi a questi studi lo faceva o per scelte molto determinate o per vera e propria vocazione (Barbano, 1985).

La ricerca sociale nell’immediato dopoguerra si concentrò in larga misura sugli studi di comunità174 ossia

inchieste, monografie e analisi di singoli comuni o aree territoriali, cui si affiancarono, alla fine degli anni ’50, se pur in maniera estremamente minore, studi sulle città, tra cui riscosse notevole interesse il caso del Piano regolatore d’Ivrea, l’iniziativa era di Adriano Olivetti, che, a partire dagli stabilimenti di Ivrea, indusse un’industrializzazione distribuita sul territorio circostante dell’Eporediese, salvaguardandone le caratteristiche senza produrre conflittualità (Barbano, 1985). Nell’ambito del Piano regolatore di Ivrea, tra il 1951 e il 1952, venne svolto uno studio di comunità sulla Serra d’Ivrea, in particolare nel paese di Magnano, diretta dal sociologo americano Paul Campisi, affiancato da un gruppo di collaboratori full time – G. Bellone, M. Talamo e L. Berti – ed un gruppo di collaboratori part time, tra cui Barbano, che lo ricorda come una “esperienza davvero insolita e rara per quei tempi, della quale rammarico solo due cose, che il Campisi non abbia mai reso un rigo del copioso materiale raccolto; e che sia involato senza restituirmi tre preziosi volumi del Manuale dell’inchiesta sociale del Padre Lebret” (Barbano, 1993, p. 18). Barbano (1985) indica come testo emblematico della ricerca sociologica di quel periodo il lavoro di Antonio Carbonaro e Angelo Pagani, Introduzione alla ricerca sociologica del 1958. Si può affermare che la “sociologia meridionalista è stata, insieme con la democrazia e lo sviluppo sociale, una delle ragioni della rinascita della sociologia negli anni cinquanta” e “la prima ad applicare collaborazioni e metodi interdisciplinari tra sociologi, economisti, antropologi, psicologi, urbanisti,

174 Lo studio di comunità rappresentava un approccio consolidato nelle scienze sociali classiche con un solido impianto

teorico-metodologico e un’ampia possibilità di impiego. Nell’esperienza degli studiosi stranieri in Italia questo è stato utilizzato come “analisi globale delle caratteristiche della comunità” considerata come “un micro-sistema culturale ed economico” a sé stante “separata dal più vasto «mondo» in cui interagisce” (Benadusi, 1993, pp. 76-77).

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medici etc.” (ivi, p. 21). A legare i diversi approcci non è solo l’assunzione del “problema Mezzogiorno come questione centrale e strutturale della società italiana” ma il riconoscimento della necessità di una peculiare conoscenza scientifica indispensabile per indagare “la globalità della condizione di arretratezza […]. Il carattere globale – storico nel senso più ampio del termine – del sottosviluppo richiede un tipo di conoscenza non ingabbiata dai tradizionali confini disciplinari o limitata da letture unilaterali (soprattutto economicistiche) del fenomeno” (Amendola, 1993, p. 102). L’assunzione della questione meridionale come nodo storico del sottosviluppo dell’intera società italiana “comporta non solo un tipo di approccio globale e non settoriale ma anche un nuovo tipo di relazione tra conoscenza e prassi, tra scienza e politica” (ibidem). I vari studiosi che si dedicano al problema, eterogenei per composizione disciplinare e percorsi di vita, “cercano tutti di rompere la gabbia della propria disciplina per capire [ed agire]” alla ricerca di apparati teorici e metodologici innovativi: “ricerca storica, tecniche sociometriche, storie di vita, analisi dei bilanci famigliari ed aziendali, prospezioni geologiche” (ivi, pp. 104-105). È in questo clima che soprattutto in Basilicata si trovano a lavorare fianco a fianco economisti agrari, come Manlio Rossi Doria, Gilberto Marselli e Rocco Scotellaro; psicologi, come Lidia De Rita; antropologi, come Ernesto de Martino e Tullio Tentori; architetti come Ludovico Quaroni. Sul problema classico della tradizione meridionalista del rapporto città-campagna, è visibile più che altrove l’“eclettismo del meridionalismo sociologico che mette insieme Carlo Cattaneo e Carlo Levi, gli stimoli dei primi sociologi nordamericani come Friedman e Peck giunti in Italia per studiare la società meridionale, l’antropologia storica di De Martino, l’igiene e la medicina sociale espressa da originali e preziosi personaggi a cavallo tra le diverse discipline come Rocco Mazzarone” (ivi, p. 105). Mentre, a tentare un intreccio pratico tra conoscenza e proposta politica “sono Dorso, Salvemini e Rossi Doria” (ibidem). Gilberto Marselli parla di una “netta contrapposizione” nella ripresa degli studi sociologici nel Secondo dopoguerra tra gli intellettuali settentrionali e meridionali: “Mentre, […] i settentrionali ritennero, in genere, più proficuo riallacciare gli interrotti rapporti con il resto del mondo ripercorrendo i vari approcci teorici e, quindi, cercando di reinserirsi nel dibattito che, a livello internazionale non si era mai interrotto, noi meridionali, invece, fummo più stimolati a cercare delle risposte concrete da dare ai vari problemi che il Mezzogiorno […] veniva ponendo ogni giorno di più, a vari livelli istituzionali. Da ciò […] la nostra preferenza per le ricerche empiriche piuttosto che per l’approfondimento teorico e per la rivisitazione dei grandi maestri” (Marselli, 1993, p. 139).

Negli anni ’50 la sociologia inizia ad intessere legami sempre più profondi con il mondo dell’impresa e con gli enti locali, acquisendo dalla pratica nuove conoscenze e risorse interpretative, ma il problema disciplinare interno della questione metodologica, che accompagna tutta la storia della sociologia

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italiana, ostacola la sua diffusione non solo come disciplina ma anche come cultura sociale (Siza, 1993; Barbano, 1993). Come evidenzia Siza: “Sono gli anni dello sviluppo delle applicazioni sociali della sociologia, anni nei quali i pochi sociologi esistenti sono stati investiti da compiti e da domande applicative di notevole ampiezza. Ma sono anche gli anni in cui la sociologia si interroga profondamente sulla sua identità disciplinare, ridefinisce il significato della sua presenza sociale e i termini del suo rapporto con la società e i suoi problemi” (Siza, 1993, p. 201). In questo decennio la sociologia si afferma come pratica professionale e si sviluppa principalmente in ambiti non accademici attraverso un’attività di ricerca applicata “tesa nel Nord ad umanizzare il lavoro operaio, a promuovere un’organizzazione scientifica del lavoro, a modernizzare la società; nel Sud al superamento dell’arretratezza e della miseria contadina” (ivi, p. 203).