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1.3 Le origini del conflitto centro-periferia

1.3.2 Il decentramento territoriale del potere

Nell’ambito delle analisi riguardanti le trasformazioni economiche, politiche e sociali, che hanno investito e che stanno trasformando le società contemporanee, alcuni studiosi, come già accennato in precedenza, hanno preferito parlare di ‘glocalizzazione’ anziché di globalizzazione [Robertson cit. in Bauman, 2005; et al.]. Questo termine ben rappresenta l’insieme di forze estensive e forze intensive, di dinamiche volte all’allargamento e dinamiche orientate al decentramento, di sintesi e di ampliamento. In particolare, esso indica un processo che racchiude due dinamiche contrapposte: quella della globalizzazione e quella della localizzazione. Come già evidenziato nel precedente paragrafo, un aspetto della localizzazione è costituito dalla rinascita e dal rafforzamento delle identità territoriali locali, rappresentate politicamente dai partiti nazionalisti. Connesso a questo fenomeno vi è quello del decentramento dei poteri operato, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, dalla maggior parte degli stati europei occidentali. Per decentramento dei poteri si intende il processo tramite il quale gli stati attribuiscono competenze e poteri, precedentemente appartenenti ai governi centrali, alle entità territoriali regionali e sub-statali. Esso spesso viene indicato col termine di regionalizzazione, anche se, nella realtà, esistono diverse forme di decentramento del potere. Proprio per la specificità delle vicende storiche e delle tradizioni, più o meno

radicate, di autonomia territoriale, gli stati sono ricorsi a modelli diversi di organizzazione e di funzionamento dei vari livelli di governo. Alcuni hanno introdotto modelli ispirati o coincidenti con il federalismo, altri con la devolution e altri ancora con la regionalizzazione. Per ragioni di semplificazione si userà il termine generico di ‘regionalizzazione’, al fine di indicare “un insieme di riforme con le quali il potere centrale dello stato trasferisce competenze e funzioni a strutture periferiche” [Caciagli, 2003: 11].

I fenomeni del nazionalismo sub-statale e della regionalizzazione, sono tra loro strettamente legati da un reciproco e bidirezionale rapporto di causa ed effetto. Infatti, in alcuni contesti, le rivendicazioni dei partiti, espressione dei gruppi territoriali, hanno favorito l’attuazione di riforme regionali, mentre in altri sono state le politiche regionali promosse dall’alto a favorire una politicizzazione della questione territoriale, creando, spesso dal nulla, sentimenti di appartenenza territoriale.

Da ciò discende l’impossibilità di generalizzare, stabilendo quale fenomeno sia precedente rispetto all’altro. A tal riguardo, Keating [1995: 2], per esempio, considera la regionalizzazione e il nazionalismo sub-statale come due aspetti del medesimo fenomeno. Infatti, l’autore utilizza le espressioni di “top-down regionalism” per indicare le politiche regionali introdotte dagli stati e di “bottom-up regionalism” in riferimento alle diverse forme di mobilitazione regionale politica ed economica. Quello che sembra si possa affermare con certezza è che entrambi i processi si rafforzano reciprocamente e che costituiscono una caratteristica di quasi tutti i contesti statali europei occidentali. Il processo di decentramento territoriale raggiunge il suo culmine negli anni Ottanta e Novanta e oggi rappresenta la regola e non l’eccezione [Caciagli, 2003: 9]. Infatti, non è possibile non riconoscere come “la progressiva ed inarrestabile globalizzazione e comunitarizzazione delle economie abbia rappresentato una formidabile spinta a favore del ‘rafforzamento’ dei poteri locali, proprio in risposta a quel senso di ‘insicurezza’ e di pericolo provocati dall’agire in una ‘società-mondo’” [Chieffi, 2003: 16]. Sebbene il fenomeno della regionalizzazione conosca un’accelerazione negli anni Ottanta, non si può non ricordare come, già negli anni Sessanta le regioni fossero considerate come uno degli elementi di modernizzazione dello stato [Keating, 1998: 12]. La scelta di alcuni governi europei di introdurre politiche regionali derivava soprattutto da esigenze di carattere funzionale e dalla necessità di attuare una migliore e completa gestione dell’intero territorio statale. “In molti stati, notoriamente in Francia, Italia e Gran Bretagna, la regione emerse negli anni Sessanta come uno spazio di azione dello stato.

Le disparità territoriali erano riconosciute come un problema (anche se marginale) all’interno delle politiche macro-economiche dell’era Keynesiana, per altri versi di successo, e la regione era scelta come il livello appropriato al quale indirizzarle” [Keating, 1998: 12]. Altri stati avevano cominciato ad usare le politiche regionali al fine di attribuire delle concessioni, seppur minime, alle minoranze territoriali, caratterizzate da particolarità linguistiche o culturali.

Tuttavia, le prime riforme, operate in questo senso, erano state introdotte principalmente in virtù del miglioramento funzionale dello stato e al fine di attuare in maniera omogenea le politiche provenienti dal potere centrale. Esse costituivano “[…] un’estensione degli schemi di pianificazione nazionale e settoriale” [Keating, 1995: 2]. Tali politiche erano funzionali soprattutto al rafforzamento della legittimità e dell’unità degli stati. Infatti, esse favorivano le regioni periferiche e depresse attraverso la crescita economica, avvantaggiavano quelle economicamente sviluppate, perché creavano un ambiente più competitivo e favorivano lo stato in generale, in quanto accrescevano la produttività generale [Keating, 1995: 2].

È a partire dagli anni Settanta che il conflitto centro-periferia si politicizza maggiormente. Al declinante impegno dei governi nazionali nell’introduzione di politiche regionali, corrisponde un rafforzamento dei nazionalismi sub-statali. Infatti, se i governi centrali tendono a dare priorità al mantenimento e allo sviluppo del grado di competitività delle loro economie all’interno del mercato mondiale, riducendo le risorse disponibili necessarie ad equilibrare il rendimento delle diverse regioni, vecchi e nuovi nazionalismi sub-statali politicizzano maggiormente le loro richieste. Sin dagli anni Ottanta, dunque, la maggior parte degli stati europei occidentali introduce politiche volte alla regionalizzazione, con l’intento politico di attribuire maggiori poteri e funzioni agli enti sub-statali. Keating [2009b] sottolinea come, negli ultimi decenni, in quasi tutti i contesti statali, in particolare in quelli territorialmente più ampi, ma anche in molti di quelli dalle dimensioni più ridotte, sia emerso un “nuovo o meta-governo regionale”. Naturalmente, esistono ragioni specifiche e relative ad ogni contesto statale che spiegano questo fenomeno, ma è possibile riscontrare degli elementi generali e comuni a quasi tutte le esperienze di regionalizzazione.

Secondo Keating [2009b], il primo fattore riguarda la necessità di gestire e riconoscere la diversità nazionale. In molti stati, le rivendicazioni di carattere nazionale, provenienti da territori delimitati ed interni ai confini statali, si sono accresciute e rafforzate nel tempo, sfidando in maniera sempre maggiore il potere centrale. Un altro fattore è la differenza economica tra i diversi territori interni ai confini statali. Se, in precedenza,

c’era un approccio di tipo top-down alla gestione delle disparità economiche tra regioni, che implicava l’implementazione, da parte dello stato, di politiche di sviluppo regionale, negli ultimi decenni il modo di affrontare la questione è radicalmente cambiato. Infatti, “di fronte alla globalizzazione, lo stato non può più mantenere l’equilibrio territoriale attraverso politiche di sviluppo regionale o di diversione territoriale. Allo stesso tempo è ampiamente riconosciuto che lo sviluppo economico e l’inserimento dei territori nell’economia mondiale attualmente dipendono da specifiche caratteristiche territoriali” [Keating, 1998: 16]. Proprio per queste ragioni, in quasi tutti gli stati si è cercato di valorizzare le risorse e i fattori interni ad ogni contesto regionale, rafforzando la competizione tra le diverse aree e introducendo politiche regionali decentrate. Un’altra ragione risiede nell’esigenza statale di alleggerire il proprio carico burocratico, attraverso la devoluzione a favore delle entità regionali di funzioni che precedentemente venivano svolte dai governi centrali. Anche la riforma del welfare state ha portato ad includere il livello regionale nell’organizzazione e nella gestione dei servizi di carattere sociale [Keating, 2009b].

Il rafforzamento dei poteri e degli organi regionali è stato visto come un supporto alla modernizzazione, all’efficienza dello stato e alla governance democratica. Infatti, si è sostenuto che il decentramento favorisce la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica e il miglioramento del funzionamento delle strutture democratiche, in quanto consente l’attivazione di un meccanismo di checks and balances tra i vari livelli di governo; accresce l’efficienza delle funzioni statali, proprio perché gli organi decentrati, essendo più vicini al territorio, hanno anche una maggior conoscenza del contesto in cui intervenire; rafforza il sentimento di identificazione dei cittadini con lo stato di appartenenza; protegge le minoranze e favorisce un uso più appropriato delle risorse economiche [Cugusi e Stocchiero, 2003: 2].

Le regionalizzazione, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, ha quindi caratterizzato la politica di molti stati europei occidentali. “Gli stati minori sono rimasti finora i più restii ad abbandonare la struttura unitaria, probabilmente proprio per le loro ridotte dimensioni. Gli stati più grandi, per estensione territoriale o per dimensione demografica, hanno proceduto più o meno celermente a realizzare riforme regionali e federali. Il cammino è stato e continua ad essere pieno di ostacoli. Quand’anche fosse compiuto dovunque, la convergenza non porterebbe all’uniformità, essendo troppe le differenze di carattere storico, istituzionale e culturale fra gli stati europei. Quello che conta è registrare questa tendenza che non ha fatto altro che rafforzarsi e che non sembra reversibile” [Caciagli, 2003: 19]. Al di là degli stati federali, come la Germania

o l’Austria, i casi più evidenti ed emblematici sono quelli del Belgio, della Spagna, dell’Italia, della Francia e della Gran Bretagna.

Il Belgio, per esempio, già nel 1963, introdusse una politica che, per la prima volta, segnava l’esistenza di un confine linguistico interno allo stato. Nel 1971, poi una riforma costituzionale riconosceva l’esistenza delle tre Regioni della Vallonia, delle Fiandre e di Bruxelles, e di tre comunità linguistiche. Tuttavia, è proprio negli anni Ottanta, che sono state introdotte una serie di riforme che hanno accelerato il processo di decentramento, fino a giungere al riconoscimento formale e costituzionale dello stato federale nel 1993.

In Spagna l’inizio del decentramento territoriale dei poteri corrisponde al passaggio dal regime franchista, che aveva forzatamente annullato ogni forma di autonomia regionale, alla democrazia. È con l’introduzione della Costituzione nel 1978 che si riconoscono formalmente le tre “nazionalità storiche” della Catalogna, del Paese Basco e della Galizia, nonché di altre 14 Comunità Autonome. Questa politica, però, non ha condotto al superamento della questione territoriale e del relativo conflitto centro-periferia, alimentato soprattutto dai partiti nazionalisti. Ancora oggi, il riconoscimento delle nazionalità e l’assegnazione di ulteriori competenze agli organismi sub-statali, costituiscono le questioni principali della politica spagnola.

Anche in Italia, sebbene già tra il 1947 e il 1963, fossero stati introdotti, per ragioni geografiche o linguistiche, gli statuti speciali per la Sicilia, la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige, è a partire dalla fine degli anni Settanta e soprattutto nel corso degli anni Ottanta e Novanta, che la questione regionale si afferma all’interno della politica italiana, giungendo a coinvolgere tutte le forze politiche. Attualmente, nonostante l’introduzione di riforme che hanno attribuito ulteriori competenze e poteri alle regioni, la questione del decentramento rimane di fondamentale importanza.

Le riforme di regionalizzazione non sono state introdotte soltanto in quei paesi che avevano una tradizione in questo senso, ma anche in quelli che, da sempre, si sono distinti per il loro elevato livello di centralismo.

In Gran Bretagna, per esempio, ha prevalso a lungo una politica favorevole al centralismo. Tuttavia, anche in questo caso, la riforma della devolution, avvenuta alla fine degli anni Novanta, ha attribuito alla Scozia e al Galles un certo livello di autonomia e diverse competenze.

La Francia è sempre stata considerata come il modello quasi perfetto dello stato-nazione unitario, centralizzato ed omogeneo. Nel periodo compreso tra il 1981 e il 1983, però,

sono state introdotte politiche volte al decentramento, che hanno condotto alla nascita di 22 Regioni metropolitane. Anche in questo contesto si è quindi diffusa una cultura maggiormente favorevole alla distribuzione dei poteri lungo i diversi livelli di governo. In altri stati dalle dimensioni territoriali più ristrette, come il Portogallo, i Paesi Bassi, la Grecia, i Paesi Scandinavi o l’Irlanda, il processo di regionalizzazione non ha ancora raggiunto il medesimo sviluppo che nei casi precedenti, ma anche in questi contesti sono state avviate riforme che hanno riconosciuto maggiore autonomia agli enti sub- statali. Secondo Caciagli [2003] le maggiori difficoltà incontrate da questi Paesi nella strada del decentramento dipendono sia da caratteristiche politico-istituzionali, che da alcune tradizioni. In primo luogo, quasi tutti questi stati hanno ridotte dimensioni territoriali e demografiche, quasi tutti sono omogenei dal punto di vista linguistico, culturale e religioso. Alcuni di essi hanno una lontana origine storica di stato unitario, mentre altri hanno conquistato l’unità territoriale in seguito a complicate vicende storiche. Nonostante questi fattori che hanno rallentato i processi di decentramento, “[…] anche in questi stati unitari, nello scorcio di fine secolo, le riforme regionali hanno fatto la loro comparsa in maniera più o meno pressante sull’agenda politica” [Caciagli, 2003: 53].

In conclusione la regionalizzazione, soprattutto in seguito alle rivendicazioni dei nazionalismi sub-statali e dei partiti rappresentanti le minoranze etnico-territoriali, in pochi decenni ha avanzato rapidamente, modificando l’assetto tradizionale di molti stati europei e trasformando le regioni stesse in ‘spazi’ territoriali, funzionali e politici [Keating, 1998: 18-22] , dotati di poteri sempre maggiori.

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