Organigramma del BNG
1979 1984 1989 Federazione Union
3.5 La mutevolezza della strategia
3.5.1 La Lega al governo tra identità e competizione
Nel periodo tra il 1989 e il 1993 la Lega Nord era riuscita, attraverso un’ulteriore rielaborazione del leghismo, a superare i ristretti confini del localismo e a sollevare la questione settentrionale. Aveva raggiunto questo obiettivo collegando le specificità del Nord alla protesta contro l’intero sistema politico italiano, ritenuto come realtà inefficiente ed immobile, e proponendosi come agente di rinnovamento e trasformazione, che avrebbe condotto la parte settentrionale del Paese a rivestire il ruolo di motore oltre che economico, anche politico. Questo tipo di strategia le aveva consentito di allargare la sua base sociale ed elettorale, superando gli originari confini geografici ed estendendosi, sebbene non con lo stesso radicamento delle regioni d’origine, anche in zone storicamente caratterizzate da altre e spesso opposte appartenenze politiche [Diamanti, 1996: 66]. Questo ciclo espansivo, che sembrava impossibile da interrompere, si sarebbe arrestato, però, a partire dal 1994. Secondo Diamanti [1996, 67-69], due erano le principali ragioni che spiegavano il regresso del processo espansivo della Lega. In primo luogo, il leghismo così come formulato in quegli anni non riusciva a trovare sostegno nelle molteplici realtà del Settentrione. Infatti, la drammatizzazione del conflitto con gli altri soggetti politici, comunicata tramite un linguaggio aggressivo e a tratti violenti, irrigidiva l’immagine del partito, impedendole di ricevere il supporto e la fiducia degli strati sociali più moderati, i quali aspiravano al cambiamento, ma anche alla stabilità e alla certezza. Inoltre, proprio al fine di segnare una chiara divisione tra un Nord virtuoso ed uno Stato inefficiente e corrotto, la Lega tendeva a privilegiare una logica di opposizione ad una logica costruttiva. In altre parole, essa si limitava ad esacerbare il conflitto e a rappresentare la
crisi ed il malessere relativo alle inadempienze dello Stato, senza avanzare proposte costruttive e realmente praticabili. La questione settentrionale, così come sollevata dal partito, veniva semplificata eccessivamente, impedendo una rappresentazione delle varie ed eterogenee richieste dell’area settentrionale, che era tutt’altro che uniforme. Come si è visto in precedenza, la mancanza di un’articolazione più complessa del leghismo era dovuta all’assenza di una tradizione intellettuale di riferimento e all’egemonia di Bossi, che attraverso una leadership carismatico-personalista, impediva la visibilità di altri soggetti, che come Miglio, avrebbero potuto elaborare una dottrina più completa ed accettabile da parte di un elettorato più ampio. Proprio per queste ragioni, essa risultava “[…] accettabile come veicolo di voice, ma poco utile e affidabile in quanto effettivo soggetto di modernizzazione, in quanto fattore di regolazione dei processi territoriali” [Diamanti, 1996: 68].
Il secondo motivo che contribuiva a spiegare l’inizio del declino del leghismo era da rintracciarsi nei cambiamenti avvenuti nel sistema partitico italiano. Inizialmente la Lega, grazie all’assenza di competizione, aveva attirato il consenso di molti elettori che erano rimasti delusi dai loro partiti di appartenenza e che nello stesso tempo auspicavano un cambiamento generale. Questa capacità, però, veniva indebolita dall’emergere di altri partiti, come per esempio Forza Italia, che, tramite argomenti più convincenti, riusciva ad elaborare un’offerta politica più realistica, altrettanto innovativa e capace di soddisfare sia i ceti medi moderati, che il mondo professionale, della comunicazione e della finanza. Tutto questo riportava la Lega all’originario localismo, interrompendone il processo di ampliamento verso l’intero Settentrione [Diamanti, 1996: 67-69].
Paradossalmente, l’inizio del declino del partito e del suo ridimensionamento coincideva proprio con la breve esperienza di governo, iniziata con le elezioni del 1994 e durata soltanto un anno. Le ragioni di ciò erano da attribuire sia alla scelta di formare un governo con partiti centralisti e sia a quella opposta di determinare la caduta del governo a distanza di un anno. Bossi, infatti, in questo modo, deludeva sia i militanti più radicali, che quei membri più favorevoli ad una normalizzazione del partito e al compromesso con le altre forze politiche.
In primo luogo Bossi decideva di allearsi con due partiti, ovvero quello di Forza Italia e quello di Alleanza Nazionale, che, già soltanto per le loro denominazioni, confliggevano nettamente con l’identità della Lega Nord. In particolare, Forza Italia poteva essere definito come un partito “aterritoriale” [Diamanti, 1996: 70], mediatico, personale
[Calise, 2007], nonché aziendalista, che faceva del mercato e dei consumi gli elementi centrali del suo discorso politico [Diamanti, 1996: 70]. Alleanza Nazionale, invece, rappresentava proprio il polo opposto alla Lega. Esso, infatti, era il partito post-fascista, che incentrava la sua ideologia sugli elementi tradizionali della destra, come, per esempio, la patria e lo stato unitario. Inoltre, aveva la sua solida base elettorale e sociale nel Sud del Paese e si riferiva soprattutto al ceto medio impiegatizio, che per la Lega costituiva parte di quei settori improduttivi e dipendenti dall’assistenza dello Stato. In questo contesto di alleanze, l’identità della Lega veniva totalmente smentita e i suoi fondamenti si dimostravano piuttosto deboli ed illusori. Infatti, in primo luogo, diventava impossibile per il partito realizzare o anche soltanto sostenere in maniera credibile il suo progetto politico basato sul federalismo alternato alla secessione, sulla contrapposizione al Sud e favorevole ai settori produttivi del Settentrione. Se veniva meno la legittimità del fondamento territoriale, scompariva d’altro canto anche la sua immagine di partito di protesta e di innovazione. Esso, infatti, si ritrovava a collaborare proprio con i partiti di ambito statalista, che, sebbene nuovi come Forza Italia, o in qualche modo rinnovati come Alleanza Nazionale, erano il simbolo del centralismo e conseguentemente di tutti i mali e i problemi, che esso aveva così tanto retoricamente esacerbato. Da partito di protesta, che aveva fatto della lotta al sistema centrale e del nazionalismo sub-statale i suoi riferimenti cardinali, la Lega si ritrovava ad amalgamarsi con quelle forze politiche che tanto aveva condannato, perdendo così la sua natura movimentista. In sostanza, la presenza al governo con due alleati, espressione del centralismo statale, ne indeboliva la sua immagine e la sua identità, allontanandolo da quello che era il suo modello originario.
Proprio per il timore di perdere il supporto dei tradizionali sostenitori e per dimostrare il mantenimento dell’identità del partito, Bossi avrebbe adottato una particolare strategia, finalizzata a legittimare una così inconsueta decisione. Nel primo raduno successivo alle elezioni del 1994, avvenuto come di consueto presso Pontida, il luogo simbolico nella mitologia nazionalista della Lega, si legittimava la scelta del partito di entrare nella coalizione di governo attraverso il ricorso a temi che garantivano il mantenimento dei fondamenti identitari del leghismo e tramite l’uso della simbologia tradizionale. In particolare, Bossi, proponeva un discorso che era finalizzato a far leva sui sentimenti popolari e di identificazione della sua platea, composta dai leghisti più convinti, e manteneva perciò temi rivoluzionari e di protesta. La ragione per cui la Lega doveva entrare nel governo era, secondo il leader, quella di ottenere la riforma riguardante il
federalismo e di controllare il suo stesso principale alleato, ovvero Berlusconi. Inoltre, proprio per non essere amalgamati dalle altre forze politiche, la Lega avrebbe dovuto mantenere il suo carattere rivoluzionario. In realtà, la decisione di partecipare al governo era stata già adottata, ma tramite questo tipo di discorso e chiedendo ai suoi seguaci di partecipare alla scelta relativa alla possibilità di far parte del governo, Bossi dimostrava ai militanti l’importanza del loro ruolo nell’attività del partito. In tale contesto, poi, erano presenti i soliti simboli nazionalisti come, per esempio, la riproduzione della statua di Alberto da Giussano o le banconote leghiste [Tambini, 2001: 66-68]. Il discorso pronunciato da Bossi e la simbologia tradizionale servivano per rafforzare il sentimento di identificazione dei leghisti in un momento in cui le scelte competitive configgevano con l’identità originaria del partito. Tuttavia, questo tipo di discorso si sarebbe dimostrato insostenibile, in quanto la breve esperienza di governo sarebbe stata completamente fallimentare. Non soltanto la proposta di federalismo della Lega sarebbe stata nettamente marginalizzata, ma non sarebbero state introdotte nemmeno riforme in altri settori, a causa delle continue contrapposizioni interne alla stessa coalizione di governo. Infatti, la principale preoccupazione del leader della Lega, essendo relativa alla possibilità di indebolimento dell’identità del partito, lo conduceva a criticare ed ostacolare i suoi partner di coalizione, in particolare il leader di Forza Italia.
Accanto alle lotte interne alla coalizione emergevano, in maniera sempre più evidente, le divisioni interne alla stessa Lega. In particolare, la principale divisione era tra coloro che aspiravano a riforme costituzionali e territoriali radicali, finalizzate al raggiungimento dell’autonomia e coloro che, invece, si dimostravano favorevoli a collaborare con i partner di governo, anche in relazione ad altre questioni. Tra questi ultimi, rientravano la maggior parte dei deputati eletti, molti dei quali erano stati nominati direttamente dai segretari nazionali, ovvero i leader delle altre leghe regionali, e che non soltanto avevano una scarsissima esperienza politica, ma soprattutto non avevano seguito la lunga procedura di militanza all’interno della Lega. Proprio per questa ragione, molti deputati della Lega non soltanto erano favorevoli a stringere maggiormente l’alleanza con le altre forze politiche della coalizione, ma il loro livello di fedeltà al partito era alquanto ridotto, visto che si dimostravano particolarmente suscettibili alle proposte di adesione a Forza Italia, formulate da Berlusconi stesso [Tambini, 2001: 71].
In sostanza, la strategia di essere forza di governo, ma nello stesso tempo, di agire contro i partner di coalizione, adottata dal leader della LN, si dimostrava eccessivamente debole. Essa, infatti, non soltanto non riusciva a mobilitare il seguito più radicale, ma nello stesso tempo, incontrava l’opposizione di quanti, invece, auspicavano la normalizzazione del partito. In tal modo, emergevano i limiti della legittimità della leadership di Bossi, che, al contrario di un leader carismatico, si ritrovava con una membership divisa e non pienamente disposta a seguirlo in tutte le sue scelte politiche. Proprio al fine di mantenere il suo potere, Bossi, nel giugno del 1994, allontanava dal partito il leader della Liga Veneta, Franco Rocchetta, che aveva espresso, più volte, forti critiche riguardo alla gestione personalista del potere. Tuttavia, le divisioni erano molto più ampie e ciò era dimostrato dalla volontaria scissione di un piccolo gruppo di deputati, guidati da Gipo Farassino, leader della Lega Piemontese. I tentativi di Bossi di ristabilire l’unità sarebbero falliti inesorabilmente.
Proprio per tali difficoltà, Bossi avrebbe adottato una nuova strategia, finalizzata a rinforzare l’identità del partito, distinguendolo dai suoi partners di coalizione, che, nel dicembre del 1994, lo avrebbe condotto a determinare la caduta del governo. Ancora una volta, però, tale decisione non incontrava il pieno supporto della sua membership. Infatti, il gruppo che era sempre stato a favore dell’attività di governo si sarebbe opposto a questa decisione, allontanandosi dal partito o avanzando dure critiche, mentre i nazionalisti estremisti erano difficilmente raggiungibili, in quanto non soltanto erano delusi dell’attività di governo che avrebbe dovuto condurre all’attuazione di riforme territoriali, ma avevano perso anche alcuni dei principali referenti della linea politica più estrema del partito, come Miglio o Rocchetta.
Dall’analisi della breve esperienza di governo della Lega, emergono chiaramente due fattori, che riguardano la sua strategia politica e la natura del potere di Bossi. In riferimento alla strategia politica adottata dal partito emerge chiaramente un conflitto tra la logica dell’identità e quella della competizione. Infatti, se la scelta di entrare nel governo era chiaramente espressione di una logica della competizione, quella di condurre una politica di opposizione rispetto agli altri attori della coalizione e quella di porre fine all’esperienza governativa erano il chiaro riflesso della volontà di riavvicinarsi all’identità originaria del partito. Tuttavia, l’effetto di questo conflitto non era altro che la perdita della credibilità e del rendimento del partito, che, alla fine del 1994, si ritrovava con una membership ridotta e divisa e con un elettorato notevolmente più circoscritto. Infatti, come sottolinea Diamanti, la Lega diventava nuovamente
espressione del localismo, tipico delle zone pedemontane, perdendo di fatto la priorità di unico interprete politico delle istanze del Nord [Diamanti, 1996: 70]. Il secondo elemento su cui è necessario riflettere riguarda la leadership di Bossi. Quest’ultimo, negli anni precedenti era riuscito, grazie alla sua precedente attività di “negoziatore e conciliatore” [Ansell e Fish, 1999], ai successi elettorali, all’ampliamento della base sociale del partito, e alla retorica sulla necessità della coesione interna, a monopolizzare il potere, diffondendo, all’interno del partito e all’esterno di esso, l’immagine di un capo la cui legittimazione discendeva dal fatto di essere “il creatore e il predicatore” [Harmel e Svåsand, 1993]. Questo era avvenuto, nonostante egli, in realtà, non avesse costruito dal nulla il progetto politico della LN, né tantomeno avesse introdotto un’innovativa dottrina politica. Inoltre, attraverso una certa ambivalenza dei temi politici espressi era riuscito a consolidare la fiducia dei suoi membri, ad allargare la base sociale e a favorire una maggiore organizzazione del partito. Tuttavia, in quest’ultima fase, emergeva la debolezza della legittimità del suo potere, che non dipendeva soltanto dall’identificazione dei suoi sostenitori con la sua figura o il suo messaggio politico, quanto soprattutto dai successi elettorali e dal progressivo sviluppo e consolidamento del leghismo in aree più ampie rispetto a quelle originarie. L’esperienza di governo, che aveva determinato scissioni e divisioni interne, dimostrava come il suo potere e la sua influenza non fossero veramente infallibili. In particolare, il leader non riusciva a completare la fase di stabilizzazione del partito, quella che, secondo Harmel e Svåsand, nei partiti carismatici soft è successiva a quelle di identificazione e di organizzazione. Nell’ultima fase che conclude il processo di istituzionalizzazione di un “entrepreneurial issue party”, il leader, infatti, deve comportarsi come lo stabilizzatore e il moderatore, in maniera tale da trasmettere un’immagine di credibilità sia all’interno dell’organizzazione che all’esterno di essa [Harmel e Svåsand, 1993]. Nel caso della Lega, Bossi riusciva a favorire l’ingresso del partito in una coalizione di governo, ma, questa volta, adottando una strategia che ondeggiava tra il riformismo e la protesta, perdeva sia la fiducia dei suoi partner di coalizione che di parte dei membri del partito, parlamentari e semplici militanti. Ciò dimostrava quanto effettivamente la leadership di Bossi non potesse essere definita perfettamente carismatica, proprio perché il legame degli aderenti al partito non era indissolubile, né la fiducia nel leader totalmente irrazionale, ma dipendente da risultati elettorali e politici concreti.