Organigramma del BNG
1979 1984 1989 Federazione Union
3.3 La Lega Nord
3.3.2 La ricostruzione dell’identità collettiva nel discorso politico della Lega Nord (1989-1993)
Nello stato nascente del leghismo, quando ancora non si era formato il partito unitario della Lega Nord, la Lega Lombarda e gli altri movimenti autonomisti avevano cercato di costruire un’identità collettiva basata su un’idea di nazione coincidente con i confini regionali. Il tentativo di inventare, tramite il ricorso a improbabili fattori etnici o culturali, l’esistenza di piccole ‘nazioni’, corrispondenti alle regioni ordinarie della Lombardia, del Veneto e del Piemonte, si dimostrava insostenibile, sia per la sua infondatezza storica, sia per le divisioni che creava tra i diversi movimenti autonomisti. Inoltre, anche il ricorso al dialetto costituiva un fattore limitante per la crescita e il radicamento del movimento, in quanto non soltanto esso non era parlato dalla maggioranza dei residenti in quelle regioni, ma creava anche un’immagine dei partiti localista e decisamente folkloristica [Biorcio, 1991-92: 52]. Proprio per queste ragioni, si è visto come già dalla fine degli anni Ottanta, le tre Leghe e, in particolare, la Lega Lombarda avessero mantenuto questi temi, ma, nello stesso tempo, avessero dato maggiore spazio all’altro fondamento del discorso leghista, ovvero la protesta contro lo Stato e contro il Meridione.
Con l’inizio degli anni Novanta, la proposta della Lega Lombarda, che conduceva alla creazione della Lega Nord, implicava un ulteriore cambiamento dei discorsi politici. In primo luogo, il riferimento alle regioni era troppo riduttivo per un partito che tentava di consolidarsi in tutta l’area settentrionale del Paese. Il problema principale che sorgeva dal riferimento alle singole regioni era l’impossibilità di mantenere un discorso politico unitario e coerente e di ricadere in divisioni interne, che avrebbero condotto all’indebolimento del partito stesso. In questo periodo, infatti, l’obiettivo principale diventava quello del coordinamento e dell’unità. Per queste ragioni, si passava dalla costruzione di un’identità regionale a quella di un’identità del Nord, abbandonando il “localismo” a favore del “nordismo”, ovvero uno “ […] schema rivendicativo e culturale valido a rappresentare i problemi e le domande dell’intero Nord. Sintomo e premessa della ‘questione settentrionale’” [Diamanti, 1996: 56]. Questo passaggio implicava la sostituzione del soggetto collettivo, rappresentato inizialmente dal popolo lombardo, veneto o piemontese, con una comunità costituita da più regioni, accomunate dalla stessa cultura, basata su valori tipici delle popolazioni nordiche ed europee e differente da quella del Sud. In particolare, ciò che univa le popolazioni presenti nella zona compresa tra le Alpi e la Valle del Po erano tre elementi: “l’unità spaziale
regionale; una tradizione economica basata su un’agricoltura ricca e su un’industria attiva, che comprendeva sia grandi gruppi industriali che industrie di mezza misura; una storia simile sin dalle antiche città libere fino alla culla e alle origini del Regno Italiano (tramite il dominio e/o l’influenza intermediaria Austriaca)” [Poche, 1991-92: 77]. È evidente che questa rielaborazione dell’identità territoriale non implicava la perdita del riferimento agli elementi culturali, storici e in parte etnici della fase primordiale, ma comportava piuttosto una loro estensione dalle singole regioni all’intero Nord. Anche in questa fase, infatti, era di fondamentale importanza il revisionismo storico. Il riferimento all’evento della battaglia di Legnano del 1176, già utilizzato dalla Lega Lombarda, continuava ad essere valido anche con riferimento all’intero Nord. Infatti, non bisogna dimenticare che la Lega medievale altro non era che un’alleanza di venti città del Nord. Pertanto “se negli anni Ottanta la Lega Lombarda poteva essere un mito per la Lombardia soltanto (la Lega medievale era guidata dalla Lombardia), la transizione alla Lega Nord (un’altra ‘alleanza per la libertà’ secondo la Lega) poteva usare la stessa mitologia e lo stesso simbolismo senza alcuna contraddizione” [Tambini, 2001: 119]. A questo riferimento poi si aggiungeva l’esaltazione delle presunte origini celtiche delle popolazioni settentrionali rientranti nella Repubblica Cisalpina i cui confini erano tracciati dalla Linea Gotica Padana. Quest’ultimo tema non faceva altro che favorire il superamento delle precedenti costruzioni del Piemonte, della Lombardia e del Veneto come regioni-nazioni distinte e valorizzare i loro elementi comuni [Tambini, 2001: 119].
Il tentativo era, dunque, quello di “[…] facilitare l’identificazione del Nord come entità politica attraverso un percorso cumulativo di identificazioni su entità territoriali di scala inferiore” [Donegà, 1994: 124]. La sostituzione dell’entità territoriale di riferimento non era certo automatica. Se nella fase regionale si erano incontrati problemi legati alla difficoltà di “[…] conferire significato ad un’entità territoriale, la regione, troppo ampia e differenziata per poter essere oggetto di esperienza diretta” [Donegà, 1994: 124], nella fase del nordismo le difficoltà di rendere il Nord come soggetto politico collettivo si accrescevano in quanto, proprio perché realtà composita ed eterogenea e privo di una legittimazione e di una memoria storico-culturale, esso risultava come una “[…] entità tutto sommato marginale nell’immaginario collettivo” [Donegà, 1994: 124]. La sfida che la Lega doveva affrontare nel rendere credibile il suo messaggio politico, tanto da generare una mobilitazione degli elettori appartenenti a quelle regioni, era quella di trovare dei temi condivisi che potessero accomunare “[…] il Nord metropolitano della
grande industria e dei beni immateriali con il localismo delle zone di piccola impresa” [Diamanti, 1996: 60]. Proprio per questa ragione non bastava la mitologia e la simbologia, ma era necessario far leva su quei problemi che venivano percepiti come reali da ampi strati del Nord. La Lega riusciva a realizzare tale progetto, intrecciando temi economici, di autonomia e di protesta contro lo Stato centralizzato e il sistema partitico. Ancora una volta, alla valorizzazione del territorio di riferimento corrispondeva la critica e la denigrazione del sistema politico e del resto del territorio italiano. In primo luogo, l’elemento centrale alla base della costruzione della nuova identità collettiva veniva rintracciato negli interessi economici. Proprio per questa ragione la Lega si faceva promotrice di un modello economico liberista, che avrebbe permesso alle imprese del Nord una crescita maggiore. A questo, conseguentemente, corrispondeva l’esaltazione dell’Europa, vista come naturale sbocco per le attività economiche e come rappresentazione dei valori dell’efficienza, del lavoro e dell’individualismo, e pertanto simile al Nord produttivo, caratterizzato dalle cosiddette origini celtiche, contrapposta, invece, all’Italia dominata da una burocrazia inefficiente e da uno Stato diretto dalla partitocrazia e assistenziale nei confronti del Sud. È interessante notare che, in questa fase, non si parlava più tanto dei meridionali, trattati precedentemente come un gruppo etnico, quanto piuttosto del Sud inteso come “riflesso dell’inefficienza dello Stato centrale e della degenerazione dei partiti tradizionali” [Diamanti, 1996: 63].
Più in generale, la Lega si proponeva come forza protettrice dei settori produttivi del Nord. Questo implicava una forte opposizione alle forme di regolazione sociale, attuate da uno stato dominato dai partiti tradizionali, colpevole di aver praticato, tramite una forma di “socialismo strisciante” [Pioli cit. Poggio, 1991-92: 154], un controllo sul Nord, impedendogli così un libero e pieno sviluppo delle sue potenzialità economiche [Poggio, 1991-92: 154]. Oltre allo stato e ai partiti nazionali, i nemici contro cui combatteva la Lega erano tutti coloro che potevano minacciare la ricchezza delle regioni del Nord. Pertanto, se l’avversione contro i meridionali si era trasformata in opposizione contro il Sud più in generale, venivano introdotte altre categorie, considerate pericolose per il Nord in quanto improduttive, come, per esempio, gli immigrati provenienti da Paesi non appartenenti alla Comunità europea. La definizione degli esterni alla comunità del Nord e, quindi, degli stranieri poteva basarsi sulla provenienza, ma anche sulla professione esercitata o su eventuali comportamenti devianti. Ciò che accomunava tutti questi soggetti e li racchiudeva nella categoria dello “straniero pericoloso” era la
loro presunta improduttività. Emergeva, dunque, una sorta di “razzismo fondato […] esclusivamente su indicatori di status” [De Luna, 1994: 59]. In sostanza, la LN proponeva il cosiddetto “cerchio delle ostilità” formato dagli stranieri, dal Meridione, dal ceto politico, dai devianti rispetto alle norme sociali e in cui si trovava rinchiuso il popolo del Nord [Biorcio cit. in Diamanti, 1993: 120]. “Al solito si trattava di argomentazioni che appartenevano quasi al senso comune, ad una spontaneità diffusa in tutto il corpo sociale leghista. La mediazione dell’organizzazione le ridefiniva in termini di programmi politici facendo del razzismo un elemento politicamente intenzionale che tendeva a farlo apparire ‘come se fosse un carattere tipico e normale di una certa comunità’, per utilizzarlo consapevolmente nella costruzione del consenso elettorale” [De Luna, 1994: 59].
L’insieme di queste tematiche, ovvero di liberismo, contrapposizione Nord/Sud, razzismo di status collegato ad un individualismo egoista, metteva in pratica una “forma specifica di territorializzazione della cittadinanza”, che conduceva alla definizione di una “cittadinanza dei produttori”, in principio non escludente, ma che stabiliva selettivi criteri di inclusione a favore di quanti non costituissero un costo per la collettività produttiva [Donegà, 1994: 102].
La concentrazione sui temi economici, però, non deve far dimenticare che nei discorsi politici della LN, comunque, si ritrovava una matrice culturale ed etnica, non apertamente dichiarata, ma ancora non del tutto superata. Infatti, i superiori valori del Nord e la maggiore propensione al lavoro della sua popolazione, dopotutto erano ricollegati alle origini storiche e ai fattori culturali. La stessa sostituzione nel campo dei nemici degli immigrati, rispetto ai meridionali, era in qualche modo automatica, proprio perché la cultura del Sud in generale veniva associata a quella dell’Africa [Tambini, 2001: 101]. Pertanto, sebbene non venisse realizzato un discorso apertamente etnico, la simbologia e i richiami culturali non facevano altro che alimentare le credenze in supposte differenze invalicabili.
Da questa costruzione dell’identità collettiva, realizzata tramite l’oramai consueto ricorso alle categorie di amico/nemico, produttività/improduttività, indipendenza/subordinazione, individualismo/collettivismo, derivava la formulazione di una riforma dell’assetto territoriale e costituzionale dello stato italiano. La proposta, che veniva avanzata in questo periodo dalla Lega era quella del “federalismo integrale”, alternata alle minacce secessionistiche. Quest’alternanza gli permetteva di tenere unito
il suo elettorato composito e di presentarsi, a volte, come forza politica affidabile e moderata e, talvolta, come movimento di protesta, fedele alla sua identità originaria. Le basi teoriche del disegno federalista proposto dalla LN sono da rintracciare nel pensiero di quello che, per un breve periodo, è stato considerato l’ideologo del partito, ovvero il professore universitario Gianfranco Miglio. Quest’ultimo, già prima della collaborazione con il partito, iniziata nel 1990 e terminata nel 1994, aveva sviluppato una riflessione teorica federalista, che, in verità, come sottolinea Gangemi [1996: 141- 142, 173], si era contraddistinta per una certa ambiguità. Infatti, nel suo pensiero erano riconoscibili almeno due fasi: la prima in cui il concetto di regionalismo e quello di federalismo venivano fatti coincidere, la seconda in cui, invece, il federalismo e il confederalismo diventavano sinonimi. Quest’ambiguità già presente nel pensiero di Miglio si rifletteva e si accresceva nel progetto politico-costituzionale della Lega, che naturalmente era decisamente più elementare e malleabile. Il partito, infatti, ricorrendo alla proposta di Costituzione Federale Provvisoria di Miglio, si faceva portavoce di una riforma federalista che avrebbe dovuto condurre l’Italia alla divisione in tre macroregioni, rappresentate dalla Repubblica del Nord o Padania, la Repubblica del Centro o Etruria e la Repubblica del Sud o Mediterranea. A queste tre macroregioni andavano poi aggiunte le regioni a statuto speciale.
Attraverso la proposta delle tre Repubbliche, la Lega ipotizzava che anche nel Sud potessero nascere dei movimenti federalisti e, in alcuni momenti, si era addirittura fatta promotrice di un loro possibile sviluppo, al fine di tentare l’allargamento dell’ambito di riferimento del partito dal Nord all’intero Stato italiano. Non a caso, lo stesso Bossi aveva cercato di stringere legami con i movimenti autonomisti, già esistenti nelle altre regioni italiane, come per esempio in Sardegna o in Sicilia e, nel 1993, avrebbe addirittura annunciato l’intento di voler modificare la denominazione del partito in Lega Italia Federale. Questi tentativi sarebbero falliti inesorabilmente. Infatti, al di là dei problemi organizzativi indicati dal partito, la concomitante campagna di denigrazione verso il Sud, che, nonostante gli intenti di crescita elettorale e anche se con un’enfasi minore, continuava ad essere mantenuta, impediva alla Lega di trovare sostegno nelle regioni del Mezzogiorno [Tambini, 2001: 55-61]. Infatti, come ricorda lo stesso Bossi, nel 1991, il suo tentativo di organizzare un meeting elettorale a Catania, in Sicilia, era stato fronteggiato da una folla che lo accusava di razzismo [Bossi cit. in Tambini, 2001: 61]. Questi tentativi di allargare la base elettorale erano poi sostenuti dal tentativo di mostrare un atteggiamento più moderato e pacato rispetto al passato. Tambini, infatti,
sottolinea che “durante i primi anni Novanta la Lega Nord raggiunse una nuova rispettabilità, tenendo a freno gli elementi estremi e pubblicizzando gli individui più gradevoli del movimento” [Tambini, 2001: 58]. A questi momenti di apparente moderazione, però, facevano da contraltare frequenti e alternati episodi di estrema radicalità, in cui emergeva nuovamente il linguaggio aggressivo e le minacce di secessione, necessario strumento di pressione per la rivendicazione di altre questioni in campo economico ed istituzionale. Era, in sostanza, un alternarsi tra un discorso politico maggiormente condivisibile anche dall’elettorato più moderato ed utile per accrescere le dimensioni del partito, e un progetto rivoluzionario capace di soddisfare le richieste dei militanti nordisti più agguerriti. Lo stesso concetto di federalismo, nei primi anni Novanta, veniva percepito dalla maggioranza della popolazione come un progetto dissolutore e non riformista. Questa percezione diffusa non era smentita dalla Lega, che anzi non chiariva il concetto di federalismo, lasciandolo nella più assoluta ambiguità, facendone “[…] una parola-chiave tanto più utile, quanto più evocativa del malessere nei confronti dello stato centrale e della conseguente volontà di ‘alleggerirlo’” [Diamanti, 1996: 64].