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Organigramma del BNG

3.2 Le origini del movimento leghista

3.2.2 La Lega Lombarda come specchio politico del localismo

Nei primi anni di vita, la Lega Autonomista Lombarda, successivamente Lega Lombarda, era poco più che un ristretto movimento politico, che traeva ispirazione dai movimenti autonomisti presenti nelle altre regioni, caratterizzati da un maggior consolidamento e da una più complessa organizzazione. In questo periodo “[…] la demeridionalizzazione della Lombardia, la difesa e la valorizzazione del dialetto erano riferimenti generici, condivisi da un’opinione diffusa che stentava a tradursi in mobilitazione e protagonismo collettivo, ripetendo gli schemi di una protesta localista fine a se stessa” [De Luna, 1994: 45]. La stessa organizzazione era ristretta a pochissimi aderenti. In sostanza “prima del 1987 la Lega Lombarda era praticamente sconosciuta anche all’interno della Lombardia” [Piccone, 1991-92: 9]. Nonostante la debolezza iniziale, durante tutto il decennio, la Lega Lombarda si sarebbe radicata maggiormente nel territorio regionale, giungendo ad essere il motore del processo di unificazione dei tre movimenti.

Nella prima fase, corrispondente, dunque, all’inizio degli anni Ottanta, la Lega Lombarda, su imitazione degli altri movimenti, concentrava il proprio discorso politico su rivendicazioni di tipo etno-nazionaliste. In altre parole, la regione era definita come nazione e i lombardi come gruppo etnico, con particolari caratteri culturali, linguistici e storici, che ne formavano un’identità distinta rispetto al resto della popolazione italiana. Nel Programma del 1982, infatti, si sosteneva: “per la riaffermazione della nostra cultura, storia, della lingua lombarda, dei nostri valori sociali e morali. Contro ogni attentato alla identità nazionale lombarda” [Programma 1982 cit. in Parenzo e Romano, 2008: 28-29].

Nei primi anni, dunque, la costruzione dell’identità collettiva veniva realizzata attraverso il ricorso ad elementi etnici e culturali propri di coloro che appartenevano ed erano originari di un territorio i cui confini naturali coincidevano con quelli della regione. Quello che prevaleva erano soprattutto gli elementi “primordiali” o “irrazionali” alla base del nazionalismo espresso dal partito [Tambini, 2001: 117]. Questo tipo di nazionalismo etnico ed escludente riusciva ad attecchire e a trovare sostegno soltanto in quelle aree caratterizzate dalla prevalenza del lavoro agricolo o

operaio e con una scarsa dinamicità più che economica, culturale e sociale. Caratteristiche, dunque, dei primi sostenitori della Lega Lombarda, erano un forte senso di comunità, che spesso gli impediva di accettare le trasformazioni e di aprirsi alla diversità, e un radicamento territoriale, che gli garantiva la sicurezza del quotidiano e del conosciuto. “Il loro attaccamento al territorio era rivolto a uno spazio controllabile in quanto oggetto di esperienza diretta e personale; in quello spazio, la convivenza, una particolare cultura e sub-cultura sviluppatevisi, gli interessi comuni, erano più che sufficienti a far nascere una forma peculiare di solidarietà e d’identità collettiva tali da legare effettivamente le persone a quel territorio e a quella popolazione più che ad ogni altra” [De Luna, 1994: 47]. Si trattava, in sostanza, di una forma radicata di localismo, che, negli anni precedenti, aveva trovato espressione e consolidamento nella sub-cultura bianca, rappresentata dal partito della DC. Una volta che il ruolo dei tradizionali partiti di massa iniziava ad indebolirsi, sarebbe stato il leghismo a rendere il localismo una vera e propria ideologia [Diamanti, 1996: 48].

Il localismo comportava soprattutto la valorizzazione delle caratteristiche della ristretta comunità di appartenenza, come le tradizioni, la lingua e la cultura, nonché una fiducia nelle proprie potenzialità e nel disconoscimento del valore degli esterni alla comunità stessa. Era, dunque, una forma di solidarietà comunitaria molto chiusa, da cui si sviluppavano sentimenti di rancore e protesta, sia contro i non appartenenti alla comunità (inizialmente i meridionali, poi anche gli extra-comunitari) e contro i partiti, che, in quella fase di iniziale crisi del sistema partitico italiano, erano visti come attori lontani dalle esigenze e dagli interessi delle comunità locali [De Luna, 1994: 47]. In realtà, ancora nella fase iniziale, gli strumenti della Lega Lombarda nella mediazione politica del localismo erano esigui ed elementari. Tuttavia, come sottolinea Diamanti, venute meno alternative politiche ritenute credibili, la Lega cominciava a funzionare come “ ‘veicolo’ di comunicazione efficace” [Diamanti, 1996: 44]. Essa aveva adottato una politica povera di contenuti e prevalentemente difensiva, comunicata tramite un linguaggio aggressivo semplice ed efficace, basato su contrapposizioni stereotipate ed invettive contro coloro che fossero esterni al territorio regionale e che venivano indicati come minaccia per gli interessi della comunità. Più precisamente i primi programmi della Lega Lombarda erano espressione di una forma elementare di nazionalismo sub- statale radicale ed escludente. Essi, infatti, proponevano la trasformazione dello stato Italiano in uno Stato confederale, necessario per il riconoscimento dell’autonomia se non dell’indipendenza della “nazione” lombarda e per la valorizzazione dei valori e

delle caratteristiche culturali della sua popolazione. Inoltre, attribuivano alle piccole comunità, non soltanto una particolare efficienza amministrativa, ma anche la capacità di esprimere valori superiori rispetto a quelli incarnati dallo stato italiano. Infine, si esaltava la vita rurale, contrapponendola a quella delle metropoli e si proponeva l’imposizione fiscale, un sistema pensionistico e scolastico su base regionale [Programma politico 1982-1983 cit. in Tambini, 2001: 42; De Luna, 1994: 48]. Tali proposte erano quindi orientate alla valorizzazione e alla protezione della comunità locale. A questo si aggiungeva l’uso del dialetto, elemento simbolico fondamentale per la costruzione dell’identità collettiva e per il rafforzamento dei legami solidaristici interni. Proprio per queste ragioni, la Lega cominciava a funzionare come “specchio” di alcuni tratti diffusi in una parte della regione [Diamanti, 1996: 45]. Ma soprattutto essa cominciava ad avere sostegno perché portava alle estreme conseguenze ed amplificava alcuni elementi del localismo, attribuendogli una validità politica.

Come è evidente, già dal principio, si può riscontrare la prevalenza di temi legati a quelle che Donegà [1994: 116] definisce come “costellazioni di concetti”, ovvero, “l’istanza territoriale e l’antagonismo verso il sistema politico”. Tuttavia, nei primi anni, all’interno delle questioni territoriali, prevaleva il ricorso alla prospettiva etnica e culturale. Questa caratteristica, sebbene fosse di fondamentale importanza per creare dal nulla un’identità collettiva, però, impediva al partito di ampliare la sua base sociale. Non a caso, infatti, dalla fine degli anni Ottanta la Lega Autonomista Lombarda, trasformatasi nel 1986 in Lega Lombarda, adottava una nuova strategia politica. Essa manteneva sempre le tematiche originarie, ma le interpretava in maniera differente, attribuendo maggiore spazio alla dimensione di protesta ed anti-sistemica, rafforzando le invettive contro i vecchi e i nuovi nemici esterni, e indebolendo il riferimento a caratteri culturali ed etnici di tipo ascrittivo.

Il motivo principale per cui si attuava un simile spostamento di enfasi su alcune tematiche dipendeva dalla difficoltà di evitare di cadere in ripetute contraddizioni, a causa dell’invenzione e della reinterpretazione forzata di avvenimenti storici. Secondo Donegà, questo tipo di sviluppo, che era evidente anche negli altri due movimenti autonomisti, ma che era pensato e guidato dalla Lega Lombarda, costituiva “la presa d’atto dell’impraticabilità di un discorso etnicista in regioni nelle quali la mobilità della popolazione e le dinamiche di sviluppo avevano da tempo rimescolato il tessuto sociale e le identità locali” [Donegà, 1994: 121]. Per questa ragione, il riferimento al territorio, i cui confini coincidevano ancora con quelli regionali, non veniva meno, ma accanto alla

cultura e alla tradizione come elementi costitutivi della solidarietà tra i soggetti appartenenti alla comunità, si affiancava la “comunanza di interessi” [Donegà, 1994: 121]. “Più precisamente si afferma una relazione che vede tradizioni e cultura entrare in funzione di rappresentazione simbolica dell’idea dominante che ora è rappresentata dalla difesa degli interessi regionali. Il passaggio dalla regione-nazione alla regione- ‘comunità di interessi’ non è banalmente il passaggio dall’etnicità agli interessi. È, invece, il passaggio a una relazione in cui, grazie agli interessi, le tradizioni e le culture regionali si presentano come un ambito di scelta culturale e non come un’appartenenza ab origine” [Donegà, 1994: 121]. Questa trasformazione permetteva al partito di modificare il proprio nazionalismo che, dall’estremo etnico ed esclusivo, si avvicinava maggiormente al polo del nazionalismo civico ed inclusivo. L’appartenenza alla comunità lombarda, quindi, non era più di tipo naturale ed originaria, ma traeva origine dalla condivisione di interessi comuni e dalla capacità di acquisizione di quelli che erano considerati i caratteri della comunità, come la laboriosità e l’intraprendenza. Questo permetteva di includere nella comunità anche persone che non erano lombarde per nascita, ma che vi lavoravano da tempo e che, di conseguenza, avevano acquisito i caratteri tipici di quella regione. Come è evidente, però, sebbene i caratteri culturali e civici dei lombardi potevano essere acquisiti, essi, comunque, rimanevano il risultato di vicende e di miti storici che continuavano ad essere rielaborati dal partito. Per esempio la stessa denominazione del partito, che da Lega Autonomista Lombarda si era trasformato in Lega Lombarda continuava ad essere legato al mito della Lega Lombarda di epoca medievale. Il riferimento era all’avvenimento storico della battaglia di Legnano del 1176, in cui venti città del Nord Italia, guidate da Alberto da Giussano, si erano ribellate all’imperatore Federico Barbarossa. Anche lo stesso simbolismo medievale, introdotto nei primi anni e presente negli slogan, nelle canzoni e più in generale nel repertorio dei militanti, rimaneva presente negli incontri del partito [Tambini, 2001: 118]. In altre parole, rispetto alla fase precedente, non erano cambiati tanto i temi, quanto piuttosto la loro relazione.

Inoltre, per rafforzare l’identità dei lombardi era necessario estremizzare il contrasto con l’esterno ed enfatizzare la contrapposizione con quelli che erano considerati i nemici della comunità. Proprio per questo motivo, sia la protesta contro lo stato che contro il Mezzogiorno d’Italia acquisiva, nei discorsi politici dei leghisti, una rinnovata importanza. Infatti, lo stato centrale veniva identificato con il parassitismo e l’inefficienza, nonché con la minaccia agli interessi dei lombardi, che, al contrario, si

distinguevano per l’operosità e il senso civico. Fondamentale, in questo caso, era il tipo di comunicazione politica utilizzata dal partito. Essa era semplice, diretta e aggressiva basata su slogan facili da ricordare ed emblematici nel significato, come quello di “Roma ladrona”, che appariva sui volantini e sui muri delle località lombarde [Tambini, 2001: 40]. L’antimeridionalismo era a sua volta collegato con l’anti-statalismo. Infatti, la discriminazione nei confronti dei meridionali non era realizzata tramite riferimenti a presunte differenze etniche, quanto attraverso il ricorso a divergenze legate ai comportamenti e ai valori civici. I meridionali erano considerati come il simbolo della pigrizia, della lentezza, della dipendenza e della scarsa laboriosità. In sostanza, si riprendevano stereotipi culturali, che, con grande abilità politica, venivano resi credibili e veritieri. Le due opposizioni allo Stato e al Sud si rafforzavano vicendevolmente. Infatti, lo Stato era additato come il responsabile del mantenimento economico delle regioni del Sud, a scapito delle regioni produttive del Nord, cui da tempo venivano sottratte risorse. Anche in questo caso, sebbene tale concezione non fosse sostenuta da spiegazioni etniche o biologiche, era presente una particolare legittimazione storica. Infatti le ragioni di una superiorità civica della Lombardia e più in generale del Nord rispetto al Sud venivano rintracciate nella differente dominazione esterna che, storicamente, aveva interessato le diverse zone dello stato italiano. La Lombardia e il Nord venivano considerati come civicamente più avanzati perché si sosteneva che la dominazione Austriaca avesse favorito il radicamento dei valori di efficienza e di laboriosità, contrariamente al Sud, che, dominato dai Borboni, avrebbe sviluppato atteggiamenti e comportamenti totalmente opposti [Tambini, 2001: 118].

Come spiegato egregiamente da Donegà, è evidente che, nella fase di consolidamento del partito, il discorso politico subiva una trasformazione. Esso diventava maggiormente strutturato ed elettoralmente credibile. Infatti, nella definizione dell’identità regionale, gli elementi culturali non scomparivano, ma erano affiancati dagli interessi economici, capaci di giustificare la protesta contro lo stato, il sistema politico tradizionale e il Meridione [Donegà, 1994: 122].

L’emancipazione del discorso leghista da un etnicismo esclusivo, poco credibile e totalmente infondato, permetteva alla Lega Lombarda di allargare la sua base sociale di riferimento. Accanto al nucleo sociale originario si affiancavano gradualmente altre categorie sociali, appartenenti anche alla piccola e media borghesia urbana.

In sostanza, in meno di un decennio, il movimento leghista aveva creato e già reinterpretato un’identità e un’appartenenza, riuscendo ad ampliare la sua base sociale

ed ottenendo, nel 1987, rappresentanza nel Parlamento Italiano, attraverso l’elezione di Giuseppe Leoni alla Camera dei Deputati e di Umberto Bossi al Senato. C’è da sottolineare, però, che la Lega Lombarda, in questa fase, era ancora poco più che un movimento politico, scarsamente considerato dagli avversari politici e debolmente organizzato. Nonostante ciò, è fondamentale e illuminante per la successiva analisi del partito della Lega Nord ricordare i principali criteri organizzativi alla base della Lega Lombarda. Lo Statuto registrato nel 1986 prevedeva alcuni organi: il Consiglio federale, il segretario nazionale e la presidenza. Tuttavia, già da questo momento, gli organi, così come riconosciuti formalmente, avevano un ruolo soltanto simbolico. Infatti, il potere effettivo apparteneva ai soci ordinari, che venivano scelti personalmente dal leader indiscusso Umberto Bossi. Essi, infatti, erano gli unici all’interno del partito ad avere diritto di elettorato attivo e passivo. Nei ranghi più bassi della gerarchia, invece, si ritrovavano due categorie: quella dei soci militanti e quella dei simpatizzanti. “Il passaggio degli iscritti attraverso i tre stadi, simpatizzanti, soci militanti e soci ordinari, costituiva un vero e proprio percorso iniziatico che si snodava attraverso livelli sempre più esclusivi di fedeltà assoluta al capo” [De Luna, 1994: 49]. Tale visione era espressamente riconosciuta da Bossi, il quale sosteneva che tale sistema consentiva di rafforzare il movimento contro i nemici esterni e garantiva l’impossibilità di intrusioni di avversari, volte a disgregare il partito [De Luna, 1994: 49].

Se la Lega Lombarda era nata in seguito agli altri movimenti regionalisti, apparendo anche come la forza politica e sociale più debole, alla fine degli anni Ottanta, era il partito politico che, di lì a poco, avrebbe guidato il processo di mobilitazione politica del Nord. Le ragioni di tale affermazione devono essere ritrovate sia nel nazionalismo espresso dal partito che nella sua strategia politica e comunicativa. Esso, secondo Diamanti [Diamanti, 1996: 45], aveva avuto la capacità di proporsi come strumento di pressione, di antagonismo e di protesta nei confronti dei partiti tradizionali e dello stato italiano in generale, ma anche l’abilità di estremizzare alcuni tratti specifici della società lombarda, facendo diventare le specificità delle differenze insormontabili. La proposta della Lega si configurava sempre più come una “‘religione civile’” [Diamanti, 1996: 46]. In essa venivano enfatizzati e quasi sacralizzati “ […] i valori caratterizzanti della cultura localista: il laburismo, l’imprenditività, l’identificazione nel contesto locale e la domanda di autonomia rispetto allo Stato, la riluttanza verso le trasformazioni sociali troppo forti, come quelle sottese all’urbanizzazione; ma anche l’avversione per la sinistra, l’anticomunismo (alternativa storica al ‘localismo bianco’)” [Diamanti, 1996:

46]. Essa, quindi, si proponeva come interprete delle paure generate dalle trasformazioni che avevano investito la società, risultando maggiormente credibile rispetto ai tradizionali partiti, perché nuova, ma, allo stesso tempo, appartenente a quel territorio, che chiedeva di rappresentare. Era al contempo “strumento di denuncia” e “specchio” di alcuni tratti tipici di una comunità legata dal localismo [Diamanti, 1996: 45].

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