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Organigramma del BNG

3.1 Brevi cenni sul sistema politico italiano nel secondo dopoguerra

3.1.2 Il declino delle sub-culture e la politicizzazione del territorio

L’affermazione del leghismo in Italia, avvenuta a partire dalla metà degli anni Ottanta, deve essere allora collocata in un contesto politico che stava subendo notevoli trasformazioni rispetto al passato, in cui, al contrario, aveva prevalso un’apparente stabilità. Esso, in particolare si sarebbe sviluppato in quelle regioni in cui negli anni precedenti si era consolidata la sub-cultura bianca e dove la DC aveva ottenuto i suoi maggiori consensi.

In particolare, il leghismo faceva il suo ingresso in quelle aree del profondo Nord, appartenenti alla fascia pedemontana, periferiche rispetto alle aree urbane e caratterizzate dal “localismo” [Diamanti, 1996: 19]. Con quest’ultimo termine Diamanti si riferisce non soltanto ad un tipo di dinamismo economico proprio di alcuni contesti locali, ma anche ad un sistema di valori culturali, espressione di una “sorta di ‘spirito del micro-capitalismo” [Diamanti, 1996: 31]. In queste zone, la DC in passato aveva ricoperto il ruolo di “partito dello sviluppo e della comunità locale”, l’attore politico che ne garantiva la tutela dell’identità e degli interessi di fronte a coloro che erano esterni ad essa [Diamanti, 1996: 34-35]. Il ruolo della DC, così come degli altri partiti di massa, fu messo in crisi dalle trasformazioni socio-economiche che, soprattutto negli anni Ottanta, mutarono i caratteri della società italiana, nonché dagli scandali di corruzione.

Le principali trasformazioni erano legate, secondo Diamanti, all’affermazione di una neo-borghesia che si dimostrava molto più rivendicativa nella richiesta di rappresentanza e nella tutela degli interessi; alla pluralizzazione del contesto associativo, che se da un lato incrementava l’integrazione locale, dall’altra alterava il carattere assoluto di quei legami con i referenti tradizionali come la Chiesa e l’identificazione con i relativi valori universali. Il processo di secolarizzazione, inoltre, indeboliva le identità tradizionali e spingeva alla ricerca di nuovi referenti identitari, e il processo di globalizzazione favoriva l’emergere di una reazione di localizzazione [Diamanti, 1996: 34-38]. I partiti tradizionali si dimostravano incapaci di far fronte a tali trasformazioni e inoltre la fiducia dei cittadini nella loro capacità di rappresentanza politica veniva minata dagli scandali di corruzione che li avevano investiti. Il leghismo beneficiava di tale situazione, in quanto si proponeva come interprete della crisi e dei sentimenti dell’anti-politica e offriva ai cittadini nuove identità, slegate da referenti ideologici e fondate direttamente sul territorio. In particolare, le tre leghe autonomiste introducevano nella politica italiana il conflitto centro-periferia, fino ad allora totalmente messo in ombra dal conflitto ideologico.

La capacità del leghismo di irrompere nella vita politica italiana non era dovuta soltanto al fatto di dar vita ad un movimento di protesta, ma anche all’abilità nel sollevare questioni legate a rivendicazioni di tipo nazionalista sub-statale, nonostante in quei territori in cui si insediava, fosse del tutto assente una tradizione culturale, letteraria o politica in tal senso. Tali movimenti, infatti, nascevano nelle regioni del Veneto, della Lombardia e del Piemonte, che non avevano una tradizione nazionalista o autonomista. In assenza di tale tradizione, soprattutto nella fase iniziale, le leghe avrebbero utilizzato strumentalmente sia l’esperienza dei movimenti etno-territoriali, presenti storicamente in altre regioni, sia la tradizionale differenza economica tra il Nord e il Sud del Paese. Sebbene in Italia, come appena evidenziato, il conflitto politico si fosse incentrato lungo il cleavage ideologico, non erano mancati dei conflitti centro-periferia. Essi, però, generalmente erano stati mediati dai partiti nazionali [Della Porta, 2002: 146]. Questi ultimi avevano risposto agli interessi territoriali tramite meccanismi organizzativi interni, come per esempio “la cooptazione delle élite regionali o la redistribuzione mirata delle risorse”, oppure tramite una divisione dei ruoli su base territoriale, che permetteva a ciascuno di essi di stabilire rapporti privilegiati con alcune aree specifiche e di mostrarsi come interprete degli interessi e dei valori delle relative comunità [Biorcio, 1997, cit. in Della Porta, 2002: 147]. I principali conflitti erano emersi in

alcune regioni che effettivamente presentavano dei caratteri etnici, culturali o anche geografici differenti rispetto al resto del territorio italiano. Esse erano: la Sicilia, la Sardegna, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta, cui nel 1963 si era aggiunto il Friuli-Venezia Giulia. In Sicilia e Sardegna erano presenti movimenti autonomisti già da un periodo precedente. Infatti, il movimento secessionista in Sicilia si era già formato a partire dagli anni Quaranta, mentre in Sardegna il Partito Sardo d’Azione era attivo già dal 1921 e aveva progressivamente assunto posizioni federaliste. In Trentino Alto Adige le rivendicazioni autonomiste erano legate soprattutto alla presenza di una minoranza tedesca, rappresentata dal partito, sorto nel 1945, del Südtitoler Volkspartei. In Valle d’Aosta le richieste secessioniste provenivano dalla minoranza di lingua francese. Infine, in Friuli Venezia Giulia erano presenti sia Friulani che Sloveni.

Tali questioni erano state affrontate già con la redazione della Costituzione del 1948, in cui a tali regioni si riconosceva un regime di specialità, legato proprio alle peculiarità etniche e geografiche, nonché alle pressioni provenienti dai movimenti autonomisti. Al di là del movimento indipendentista siciliano, che sarebbe scomparso negli anni Cinquanta e Sessanta, gli altri movimenti avrebbero continuato a formarsi e a persistere all’interno di queste regioni anche successivamente all’ottenimento di una maggiore autonomia rispetto alle regioni a statuto ordinario e di particolari condizioni fiscali e di tutela dei diritti cultuali. Tuttavia, i partiti nazionalisti sub-statali che avrebbero continuato a persistere, come quelli del Sud Tirolo e della Valle d’Aosta avrebbero ricoperto un ruolo del tutto marginale a livello nazionale, occupando spesso una posizione di subordinazione rispetto ai partiti governativi [Della Porta, 2002: 147]. Una seconda ondata di proteste centro-periferia sarebbe emersa durante gli anni Sessanta, inserita nell’ambito del più ampio contesto di mobilitazioni sociali e di classe. Non a caso i movimenti nati in questo periodo, come il gruppo Su populu sardu, o alcuni gruppi delle minoranze slovene ed occitane, avrebbero adottato prevalentemente il paradigma della colonizzazione interna. Tali proteste avrebbero condotto all’introduzione di una legislazione maggiormente sensibile alla promozione della tutela delle minoranze linguistiche, anche se realmente effettiva soltanto con riferimento ai contesti in cui essa era stata garantita nei trattati di pace [Della Porta, 2002: 147-148]. In assenza di una tradizione nazionalista o autonomista autoctona, il leghismo nel suo stato nascente avrebbe utilizzato proprio l’esperienza di alcuni di questi movimenti e il particolare status delle regioni a statuto speciale sia come esempio che come fattore ispiratore e legittimante delle loro richieste. In principio sarebbe stato proprio Bruno

Salvadori, leader storico dell’Union Valdotaine (UV), a favorire la nascita del movimento autonomista in Veneto ed ad ispirare il pensiero politico di Bossi.

Un’altra tematica sarebbe stata politicizzata sin dal principio e si sarebbe mantenuta piuttosto stabile nel pensiero leghista, ovvero quella della differenza tra il Nord e il Sud del Paese. Sin dalla nascita della democrazia, i governi italiani si erano trovati ad affrontare una problematica emersa già ai tempi dell’unità d’Italia e che riguardava la condizione di relativa arretratezza economica delle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali, la cosiddetta “questione meridionale”. Quest’ultima era stata affrontata da molti studiosi, che avevano ricercato le sue cause in fattori economici, sociali e culturali. Sebbene il lavoro di molti intellettuali fosse finalizzato a denunciare le condizioni socio-economiche delle regioni meridionali e a favorirne un maggiore sviluppo, esso avrebbe contribuito, nel tempo, a favorire la formazione di un’immagine stereotipata del Sud come area omogeneamente arretrata e culturalmente diversa rispetto al resto del Paese. Tale questione, però, sia nella politica che nel dibattito scientifico italiano sarebbe stata affrontata sempre come questione nazionale, riguardante l’intero Paese, e non avrebbe dato vita a partiti o movimenti di tipo nazionalista, proprio per l’assenza di una diversità etnica o culturale tra le due aree del Paese. Tuttavia, la presenza della differenza economica, che con il processo di modernizzazione sarebbe diventata più evidente, sarebbe stata utilizzata dal leghismo come elemento di forza per sostenere una superiorità “civica” prima delle singole regioni, poi dell’intero Nord rispetto al Sud. Inoltre, il discorso politico leghista che contrapponeva un Nord sviluppato ad un Sud arretrato sembrava, in qualche modo, essere sostenuto da alcuni avvenimenti che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta avrebbero contribuito ad evidenziare le problematiche del Sud, come per esempio, gli scandali di corruzione legati alle ricostruzioni successive al terremoto in Basilicata e in Campania, così come l’esplosione della violenza mafiosa in Sicilia [Huysseune, 2004: 64-65]. Inoltre, soprattutto all’inizio degli anni Novanta, all’esistenza di una questione meridionale, la Lega avrebbe contrapposto l’esistenza di una questione settentrionale, riferita al malessere delle ricche e moderne regioni del Nord nei confronti dello Stato italiano, per molti aspetti meridionalizzato. Alla formazione di tale questione, che indeboliva l’attenzione riguardo ai problemi del Sud, avrebbe contribuito non soltanto la Lega Nord, quanto anche la tendenza delle scienze sociali a concentrarsi sulle problematiche del Nord [Huysseune, 2004: 64-65]. Ma l’abilità della Lega sarebbe stata (ed è ancora) proprio quella di interpretare problemi reali che incontravano le regioni

settentrionali in una logica polarizzata che contrapponeva il Nord al Sud, la periferia al centro, la società alla politica, il nuovo al vecchio. Essa avrebbe proposto una lettura della realtà unilaterale e parziale, dove le responsabilità dei problemi venivano attribuite sempre al di fuori della comunità che aspirava a rappresentare [Diamanti, 1996: 49-50].

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