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1.3 Le origini del conflitto centro-periferia

1.3.1 Globalizzazione e rinascita del nazionalismo sub-statale

I tre approcci teorici appena ricordati esaminano le origini del conflitto centro-periferia, collegandolo alla nascita dello stato-nazione e al successivo processo di democratizzazione. Esse rintracciano l’origine delle mobilitazioni politiche delle periferie e la formazione dei partiti nazionalisti sub-statali in fenomeni politici, storici e sociali dalle conseguenze durature. Per questa ragione, esse rimangono ancora oggi attuali ed utili nello spiegare le caratteristiche originarie dei movimenti e dei partiti nazionalisti periferici. Tuttavia, l’analisi che viene proposta da queste teorie è essenzialmente ‘genetica’ [Di Sotto, 2008: 555], e pertanto difficilmente può essere utilizzata per spiegare quello che è stato definito come il “revival” del nazionalismo sub-statale. Attraverso le tre teorie, infatti, è difficile risalire ad una spiegazione del rafforzamento e della trasformazione dei vecchi e nuovi nazionalismi sub-statali e dei relativi partiti nella politica degli stati europei, avvenuti negli anni Ottanta e Novanta e che sono presenti ancora oggi.

I tre approcci teorici, così come molti altri, si sono concentrati sulla nascita di questo fenomeno, ma, in qualche modo, ne hanno trascurato l’evoluzione. Secondo Tronconi, “talvolta sembra che si dia per scontata la necessità di un graduale declino dei movimenti nazionalisti, superata la fase di consolidamento del nuovo stato o del nuovo sistema economico, in alternativa si tace sullo sviluppo dei movimenti nazionalisti, lasciando supporre così che questi movimenti manterranno invariata la loro posizione nei rispettivi sistemi politici e sociali, ma anche che non ne potranno emergere di nuovi” [Tronconi, 2009: 78].

Molti altri studiosi, infatti, hanno più volte previsto che la trasformazione dell’ordine politico basato sugli stati-nazionali, dovuto ai processi di globalizzazione e di

integrazione sovra-nazionale, avrebbe determinato la ‘fine del territorio’ [Badie, 1995 cit. in Keating, 2001a: 54]. Secondo Hobsbawm, per esempio, la trasformazione del tradizionale ordine politico avrebbe comportato non soltanto la scomparsa delle rivendicazioni territoriali dei movimenti minoritari, ma in generale ogni forma di nazionalismo [Hobsbawm, 1991]. Questa visione è espressione dell’approccio teorico del “cosmopolitismo”, secondo cui i processi economici e culturali, innescati dalla globalizzazione, comportano un superamento dei tradizionali stati nazionali e dei particolarismi culturali, a favore di una cultura e di un’economia globale. Più nello specifico, secondo molti proponenti del cosmopolitismo, l’economia globale si basa su una sempre maggiore intensificazione delle relazioni economiche globali, che superano lo stato-nazione, favorendone la sua sostituzione da parte di istituzioni sovranazionali. Inoltre, la globalizzazione favorisce un’omogeneizzazione culturale e l’affermazione di una cultura cosmopolita, cosa che indebolisce le espressioni delle culture minoritarie. In questo contesto, il nazionalismo sub-statale viene considerato come destinato alla scomparsa e, laddove esistente, come espressione di una concezione romantica e tradizionalista, spesso reazionaria allo sviluppo globale.

Tuttavia, negli ultimi decenni, non soltanto il territorio non è scomparso, ma ha acquisito ancora maggiore importanza nella vita politica di molti stati europei. Ciò è dimostrato dalla notevole diffusione di partiti nazionalisti sub-statali in quasi tutte le democrazie dell’Europa occidentale e in molte dell’Europa orientale.

Come è possibile spiegare questo fenomeno? In realtà, già Rokkan sosteneva che il cleavage centro-periferia fosse molto più duraturo e resistente di quello funzionale, basato sulle divisioni di classe. Infatti, “le condizioni di classe […] possono essere modificate attraverso la mobilità sociale individuale o tramite l’emigrazione. Le identità etniche o religiose sono basate su caratteristiche che, invece, favoriscono più facilmente l’instaurazione di legami stretti” [Bartolini, 2005: 98-99]. A questo c’è da aggiungere, che molti movimenti e partiti sub-statali di recente apparizione, non si rifanno ad un passato realmente esistente, o a caratteristiche etniche precise, ma spesso inventano e reinventano la tradizione [Hobsbawm, 1991; Giddens, 2000: 57], creando identità basate su eredità mitologiche. Si potrebbe obiettare che tutte le nazioni sono in qualche modo delle “comunità immaginate” [Anderson, 1991], ma come spiegare il ritorno alle tradizioni vere o inventate che siano, all’attaccamento territoriale, e alla rivalutazione delle identità locali, in un contesto sempre più caratterizzato da movimenti e relazioni di carattere globale?

Secondo Keating [2001a], è vero che i processi di globalizzazione hanno, in qualche modo, modificato le tradizionali comunità statali, tuttavia, essi “più che distruggere lo spazio e il tempo, li stanno reinventando, incoraggiando l’emergere di nuove comunità e risvegliando un interesse nel proprio passato e nel proprio futuro” [Keating, 2001a: 54]. Le ragioni del risveglio delle identità territoriali e della persistenza dei nazionalismi sub-statali, in un periodo storico in cui forze economiche, culturali e politiche favoriscono sempre una maggiore integrazione e un superamento dei tradizionali assetti statali, sono evidenziate da Latouche [Latouche, 2004: 187-189]. Secondo lo studioso, la globalizzazione include quattro dinamiche: embedding, incorporation, enclosure e consciousness.

La globalizzazione implica il dispiegarsi di forze economiche che favoriscono un processo di omogeneizzazione e omologazione. Tuttavia, questa logica non è assoluta. Infatti, “la globalizzazione può anche incoraggiare molteplici forme pluralistiche di nation-building. Le persone possono affermare la loro specifica identità come la base della reale giustificazione per il proprio inserimento nell’arena globale”. È con riferimento a questi fenomeni che Latouche parla di “logic of embedding” [Latouche, 2004: 187].

L’apparente compressione del pianeta è invece il risultato della dinamica di incorporation. Quest’ultima fa sì che lo spazio globale, apparentemente espandibile, venga occupato da ogni nuovo sviluppo, fino a giungere alla saturazione e quindi al restringimento. Cosicché, le società, anziché integrarsi tra loro, diventano parti di un unico universo.

La dinamica della enclosure, invece, si riferisce al fatto che nell’età contemporanea il sistema appare come ‘finito’, ovvero chiuso a forme alternative di vita e di organizzazione al di fuori dello spazio, così come definito dalle forze globali. Tutte le società che “[…] operano nella stessa dimensione spazio-temporale sono costrette a prendere parte a questo processo di chiusura (enclosure), se non vogliono scomparire in un non-mondo” [Latouche, 2004: 188].

Infine, l’ultima dinamica della globalizzazione è quella della consciousness. Le contrapposte forze, tendenti all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo, non esisterebbero se non ci fosse una coscienza comune e reale della loro esistenza. Tale consapevolezza, secondo Latouche, è garantita dalla copertura mediatica, che assicura la diffusione generale della percezione delle precedenti dinamiche.

L’insieme delle quattro dinamiche, appena esposte, fa sì che la società contemporanea sia dominata da una condizione di “permanente incertezza e indeterminatezza” [Latouche, 2004: 188]. Ciò che sembra essersi affermata è “una situazione di permanente biforcazione”, ovvero una situazione caratterizzata dalla presenza di tendenze opposte e spesso contraddittorie, che tuttavia si sviluppano parallelamente. In particolare, nel contesto attuale “le tendenze alla centralizzazione e alla decentralizzazione, al rafforzamento e all’indebolimento degli stati, al cambiamento e alla continuità, continueranno a svilupparsi nel sistema mondiale senza produrre un risultato definitivo” [Latouche, 2004: 189]. L’insieme di queste forze e dinamiche ha portato Robertson a parlare di glocalizzazione [Robertson cit. in Bauman, 2005: 342] piuttosto che di globalizzazione, proprio al fine di indicare “il coincidere e l’intrecciarsi di sintesi e di dispersione, d’integrazione e di scomposizione” [Bauman, 2005: 342]. In questo contesto di grande indeterminatezza, la rivalutazione dell’identità territoriale rappresenta una delle contrapposte tendenze che permane e si riafferma nel sistema globale. Come già accennato, da una parte, la globalizzazione favorisce un processo di omologazione culturale. Non si può certo negare la diffusione su scala mondiale di un sistema di valori, di modelli, di comportamenti, di stili di vita e di elementi linguistici e culturali, derivanti principalmente da quelle società economicamente e tecnologicamente avanzate, come quella americana.

Inoltre, le forze economiche globali, superando lo stato-nazionale, non soltanto ne modificano competenze e poteri, ma contribuiscono a delegittimare il territorio stesso del suo significato funzionale, perché si muovono in maniera indipendente da esso. Nel sistema globale, dunque, in cui è presente un’omogeneizzazione culturale, e in cui lo stato tradizionale perde parte delle proprie prerogative, il ritorno al locale e al particolare rappresenta la tendenza opposta.

Inoltre, la fase storica contemporanea coincide con quella che Bauman [2000] definisce “modernità liquida”, dove le categorie, le sicurezze e i paradigmi del passato vengono meno, per lasciare spazio ad una condizione di perenne fluidità ed incertezza, dove l’individuo è il fautore e il responsabile di ciò che si realizza. In un contesto di profonda confusione e continua trasformazione, l’identità locale e il territorio, sono riscoperti e rivalutati come indissolubili certezze e punti di riferimento. “Quando il mondo diventa così grande da sfuggire al controllo, gli attori sociali cercano di ridimensionarlo e di ricondurlo alla propria portata. Quando le reti dissolvono il tempo e lo spazio, le persone si ancorano al territorio e rievocano la propria memoria storica” [Castells, 2008:

74]. Esse ritornano al locale e alla comunità, sinonimi di certezza e di appartenenza in una condizione generalizzata di “liquidità”, dove i legami e i punti di riferimento sono transitori [Bauman, 2000]. Anche le grandi ideologie, come il liberalismo ed il socialismo, che, veicolate dai tradizionali partiti di massa, in passato avevano fornito all’individuo contrapposte visioni del mondo in cui credere e progetti politici da realizzare, creando solidarietà collettive antagoniste, ma ampiamente comprendenti, nell’età contemporanea sembrano aver perso la loro funzione, lasciando l’individuo privo di un solido ancoraggio esistenziale, sociale e politico. Con la fine di quella che Hobsbawm [1991] ha definito come “l’età dell’oro” degli anni Sessanta, e il cosiddetto “declino delle ideologie”, la politica di massa in Europa si è trasformata, favorendo certamente l’apertura di nuovi spazi di partecipazione e di opinione, ma più che collettivi, prevalentemente individualizzati [Raniolo, 2006a: 143].

Queste trasformazioni, che negli ultimi decenni hanno investito la società e la politica, contribuiscono a spiegare perché le culture locali, anziché venire amalgamate in quella globale, si rinvigoriscono. Inoltre, accanto ai movimenti e ai partiti nazionalisti sub- statali, già esistenti, se ne affiancano di nuovi. Essi riprendono elementi culturali del passato, ma, molto spesso ne introducono e inventano di nuovi, proprio per creare quel senso di appartenenza e di identità collettiva, alla base di un sentimento comunitario o nazionale. Nell’età contemporanea, il nazionalismo inizialmente costituisce una “reazione difensiva” ai processi di globalizzazione [Castells, 2008: 74].

Tuttavia, come ha sottolineato Latouche, anche coloro che ritornano al locale, devono confrontarsi e inserirsi nel globale, se vogliono contare nel nuovo sistema. Da ciò deriva che, i nazionalismi sub-statali, per effetto della globalizzazione, sono portati ad attualizzare i loro discorsi e a proiettarsi nel contesto globale. A tal riguardo, Latouche afferma: “le dinamiche della globalizzazione proprio per la loro qualità di indeterminatezza hanno due effetti. Esse facilitano l’espressione di caratteristiche esclusive della comunità, come le origini o la lingua. Ma esse inseriscono anche la società in un più universale processo di auto-determinazione” [Latouche, 2004:193]. In sostanza il processo di globalizzazione non porta alla scomparsa delle minoranze sub- statali, ma piuttosto favorisce una rinnovazione del nazionalismo alla base delle loro rivendicazioni di autodeterminazione. È per questo che, secondo Keating e Latouche [Keating, 2001a; Latouche, 2004], i gruppi e i partiti sub-statali non sono più portatori di un nazionalismo etnico ed esclusivo, quanto piuttosto di un nazionalismo civico, inclusivo e aperto, inteso come: “una forma di identità collettiva basata principalmente,

anche se non esclusivamente, su una sfera pubblica limitata (bounded) territorialmente, piuttosto che sull’esclusiva combinazione di alcuni caratteri etno-culturali e sulle esperienze storiche” [Latouche, 2004: 193].

Con il processo di globalizzazione, non soltanto il nazionalismo non scompare, ma si trasforma e si rinnova. Esso, nell’età contemporanea, non è più funzionale soltanto alla formazione di nuovi stati nazionali, ma piuttosto “… sembra essere una delle principali forze alla base della costituzione di quasi-stati, ossia di entità politiche caratterizzate da una sovranità condivisa” [Castells, 2008: 37].

Anche secondo Grilli di Cortona, nell’età globale il nazionalismo delle minoranze non è destinato ad estinguersi. Esso semmai assume una fisionomia diversa e post-moderna. Se Keating e Latouche parlano di movimenti e partiti che fanno riferimento soprattutto a valori civici, Grilli di Cortona sottolinea come “[…] accanto a un nazionalismo etnico tradizionale si stia facendo spazio un nazionalismo a sfondo regionale che muove soprattutto da considerazioni di ordine economico, con obiettivi e forme espressive talvolta sensibilmente diverse” [Grilli di Cortona, 2003: 276].

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