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1.3 Le origini del conflitto centro-periferia

1.3.3 La regionalizzazione e l’Integrazione Europea

I fenomeni della regionalizzazione e del nazionalismo sub-statale sono stati spesso collegati al processo di integrazione europea. A prima vista sembra esserci un’evidente contraddizione, determinata dal fatto che i tre fenomeni implicano il dispiegarsi di forze che si muovono in direzioni opposte. Infatti il decentramento territoriale e il nazionalismo sub-statale sono espressione di dinamiche di localizzazione, perché comportano un trasferimento di poteri a favore del livello sub-statale, mentre l’integrazione europea rientra in quelle di globalizzazione, in quanto conduce ad un’integrazione sovranazionale. I tre fenomeni, però, sono accomunati dal fatto di favorire, sebbene in maniera diversa, una trasformazione dell’assetto tradizionale basato sugli stati-nazionali. Hooghe e Marks [2001] hanno sostenuto a tal proposito che la convergenza della regionalizzazione e dell’integrazione europea ha condotto

all’affermazione di un nuovo tipo di polity, funzionante secondo le dinamiche della multi-level governance. Con quest’espressione, i due studiosi intendono “la dispersione del authoritative decision-making attraverso i molteplici livelli territoriali” [Hooghe e Marks, 2001: 3-4]. La governance si differenzia dal government, proprio perché non si basa su processi decisionali di tipo gerarchico, bensì su processi orizzontali e partecipativi. Nella nuova polity i governi nazionali rimangono attori importanti del processo decisionale, tuttavia la loro azione non è esclusiva, perché le competenze decisionali sono condivise con le istituzioni appartenenti al livello europeo e con gli attori sub-statali.

Secondo una tesi, prevalentemente politica, ma diffusasi, per un certo periodo di tempo, anche a livello teorico, il processo di integrazione europea e quello di regionalizzazione avrebbero condotto all’esautoramento di tutte le competenze statali, fino a comportare una totale scomparsa degli stati a favore di un’Europa delle regioni. In realtà, secondo Le Galés [1998], l’Europa delle Regioni ha più una valenza mitica che reale. Infatti, è vero che gli stati tradizionali hanno subito trasformazioni economiche e politiche, dovute all’azione congiunta dell’integrazione europea e del decentramento territoriale, tuttavia essi rimangono ancora oggi gli attori principali della vita politica europea ed internazionale.

Sicuramente è necessario riconoscere che, nel corso dell’evoluzione del processo di integrazione europea, le regioni, almeno tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, hanno acquisito una crescente importanza a livello comunitario. Se, infatti, nelle prime fasi dell’integrazione, le regioni erano scarsamente considerate e venivano ritenute come semplici enti territoriali, funzionali alla politica statale, a partire dalla metà degli anni Ottanta, esse divennero attori attivi all’interno del contesto comunitario. Per un breve periodo i processi di regionalizzazione e la diffusione di una politica regionale europea sembrarono procedere di pari passo.

La questione regionale emerse a livello sovranazionale soprattutto in relazione al rendimento economico delle regioni. Essa assunse maggiore importanza in seguito ai progressivi allargamenti della Comunità Europea. In particolare, l’ingresso della Gran Bretagna pose il problema della riconversione industriale di alcune regioni, mentre quello della Grecia, della Spagna e del Portogallo comportò un aumento del numero delle aree rurali e poco sviluppate. Le nuove adesioni, quindi, evidenziarono con maggior chiarezza il problema dello squilibrio tra i vari territori interni agli stati, dovuti ai vari rendimenti economici. Già nel 1975 venne istituito un Fondo europeo per lo sviluppo regionale, finalizzato a sostenere l’economia delle regioni economicamente più

depresse. Secondo Caciagli “negli anni immediatamente seguenti la sua istituzione, proprio mentre iniziavano i processi di devoluzione in alcuni stati europei, la politica di assegnazione delle risorse del Fondo, basata sulla nozione di territorio regionale, contribuì a far uscire la problematica regionale dall’obbligato rapporto bilaterale stati membri/Comunità. Creato per aiutare lo sviluppo delle regioni più povere e accentrate dell’Unione al fine di arrivare alla parità delle condizioni sociali ed economiche in tutto il territorio europeo, il Fondo europeo per lo sviluppo regionale chiamava in causa le autorità substatali di tutti gli stati perché collaborassero ai programmi di aiuto e di sviluppo secondo il principio della partnership” [Caciagli, 2003: 94]. Il Fondo venne successivamente migliorato grazie anche ad una maggiore copertura finanziaria, assicurata dall’Atto Unico nel 1986. Quest’ultimo, inoltre, gettò le basi per una vera e propria politica regionale comunitaria, affermando che l’integrazione europea richiedeva uno sviluppo economico e sociale coerente e simile in tutte le regioni facenti parte della Comunità. La riforma del 1988, invece, modificò i criteri di gestione e di distribuzione delle risorse del Fondo, favorendo, attraverso l’introduzione del principio di partnership, un più diretto coinvolgimento delle regioni. A questa ne sarebbero seguite altre, che avrebbero favorito una partecipazione delle regioni all’elaborazione e all’attuazione degli interventi.

La crescente attenzione della Comunità nei confronti delle regioni, non concerneva soltanto l’aspetto economico, ma aveva anche una valenza simbolica e politica, diretta spesso all’incentivazione dei processi di devoluzione all’interno degli stati-membri. Nel 1988, infatti, il Parlamento Europeo adottò una risoluzione in cui il processo di decentramento degli stati veniva indicato come fattore fondamentale della democratizzazione e della valorizzazione delle specificità culturali. Ma è soprattutto il Trattato di Maastricht che segnò una svolta importante nell’evoluzione della funzione delle regioni nel processo di integrazione europea. Esso introdusse una serie di novità. In primo luogo, riconobbe simbolicamente l’importanza della regioni nel contesto comunitario, affermando che: “il cammino dell’Europa passa per le regioni”. Introdusse il principio di sussidiarietà, secondo cui le decisioni devono essere assunte al livello più basso e vicino alle esigenze del cittadino e sollecitò gli stati-membri affinché rendessero sempre più simili gli enti sub-statali. Consentì, inoltre, ai rappresentanti delle regioni, nel caso in cui queste ultime avessero poteri legislativi all’interno degli stati di appartenenza, di partecipare alle riunioni del Consiglio dei Ministri, qualora le tematiche trattate fossero di interesse regionale o rientrassero nella loro esclusiva competenza.

Il Trattato introdusse anche una novità istituzionale, rappresentata dal Comitato delle Regioni. Esso fu il primo organo rappresentativo degli organismi sub-statali e venne creato al fine di garantire il rispetto del principio di sussidiarietà, in quanto svolgeva (e continua a svolgere) una funzione consultiva negli ambiti riguardanti le responsabilità delle regioni e degli enti locali.

Si può quindi affermare che, per almeno un decennio, il processo di integrazione europea ha sostenuto i processi di decentramento territoriale all’interno degli stati membri, attribuendo alle regioni un ruolo attivo all’interno del contesto comunitario. Tuttavia, bisogna riconoscere che lo slancio europeo a favore delle regioni è andato via via declinando. Infatti, secondo Caciagli: “la politica regionale comunitaria ha dato spazio d’azione e visibilità politico-istituzionale alle regioni, ma non le ha rafforzate completamente. Non solo non ha potuto farlo per la loro posizione nei confronti degli stati, ancora gelosi delle proprie prerogative, ma non lo ha fatto nemmeno per quella nei confronti della stessa Unione” [Caciagli, 2003: 112]. In primo luogo le differenze in termini economici e sociali tra le diverse regioni appartenenti agli stati membri rimangono perfettamente evidenti. Inoltre, sebbene rafforzate politicamente, le regioni difficilmente riescono ad influire sulle decisioni comunitarie, ma sono spesso semplici esecutrici delle decisioni statali. Infine non esiste un’omogeneità nell’organizzazione territoriale dei diversi stati. Alcuni sono più vicini ad un modello federale, mentre altri mantengono ancora semplici divisioni amministrative. “Sia tra gli stati che all’interno di essi esistono pochi modelli uniformi di governo regionale. Invece, è presente una varietà di strutture di governo regionale, con differenti livelli di poteri, risorse finanziarie e capacità legislative” [De Winter, Gomez-Reino e Lynch (eds.), 2006: 19]. Proprio per queste ragioni è impossibile riscontrare “una unità concettuale di regione” [Caciagli, 2003: 113].

Attualmente non si riscontra l’esistenza di un’Europa delle regioni. Non a caso, infatti, tale espressione è stata sostituita dalla meno ambiziosa, ma probabilmente più realistica “Europa con le regioni”. Essa indica appunto l’assenza di un livello di governo regionale omogeneo, comune a tutti gli stati e presente a livello comunitario, e la presenza di alcune regioni che si differenziano per un maggiore attivismo a livello statale e sovranazionale.

In conclusione sembra possibile affermare che l’idea secondo cui il processo di regionalizzazione e quello di integrazione europea procedano di pari passo difficilmente possa essere sostenuta. Essa corrisponde più ad un progetto politico ideale che alla realtà. Tuttavia non si può certo negare che le politiche regionali introdotte dall’Unione

Europea e la presenza di una retorica favorevole al riconoscimento del ruolo delle regioni nel processo comunitario abbiano favorito l’emergere della questione territoriale e regionale sul più ampio livello comunitario, contribuendo talvolta a rendere coscienti molti governi nazionali della sua stessa presenza.

L’integrazione europea non soltanto ha influito sui processi di top down regionalism, ma anche su quelli di bottom up regionalism. Molti autori, infatti, sottolineano come la maggior parte dei movimenti nazionalisti sub-statali abbia allargato la propria prospettiva, includendo anche il livello sovranazionale e come i relativi partiti abbiano incluso le tematiche dell’integrazione europea all’interno della propria agenda politica. E’ stato sostenuto che i partiti nazionalisti sub-statali tenderebbero a rientrare tra i maggiori sostenitori del processo di integrazione europea, proprio per la capacità di quest’ultimo di trasformare il tradizionale assetto statuale e il concetto stesso di sovranità politica, nonché per la creazione di nuove strutture di opportunità politiche. In realtà, ulteriori analisi e l’evidenza empirica hanno mostrato la presenza di un panorama variegato in riferimento alle posizioni dei partiti nazionalisti minoritari nei confronti dell’Unione Europea. Non si deve dimenticare infatti, che l’integrazione europea ha comunque un carattere ambivalente, essa, infatti “[…] è, al contempo, una reazione al processo di globalizzazione e la sua espressione più avanzata” [Castells, 2003: 283]. Proprio l’analisi selle posizioni assunte dai partiti nazionalisti sub-statali verso l’UE e il processo di integrazione sarà oggetto della seconda parte della tesi.

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