Organigramma del BNG
1979 1984 1989 Federazione Union
3.5 La mutevolezza della strategia
3.5.3 La normalizzazione della Lega Nord in virtù di una logica competitiva
Il periodo della radicalizzazione del nazionalismo e della strategia isolazionista della LN può essere fatto coincidere con il biennio 1996-1998. A partire dalla fine degli anni Novanta e soprattutto con l’inizio del nuovo Millennio, la Lega avrebbe intrapreso un processo di normalizzazione, chiara espressione di una strategia orientata prevalentemente al raggiungimento degli offices. Non si può negare che, anche
concorrendo da sola alle elezioni del 1996, la Lega non fosse riuscita ad ottenere buoni risultati elettorali. Tuttavia, ad un peso elettorale non corrispondeva un potere politico tale da portarla a fungere da ago della bilancia tra i due schieramenti maggioritari in competizione [Giordano, 2003 cit. in Albertazzi e McDonnel, 2005: 954]. Inoltre, come sottolineava Biorcio, nonostante la LN avesse consolidato una solida base nelle zone pedemontane, non era riuscita ad ampliare la sua egemonia nel resto dei territori settentrionali [Biorcio, 2000 cit. in Tambini, 2001: 143]. Proprio per questa ragione, una volta rafforzato il nucleo centrale dei suoi sostenitori e rivitalizzata l’identità del partito, era necessario ricorrere nuovamente ad alleanze con le altre forze politiche, al fine di crescere elettoralmente e soprattutto per diventare, ancora una volta, forza di governo. Al fine di raggiungere il nuovo obiettivo era però necessaria una normalizzazione e ri- organizzazione del partito. Pertanto, già dalla fine del 1998, Bossi modificava ulteriormente la politica del partito, puntando all’esposizione di temi più concreti e alla creazione di associazioni locali che avrebbero dovuto coinvolgere diverse categorie della società civile. La ragione di questo risiedeva in particolare nel fatto che “l’attività politica della Lega era diventata troppo astratta ed ideologica per enfatizzare che i rappresentanti pubblici della Lega, particolarmente i suoi sindaci, dovevano adottare un profilo più alto e svolgere una più attiva campagna per combattere questioni specifiche (delinquenza urbana, solitudine tra gli anziani, mancanza di valori spirituali tra i giovani, micro-criminalità e immigrazione illegale)” [Cento Bull e Gilbert, 2001: 119]. L’obiettivo principale era, dunque, quello di dare vita ad una “[…] egemonia nella Padania conquistando i cuori e le menti dei cittadini ordinari che si preoccupavano meno dei dibattiti teoretici riguardanti il nazionalismo e maggiormente della sicurezza nelle strade e del loro tradizionale stile di vita” [Cento Bull e Gilbert, 2001: 119]. Si sostituiva, quindi, l’obiettivo della secessione con un nuovo progetto territoriale e si enfatizzavano vecchie e nuove tematiche necessarie per il mantenimento della natura movimentistica e di protesta del partito. Come evidenziato durante la trattazione della dimensione identitaria del partito, la Lega in questi anni abbandonava il tema della secessione a favore della devolution e introduceva nuovi nemici esterni alla comunità, come l’UE, la globalizzazione e gli immigrati extra-comunitari.
Quest’apparente moderazione nelle rivendicazioni territoriali e l’orientamento delle resistenze verso l’esterno e non più tanto contro il sistema politico italiano, consentivano al partito di entrare nuovamente in coalizione con le forze del centro- destra, prima alle elezioni regionali del 2000 e successivamente a quelle politiche del
2001. Queste ultime registravano la vittoria del centro-destra e riportavano la Lega a ricoprire una posizione di governo. I risultati registrati in queste elezioni, sebbene, rispetto al 1994 e al 1996, costituissero una sconfitta della Lega in termini elettorali, ne garantivano un maggior peso politico. Le ragioni di ciò, erano da attribuire alle migliori relazioni, rispetto al passato, tra i due leader della Lega e di Forza Italia, ovvero Bossi e Berlusconi, fondate, questa volta, su un reciproco supporto. In particolare, Berlusconi appoggiava la richiesta di devolution della Lega ed evitava di condannare le sue posizioni più controverse, mentre Bossi evitava di contrastare l’introduzione di riforme relative all’interesse personale di Berlusconi, come il sistema di giustizia e la regolazione del conflitto di interessi [Albertazzi e McDonnell, 2005: 956]. Il secondo fattore che garantiva alla Lega un certo peso politico era costituito dalla divisione in due gruppi della coalizione di governo. Il primo era il cosiddetto “circolo interno nordico”, costituito dai tre politici della Lombardia a favore delle imprese, ovvero Berlusconi, Bossi e Tremonti; mentre il secondo coincideva con il cosiddetto “sub-governo” rappresentato dal partito cristiano-democratico della UDC e dal post-facista AN, entrambi ritenuti maggiormente a favore del Sud e dei dipendenti pubblici [Diamanti, 2005 cit. in Albertazzi e McDonnell, 2005: 956].
Nonostante la Lega Nord avesse ottenuto il riconoscimento di una posizione importante all’interno della coalizione governativa, è lecito chiedersi in che modo il partito potesse giustificare di fronte al suo elettorato più radicale la scelta di allearsi nuovamente con le forze politiche centraliste e come potesse evitare che, come in passato, si creassero divisioni interne. Si trattava di affrontare nuovamente il problema del conflitto tra la logica dell’identità e della competizione. Si doveva, in altri termini, trovare una mediazione tra l’immagine del partito di protesta, radicale, rivoluzionario e interprete delle istanze del Nord, e quella del partito riformista di governo, suscettibile di accettare compromessi. Il tentativo di mediazione tra queste due logiche, nel 1994, aveva fallito inesorabilmente, conducendo a divisioni interne, all’indebolimento della leadership di Bossi e alla perdita di sostegno elettorale. Riguardo alla posizione indiscussa di Bossi, in questa fase, non c’erano più ostacoli. Infatti, il leader, dopo la disastrosa performance di governo nel 1994, ricorrendo alla radicalizzazione dei temi politici, era riuscito nuovamente a consolidare la sua supremazia nel partito. Inoltre, proprio perché i cosiddetti “traditori interni” erano stati allontanati dal partito negli anni precedenti, coloro che, a partire dal 2001, ricoprivano cariche pubbliche facevano parte del circolo dei “devoti” di Bossi, coloro che avevano militato da sempre nel partito, dimostrando
piena fedeltà al leader [Albertazzi e McDonnell, 2005: 960]. Per quanto riguarda, invece, la legittimazione della scelta di far parte del governo, dimostrando di non aver dimenticato i fondamenti alla base dell’identità originaria del partito, la soluzione veniva trovata nell’adozione di una particolare strategia che permetteva alla Lega di mostrarsi, nello stesso tempo, come forza di governo e come forza politica di lotta [Tarchi, 2003 cit. in Albertazzi e McDonnell, 2005: 959].
In primo luogo, la Lega sottolineava come a differenza dell’esperienza di governo del 1994, in cui il partito aveva lasciato le “poltrone ministeriali dando dimostrazione di vicinanza al popolo, lasciando senza tentennamenti il Governo”, in quanto il federalismo non costituiva il “collante che teneva unite forze così diverse come la Lega Nord e Alleanza Nazionale”, l’accordo di governo del 2001 fosse al contrario proprio incentrato sulla “riforma dello Stato in senso federale da attuare attraverso la devoluzione” [Segreteria Politica Federale LN, 2002: 16].
In secondo luogo, la Lega si presentava come “l’opposizione nel governo” [Albertazzi e McDonnell, 2005: 953], in quanto era sempre pronta ad avanzare critiche nei confronti dei partiti della UDC e di AN, membri della sua stessa coalizione ed espressione dello statalismo. Abilmente, Bossi costruiva l’immagine dei nemici e degli amici all’interno della coalizione, riuscendo, in tal modo, a rispettare l’identità di protesta della LN, dimostrando di non lasciarsi assimilare da quei partiti, che da sempre erano stato oggetto delle sue invettive, e allo stesso tempo, poteva influenzare le politiche governative, dando prova dell’utilità della Lega al governo [Albertazzi e McDonnell, 2005: 959-960].
In questo periodo due erano i temi politici preponderanti della Lega: quello della riforma territoriale del Paese e quello della lotta all’immigrazione. Entrambi, come si è evidenziato in precedenza, avevano costituito, sin dal principio, i temi fondativi del leghismo. La proposta della riforma territoriale, naturalmente, era cambiata più volte nel tempo, a seconda della strategica accentuazione o moderazione del nazionalismo, ma rimaneva l’essenza della natura del partito. Anche l’opposizione agli immigrati faceva parte del nazionalismo esclusivo della Lega e quindi era espressione della sua stessa raison d’étre. Le riforme introdotte in questi campi, però, si sarebbero mostrate un fallimento dal punto di vista pratico, ma non da quello simbolico.
In relazione al progetto della devolution, la Lega presentava una riforma costituzionale che veniva presentata come rivoluzionaria rispetto alle riforme introdotte dai precedenti governi. Infatti, è necessario ricordare che, nonostante la Lega si fosse sempre
presentata come l’unica forza politica che agiva al fine di decentrare i poteri all’interno dello Stato italiano, le riforme in tal senso erano state introdotte proprio dal precedente governo di centro-sinistra. Quest’ultimo, con l’inizio della legislatura nel 1996, aveva avviato un processo di riforma che implicava sia l’introduzione di una legislazione ordinaria necessaria per ottenere “il massimo di decentramento possibile a costituzione invariata” e sia una revisione costituzionale ispirata da principi federalisti [Baldi e Baldini, 2008: 87-88].
La legislazione ordinaria comprendeva la riforma Bassanini (legge 59/1997), che comportava l’attribuzione delle funzioni amministrative alle regioni e ai governi locali, escluse quelle di competenza dello stato nelle materie di interesse nazionale. In particolare, essa introduceva i principi di sussidiarietà e di adeguatezza, secondo i quali le funzioni amministrative venivano attribuite al livello di governo più vicino al cittadino, escluse quelle incompatibili con tali ambiti territoriali [Baldi e Baldini, 2008: 88-89].
La riforma costituzionale, invece, veniva realizzata tramite le leggi costituzionali 1/1999 e 3/2001. La prima introduceva “l’elezione diretta dei presidenti delle regioni (art.126), i c.d. governatori, al fine di rafforzarne la leadership e rendere più stabili gli esecutivi regionali” e affidava alle regioni il potere di approvare i propri statuti, consentendogli, quindi, di stabilire i propri principi organizzativi e di funzionamento, di scegliere la propria forma di governo e la legge elettorale [Baldi e Baldini, 2008: 92]. Infine, la legge costituzionale 3/2001, era quella che, nota come riforma del Titolo V della Costituzione, costituiva un decisivo avanzamento nel processo di federalizzazione italiano [Baldi e Baldini, 2008: 95]. Essa elencava le materie di competenza dello stato, rendendo in tal modo generale la competenza legislativa delle regioni e delimitata quella statuale. Sebbene l’elenco delle materie assegnate alla potestà statuale fossero molte, veniva ampliata la competenza legislativa regionale, che, anche se soggetta al rispetto dei principi fondamentali, definiti da legge statale, non era più vincolata dal “rispetto dell’interesse nazionale”. Inoltre, si prevedeva la possibilità per le regioni ordinarie di acquisire maggiori competenze tramite un processo di negoziazione con lo Stato. Infine, la riforma riconosceva alle regioni “autonomia finanziaria di entrata e di spesa” (art. 119, comma 1), mediata, però, dalla presenza di un fondo perequativo a favore di quelle regioni con una capacità fiscale inferiore [Baldi e Baldini, 2008: 97]. Riguardo a tali riforme, la Lega sosteneva che esse non davano luogo ad un vero e proprio federalismo, ma soltanto ad “un cambiamento caotico e scarso” [Segreteria
Politica Federale LN, 2002: 16]. Essa avanzava una riforma che comportava il trasferimento delle competenze esclusive alle regioni nei settori della sanità, dell’educazione e della polizia amministrativa regionale e locale. A questo si aggiungeva anche la modificazione della natura e della composizione del Senato, che da seconda Camera, in un sistema di bicameralismo perfetto, si trasformava in una sorta di camera territoriale. Tuttavia questa proposta non soltanto veniva descritta dallo stesso Bossi come parziale [Bossi cit. in Albertazzi e McDonnell, 2005: 967], ma era ben lontana dal progetto federale così tanto propagandato dalla Lega. Infatti, come sottolinea Baldi [Baldi e Baldini, 2008: 103-105], in relazione alle competenze delle regioni, in alcune materie era stata prevista una “ricentralizzazione”, rispetto a quanto stabilito precedentemente, e veniva anche reintrodotto il concetto di interesse nazionale, che in passato aveva determinato diverse interferenze da parte dello Stato. Infine, il Senato, così come delineato nella proposta di legge, non poteva essere definito come “federale” in quanto “pur cercando di privilegiare il rapporto con le regioni […] non appariva riconducibile a nessun modello consolidato di camera territoriale” [Baldi in Baldi e Baldini, 2008: 105]. Al di là dei reali cambiamenti che tale legge avrebbe introdotto, essa riceveva la bocciatura nel referendum che si sarebbe tenuto nel 2006. Infine, in relazione alla questione dell’immigrazione che veniva trattata sempre più spesso come una questione di ‘sicurezza pubblica’, la legge, introdotta da Bossi e Fini nel 2002, sarebbe stata un ulteriore fallimento, in quanto non avrebbe avuto alcun effetto sull’immigrazione di tipo illegale. Quest’ultima limitava l’ingresso in Italia ai soli immigrati dotati di un contratto lavorativo con datori italiani. Tuttavia, essa avrebbe mostrato la sua totale inadeguatezza a limitare l’immigrazione clandestina per diverse ragioni. In primo luogo, la maggior parte dei datori di lavoro preferiva assumere persone già presenti sul territorio italiano, inoltre, e cosa più importante, gli immigrati che, già presenti in Italia, perdevano il proprio posto di lavoro, ricadevano automaticamente in una condizione di clandestinità [Cento Bull, 2009: 143].
Queste due politiche possono facilmente essere ricomprese nei casi di “simulative politics” [Blühdorn, 2007; Edelman, 1964; Cento Bull, 2009]. In particolare, Blühdorn, sostiene che nella tarda modernità la politica cambia funzione e modalità, diventando simulativa. Essa, infatti, si rivolge ai cittadini non tanto come elettori, quanto come consumatori di opzioni fornite dal mercato economico e politico; si concentra non tanto sulle “pratiche di decisione pubblica” quanto piuttosto sulle “pratiche di persuasione” messe in atto dagli attori politici al fine di vendere ai cittadini-consumatori le loro
“interpretazioni di imperativi sistemici”; infine la politica simulativa implica l’uso di simboli e immagini, che non hanno un referente empirico, ma che servono a ricostruire la realtà, mostrandola come realmente autentica [Blühdorn, 2007: 267].
Questo tipo di politica è evidente nel caso della Lega Nord. Essa, infatti, era riuscita ad imporre nel discorso politico italiano il tema della devolution, facendolo apparire come una necessità non soltanto dei cittadini del Nord, ma di quelli dell’intero Paese. Tuttavia, il referendum del 2006 dimostrava che soltanto due regioni, la Lombardia e il Veneto, dove l’influenza della Lega era maggiore, si dimostravano favorevoli al suo progetto di riforma [Cento Bull, 2009: 141]. Effettivamente, non si può negare che la Lombardia e il Veneto costituissero due regioni fondamentali del Nord, ma si era ben lontani dalle aspettative della Lega riguardanti il supporto di tutte le regioni del Nord, facenti parti dell’artificiale nazione Padana. In secondo luogo tale politica era ben lontana dal progetto riformatore così come presentato dal partito. Pertanto tale riforma aveva più un carattere simbolico che concreto.
In secondo luogo, la Lega aveva iniziato ad usare sapientemente la questione dell’immigrazione. Tramite la simulazione della realtà, essa riusciva a far passare il messaggio dell’uguaglianza tra immigrazione e insicurezza pubblica, e tra immigrazione e ‘contaminazione’ della comunità padana (messaggio che si sarebbe rafforzato negli anni più recenti). Il partito dichiarava: “di fatto negli ultimi anni si è assistito ad un aumento vorticoso della delinquenza, in particolare nelle grandi città. Una criminalità nuova, che sempre più spesso parla con accento straniero e che espropria i nostri cittadini del loro territorio, privandoli della loro libertà e della loro tranquillità. Solo la malafede o un’ottusità senza limite, possono far negare la correlazione tra l’immigrazione extracomunitaria e l’aumento della criminalità comune” [Segreteria Politica Federale LN, 2002: 9]. Pertanto la legge Bossi-Fini veniva presentata come soluzione ad un problema, che tramite le “pratiche di persuasione”, tipiche della politica simulativa, veniva considerata come uno dei problemi più urgenti del Paese. È sicuramente vero che la questione del controllo dell’immigrazione era emersa in Italia già da qualche anno, ma è anche vero che molte imprese del Nord utilizzavano e necessitavano il lavoro dei migranti. Non a caso, la legge proposta dalla Lega e da Alleanza Nazionale non risolveva il problema di regolare i flussi immigratori in Italia, ma certamente aveva un forte impatto simbolico. Quest’ultimo era poi rafforzato dai discorsi di Bossi che, come in passato, “ […] essenzializzava le differenze culturali, trasformandole in caratteristiche quasi-genetiche” [Albertazzi e McDonnel,
2005: 964] e rendendo, quindi, l’integrazione dei migranti dipendente dalla loro capacità di abbandonare la propria identità, assimilandosi totalmente alle popolazioni del Nord. Naturalmente questa capacità di omogeneizzazione dei migranti era variamente interpretata ed implicava l’esistenza di diversi livelli di appartenenza alla comunità, permettendo alla Lega di mantenere piuttosto vaghi i confini tra il noi e il loro, in maniera tale da renderli di volta in volta negoziabili [Albertazzi e McDonnel, 2005: 964]. Cento Bull, con riferimento alla questione della regolazione dell’immigrazione, iniziata nel 2001, ma che, come si evidenzierà nel prossimo paragrafo, continua ad essere, ancora oggi, uno dei punti di forza della LN, sostiene che l’obiettivo reale del partito non era quello di dare una risposta funzionale al problema, quanto piuttosto quello di avanzare proposte con un carattere simbolico, se non proprio simulativo, al fine di offrire la visione di un ritorno ad una comunità idealizzata, libera dall’immigrazione e dalla criminalità [Cento Bull, 2009: 143]. Il valore simbolico dell’opposizione all’immigrazione rivestiva ancora maggiore influenza in un periodo in cui a livello internazionale, in seguito agli attacchi terroristici agli Stati Uniti, la simbiosi tra immigrazione e sicurezza era diventata quasi scontata. Inoltre, c’è da ricordare che la Lega, nonostante l’anticlericalismo delle origini e i rituali celtici e pagani del periodo secessionista, assumeva la nuova immagine di difensore della cultura Cristiana dalla “minaccia” islamica.
In sostanza, durante la seconda esperienza di governo, la LN riusciva a mantenere l’immagine di un partito distinto dalle altre forze politiche. Essa, tramite una strategia caratterizzata dall’ambivalenza, manteneva gli elementi fondamentali alla base della sua identità originaria e, nello stesso tempo, influenzava le politiche governative. Queste ultime, però, piuttosto che avere dei risultati concreti, avevano piuttosto una funzione simbolica, finalizzata a rafforzare la credibilità del partito, non soltanto di fronte all’elettorato più fedele, ma anche nei confronti di quegli elettori, meno interessati ai discorsi nazionalisti ed a un improbabile progetto di secessione e più attenti ai problemi della quotidianità, enfatizzati costantemente dal partito stesso. Ancora una volta, quindi, la LN si faceva portavoce di una politica e di una strategia ambivalente, resa possibile dal carattere flessibile della sua identità e dall’ambiguità dei contenuti delle sue proposte politiche. Queste ultime più che permetterle il raggiungimento dei suoi obiettivi e la risoluzione dei problemi, descritti come sempre più urgenti, svolgevano piuttosto la funzione di una sorta di minaccia politica, in quanto a cambiamenti radicali così tanto annunciati corrispondevano effetti dallo scarso risvolto concreto, ma che
comunque permettevano al partito di affermare, di fronte agli attivisti e al pubblico più in generale, il successo della sua azione di governo [Albertazzi e McDonnell, 2009: 2].