modalità di composizione dei consigli comunali in Italia dalla Rivoluzione alla Restaurazione
4. L’età della Restaurazione
Il disgregarsi della poderosa impalcatura istituzionale, eretta da Napoleone nel corso di tre lustri, non comporta un abbandono del modello amministrativo, gerarchico e accentra- to, che ne costituiva l’ossatura e che si era esteso, proprio su impulso dell’Imperatore e grazie alle sue conquiste militari, in molti Paesi europei. Nella stessa Francia dovranno passare altri 15 anni perché il dogma dell’elettività dei consigli comunali (e dipartimentali) venga ripristinato – rispettivamente, nel 1831 e nel 1833 – e si dovrà attendere fino al 1848 per veder finalmente comparire all’orizzonte il suffragio universale (maschile). Una sintetica rassegna degli ordinamenti locali presenti all’interno dei vari Stati italiani ricostituiti do- po il crollo dell’Impero mostra come il sistema ‘alla francese’ permanga quasi intatto nel nuovo quadro politico-costituzionale delineatosi al tempo della Restaurazione. L’investitura dall’alto, sia pure mitigata e ‘temperata’ dallo strumento blandamente parte- cipativo delle liste ‘limitate’ (duple; triple…), risulterà infatti prevalente. Non ci si poteva certo aspettare dai sovrani ‘restaurati’ che abbandonassero un impianto organizzativo, come quello napoleonico, che consentiva – secondo quanto già sperimentato – alle autori- tà statali di selezionare, sulla base di parametri di affidabilità politica e vicinanza ideolo- gica, gli amministratori locali e di controllare da vicino le sempre irrequiete élites urbane
6 È opportuno precisare che il Consiglio dipartimentale veniva nominato, per la prima volta e per metà, dal
Elezione, nomina, cooptazione e sorteggio 7 e un ceto borghese sconfitto ma non domo. Un arretramento secco allo status quo ante era del resto impraticabile anche se tracce delle normative pre-rivoluzionarie sugli enti locali si ritroveranno, in alcune delle nuove esperienze statuali, dando vita a una eclettica mistu- ra fra antico e moderno, a un sostanziale compromesso fra i dettami normativi risalenti al Settecento e canoni giuridici di chiara impostazione francese. Così, nel Regno di Sarde- gna, si affida – per la prima volta – all’Intendente la nomina del Consiglio ordinario, cui segue poi una forma di cooptazione interna, sulla falsariga di quanto codificato nel lonta- no 1775. Di lì a poco, tuttavia, l’eredità napoleonica prenderà il sopravvento e al rappre- sentante periferico dell’amministrazione governativa toccherà, in via esclusiva, la desi- gnazione dei consiglieri ‘aggiunti’ e, dal 1826, sia pure su apposite ‘terne’, quella del Consiglio ordinario. Sarà solo alla vigilia della costituzionalizzazione del Regno (nel 1847) che la nuova legge comunale e provinciale accoglierà il principio dell’elettività dei consiglieri; principio che, a sua volta, sarà recepito, e ampliato, nella legge ‘Pinelli’ del 1848, effettivamente entrata in vigore.
Situazione non molto dissimile ritroviamo nel Lombardo-Veneto, ritornato nel frat- tempo in mani austriache. Intanto la legislazione ‘alla francese’ resta in vita, in via prov- visoria, sino al 1816, mentre quella teresiana, incentrata sul ‘Convocato dei possessori estimati’, benché condannata a una graduale emarginazione, si applica soltanto nei comu- ni di III classe. Successivamente, la cernita dei consiglieri comunali spetterà, in prima battuta, ai governi e poi alla Congregazione provinciale, sulla scorta di una ‘dupla’ elabo- rata dal Consiglio stesso. Un meccanismo pressoché analogo regge gli ordinamenti dei c.d. ‘Ducati padani’. A Parma, a partire dal 1821, il Consiglio degli anziani viene formato dal ministro dell’interno, che deve tener conto di una lista ‘dupla’ approntata dal Consi- glio medesimo. Nella vicina Modena tale funzione, sin dal 1815, è imputata al duca, che la esercita nell’ambito di una ‘tripla’ di nomi fornitagli dall’organo collegiale. Normazio- ne, questa, che sarà, in parte, modificata nel 1856 con l’introduzione di un principio di carattere parzialmente democratico; la nomina dall’alto (da parte del ministro dell’interno o del delegato provinciale) sarà infatti compensata e circoscritta dalla presenza di ‘note’, vale a dire da un elenco di nomi (ogni consigliere ne indicava tanti quanti erano i membri da eleggere) sul quale si sarebbe poi operato lo ‘scrutinio’ definitivo, come manifestazio- ne, cioè, di una prerogativa ancora statale.
Spostandoci di poco verso Sud ci imbattiamo, naturalmente, nel Granducato di To- scana. Anche qui, il venir meno del domino napoleonico consente il recupero, nel 1816, ma solo per il Consiglio comunale, del sorteggio, già in auge all’epoca delle riforme leo- poldine di fine Settecento. Dopo la breve parentesi del 1849, in cui un Regolamento provvisorio sancisce l’elettività dei consigli municipali (prevedendo un ricorso alla nomi- na dall’alto unicamente nell’ipotesi dell’impossibilità di formare tali organi collegiali), nel 1853 la designazione dei consiglieri rientra nelle competenze del granduca, o del pre- fetto, che, a tal fine, utilizzano delle ‘terne’ di nominativi, estratte a sorte. Molto articola- to e complesso è, invece, lo sviluppo legislativo che si osserva nello Stato della Chiesa dopo che esso ha riacquistato la sua sovranità e indipendenza. Nel 1816, con il provvedi- mento del cardinal Consalvi, alla composizione dei consigli comunali si perviene secondo il già collaudato schema della nomina dall’alto (in questo caso, da parte del Delegato pontificio) affiancata dall’integrazione ‘orizzontale’ mediante cooptazione. Dopo una
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sterzata conservatrice, se non reazionaria, che, nel 1826, vede addirittura l’ingresso (par- ziale) del principio della ereditarietà delle cariche, nel 1831 si ritorna alla situazione pree- sistente. Nel 1847 viene poi approvato un ordinamento specifico per la Città di Roma, fondato sulla compresenza di designazione statale (del papa, che, dal 1850, dovrà tener conto di apposite ‘duple’) e surrogazione dei posti vacanti da parte dei consiglieri stessi. Infine, con l’editto del cardinal Antonelli, del 1850, sarà adottato il metodo più democra- tico dell’elettività, prevedendosi un collegio elettorale corrispondente al sestuplo dei con- siglieri da nominare.
Ancora una volta coerente con il cessato modello francese è infine l’ordinamento amministrativo che connota il Regno delle Due Sicilie. Il decreto del 1816 (esteso poi alla Sicilia l’anno successivo) stabilisce, infatti, che i consigli decurionali, dei comuni di I e II classe, vengano designati dal re, su ‘terne’ di eleggibili redatte dagli intendenti, mentre per i comuni di III classe prescrive che la nomina sia effettuata direttamente da questi ul- timi. Di elettività non vi è dunque traccia, nel Sud dell’Italia – a prescindere dall’effimera previsione costituzionale del 1820 –, se non nella Sicilia del primo Ottocento (Costituzio- ne del 1812 e Regolamento del 1813), restata però, come è noto, all’infuori dell’influenza francese e, quindi, non vincolata a una adesione, forzata o consensuale che fosse, alle isti- tuzioni costituzionali e amministrative dell’Impero.
5. Conclusione
Cerchiamo ora di trarre qualche osservazione finale di carattere più astratto e organico dalla panoramica legislativa che abbiamo sommariamente delineato nei paragrafi precedenti. Nel primo periodo considerato, quello rivoluzionario, tanto in Francia quanto in Italia, alla carica di consigliere si accede dunque mediante lo strumento democratico dell’elezione. Principio, questo, che patisce però qualche limitazione sia per la persistenza di un filtro censitario e di uno sbarramento di ‘genere’, sia perché l’eventuale reintegrazione del consesso – resasi necessaria per cause diverse – è talvolta demandata alle autorità governative. Il rinnovo parziale (ad esempio, la metà ogni anno) è invece affidato, in qualche caso, alla sorte – per quanto attiene ai membri uscenti – e, in assenza di una esplicita previsione normativa, verosimilmente ottenuto tramite un apposito turno elettorale – per quelli entranti. Con l’avvento del regime napoleonico, oltralpe e nella nostra penisola, a una prospettiva per così dire bottom-up se ne sostituisce un’altra, del tipo top-down. Il criterio, sicuramente autoritario, della nomina dall’alto prende dunque il posto dell’elezione e viene applicato pressoché a tutte le cariche amministrative dello Stato e degli enti locali. Non è difficile individuare le ragioni politiche di un simile e drastico revirement. La necessità di controllare da presso la classe dirigente locale, di assicurarsi, per quanto possibile, il suo consenso e sostegno – anzi, in qualche misura, di precostituirla e perimetrarla dal centro – trova nella designazione statale la soluzione più consona a tale scopo, un ‘canale’ selettivo efficiente e di immediata applicazione dal punto di vista pratico. Sotto un profilo ‘simbolico’ non può essere trascurato il fatto che la designazione, ad opera di una superiore autorità pubblica, può attribuire un’aura di
Elezione, nomina, cooptazione e sorteggio 9 distinzione sociale a chi ne è il destinatario,7 conferire un ulteriore e più formale attestato
di ‘notabilità’ a chi si sente già partecipe di questa situazione economicamente privilegiata e culturalmente egemone. I risvolti negativi non mancano, tuttavia. La scelta del prefetto è di fatto condizionata dal tipo di informazioni, che cerca o riceve, sulla persona da nominare e tale diaframma conoscitivo rischia, talvolta, di far cadere la preferenza su soggetti inetti, incapaci, svogliati o, al contrario, troppo interessati, per possibile tornaconto individuale, ad assumere tale carica.8
La parziale correzione ‘democratica’ insita nel congegno delle ‘duple’ presenta, a sua volta, non pochi inconvenienti e vistose carenze procedurali. Per quanto concerne, in ma- niera specifica, il Regno Italico, un sia pure veloce sondaggio archivistico ha fatto emer- gere diverse disfunzioni in tal senso. Già nell’aprile del 1803 si invita il ministro dell’interno a dare «riservatamente le opportune istruzioni ai Prefetti, perché procurino, che nelle duple, che si propongono dai Consigli Amministrativi per la provvista delle Ca- riche Amministrative, non siano incluse Persone inabili, o che sicuramente siano per ri- fiutare l’Impiego, al quale fossero nominati, e perché nell’accompagnare le duple infor- mino sulla capacità, e probità rispettiva dei Soggetti proposti».9 D’altro canto, come già
ricordato, questa debole forma di partecipazione popolare non pare che fosse vincolante per il sovrano, che poteva rifiutare la dupla, ordinandone «un’altra migliore» ove i sog- getti indicati non meritassero la «sua confidenza», o procedere alla nomina dei consiglieri anche al di fuori della lista stessa.10 Né mancavano ingerenze perché la stesura delle liste
fosse politicamente orientata dall’alto: la Direzione generale dell’amministrazione dei comuni, ad esempio, nel luglio del 1811, invitava i prefetti ad adoperarsi affinché «nelle proposizioni [fatte dai comuni] siano compresi soggetti degni della confidenza del Go- verno, e che godono della pubblica estimazione».11 La stessa formazione delle c.d. ‘liste
di eligibili’, da parte degli intendenti, nel Sud della penisola, non è esente da irregolarità, intrighi, manovre, lotte intestine, pressioni localistiche o intromissioni clientelari.12
Negli Stati preunitari, dell’età della Restaurazione, come si è visto nel paragrafo pre- cedente, si registra l’impiego (e persino la compresenza) di differenti modalità di compo- sizione dei consigli comunali, anche se la nomina dall’alto, di derivazione napoleonica, risulta, sia geograficamente che cronologicamente, quella più utilizzata e diffusa. Essa è quasi sempre affiancata dalla previsione di duple, triple, terne, note che restringono, al- meno teoricamente, i margini di discrezionalità delle autorità statali. La sua applicazione, come già accaduto nel periodo precedente, non scongiura il verificarsi di anomalie, di strumentalizzazioni, di errori di valutazione.13 In conseguenza di speciali condizioni in-
7 Vedi Scirocco, Stato accentrato, p. 138, che si riferisce, in particolare, ai consigli provinciali.
8 Richiama alcuni di questi fenomeni, con specifico riguardo al periodo della Restaurazione piemontese,
Violardo, Il notabilato, pp. 200 ss., e Violardo, Composizione sociale, p. 378. Vedi anche P. Aimo,
L’amministrazione municipale nel periodo napoleonico: il modello francese e il caso italiano, in P. Aimo, Il centro e la circonferenza. Profili di storia dell’amministrazione locale, Milano, 2005, pp. 105 ss., specie p. 111. 9 Archivio di Stato di Milano (ASMi), Uffici civici, cart. 8, f.v. n. 3116 del 27 aprile 1803.
10 ASMi, Consiglio Legislativo-Consiglio di Stato, reg. n. 610, seduta del Consiglio di Stato del 18 novembre
1806, interventi di De Bernardi e Guicciardi, pp. 360 v., 361 e 361 v.
11 ASMi, Uffici civici, cart. 8, Circolare n. 5861 del 2 luglio 1811.
12 Cfr. De Martino, La nascita, pp. 239 ss. e 253 ss., e Spagnoletti, Storia, p. 151.
13 Segnalano, ad esempio, simili ‘patologie’ l’Intervento di R. Folino Gallo, p. 157, e il saggio di Amato, Note sul sistema, pp. 9-10.
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ternazionali o di particolari contingenze politiche, talvolta di segno democratico e pro- gressista, il meccanismo elettivo riesce talvolta a farsi strada: è il caso della Sicilia del 1812, della Toscana del 1849, dello Stato pontificio del 1850 e, benché in una declinazio- ne molto peculiare (l’assemblea di base è composta da tutti i ‘possessori’), del Lombardo- Veneto del 1816. Non si esclude neppure il ricorso al sorteggio che, a differenza di quello disciplinato all’epoca delle riforme settecentesche e della stagione rivoluzionaria, assume adesso una coloritura tendenzialmente conservatrice: ed è l’ipotesi della Toscana (1853). Tale metodo, storicamente legato a forme di governo democratiche (si pensi solo all’antichità classica), può anche essere piegato ad altri fini; ad esempio per scombinare i giochi corporativi delle élites locali o per evitare, o quanto meno attenuare, pericolosi conflitti e aspre contese tra fazioni opposte;14 insomma, per agevolare un controllo politi-
co del centro sulla periferia e sulla classe dirigente ivi attestata.
Infine, l’ultimo esempio di cui si rinvengono applicazioni nell’arco temporale di rife- rimento, ancorché non si presenti mai in maniera ‘pura’ ma sia collegato con la nomina statale, è quello della ‘cooptazione’. Si tratta, in sostanza, di una particolare tipologia di elezione che opera su un corpo elettorale ristretto e permette ai consiglieri in carica di scegliere (non necessariamente attraverso una votazione formale) i candidati ai posti che, col passare del tempo, si rendono disponibili. A quali obiettivi di politica istituzionale ri- sponda, nei concreti casi storici esaminati, tale criterio non è facile stabilire. Utilizzando l’apporto della politologia – e, in particolare, del noto e pionieristico lavoro di Karl Loewenstein15 –, potremmo sostenere che esso consente a un gruppo sociale di perpetuare
la propria egemonia nelle istituzioni locali, ovvero serve per stemperare possibili contrasti interni alla élite urbana mediante un’immissione, controllata e guidata – e perciò non traumatica –, dei suoi stessi contestatori. È appena il caso di sottolineare che solo più am- pie e approfondite ricerche storiche (specie di natura archivistica) sulle diverse realtà isti- tuzionali qui evocate potranno fornire risposte credibili e documentate a tali quesiti e, più in generale, permettere di valutare nella prassi corrente il funzionamento, e i limiti, dei sistemi di formazione dei consigli comunali di cui ci siamo sinora occupati.
14 P. Costa, Elezioni, partecipazione, cittadinanza: un’introduzione storica, Relazione al IX Convegno
internazionale della Sise, La cittadinanza elettorale, Firenze, 14-15 dicembre 2006, p. 5 (vedila sul sito web della Regione Toscana, [online], URL: <http://ius.regione.toscana.it/elezioni/Documenti/IXConvegnoSISE/ Costa.pdf >).