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La federazione degli Stati italiani nei progetti dei rifugiati italiani in Francia dopo la Restaurazione

Valeria Ferrari, Università “La Sapienza” di Roma

[…] l’ordinamento di governo il quale meglio si confarebbe all’Italia, in accordo all’estesa sua forma, de’ mari che l’accerchiano in grandissima parte, e de’ monti che difendonla, sarebbe quello degli Stati Uniti d’America, il quale certissimamente è il migliore che infino a qui sia stato recato ad effetto per reggere un grande Stato, ed il quale assai più che quello di una sola monarchia, o eziandio più che l’altro di più signorie confederate, atto sarebbe a collegare, senza confonderle interamente, le varie parti della nostra bellissima penisola, ed a rendere di ciò contentissimi gli abi- tator di quelle.1

Con queste parole l’esule Luigi Angeloni,2 nel 1818, esprimeva la sua profonda ammi-

razione nei confronti del modello costituzionale americano,3 contribuendo in modo con-

siderevole a consacrarne il mito presso gli ambienti dell’emigrazione politica italiana in Francia, in quell’epoca quanto mai stimolanti grazie alla presenza, soprattutto a Parigi, di alcune fra le più importanti figure del patriottismo italiano.4

L’Angeloni, antico ‘giacobino’, intimo amico di Filippo Buonarroti ed esponente di punta del settarismo democratico, aveva già avuto occasione di riflettere sui destini del- la penisola italiana nel suo primo scritto di carattere strettamente politico, pubblicato anch’esso a Parigi – ove l’esule frusinate risiedeva, in volontario esilio, fin dal 1800 –, alla fine del 1814 e intitolato Sopra l’ordinamento che aver dovrebbero i governi

1 L. Angeloni, Dell’Italia, uscente il settembre del 1818, ragionamenti IV, 2 voll., Parigi, appresso l’autore,

1818, vol. II, p. 34.

2 Già tribuno nella Repubblica romana del 1798, si recò in Francia alla caduta di quest’ultima divenendo

membro della setta militare e antinapoleonica dei philadelphes, all’interno della quale svolse funzioni di rilievo. Sulla vita e il pensiero dell’Angeloni, cfr. R. De Felice, Luigi Angeloni, in Dizionario biografico degli

italiani, Roma, 1961, vol. II, pp. 242-249; B. Di Sabantonio, Luigi Angeloni tra liberalismo e democrazia,

«Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXIV (1977), f. I, pp. 3-21; F. Della Peruta, Luigi Angeloni. Nota

introduttiva, in F. Della Peruta (a cura di), Democratici premazziniani, mazziniani e dissidenti, Torino, 1979,

pp. 3-21.

3 Sull’influenza del modello costituzionale americano nel pensiero politico italiano dell’Ottocento, cfr.

S. Mastellone, La Costituzione degli Stati Uniti d’America e gli uomini del Risorgimento (1820-1860), in

Italia e Stati Uniti nell’età del Risorgimento e della guerra civile. Atti del II Symposium di Studi Americani, Firenze, 27-29 maggio 1966, Firenze, 1969, pp. 261-293; E. Morelli, La Costituzione americana e i democratici italiani dell’Ottocento, «Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXXVI (1989), f. IV, pp. 427-

444; C. Ghisalberti, Il sistema politico americano e il costituzionalismo italiano del Risorgimento, «Clio», a. XXVIII (1992), n. 3, pp. 341-352; R. Camurri, Il modello americano nel moderatismo italiano, in F. Mazzanti Pepe (a cura di), Culture costituzionali a confronto. Europa e Stati Uniti dall’età delle rivoluzionai

all’età contemporanea. Atti del Convegno internazionale, Genova, 29-30 aprile 2004, Genova, 2005, pp.

379-398; e L. Mannori, Modelli di federalismo e suggestioni americane nel costituzionalismo risorgimentale, in Mazzanti Pepe (a cura di), Culture costituzionali a confronto, pp. 337-378.

4 Sull’argomento, cfr., fra gli altri, A. Galante Garrone, L’emigrazione politica italiana del Risorgimento,

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d’Italia. Ragionamento. Come rilevato da Della Peruta,5 il contenuto dell’opuscolo

dell’Angeloni deve essere necessariamente valutato tenendo conto sia del momento sto- rico in cui esso venne alle luce, sia dello scopo immediato che l’autore si prefiggeva: indirizzato ai sovrani delle potenze europee che si accingevano a ridisegnare l’assetto geo-politico del vecchio continente dopo la caduta dell’Impero napoleonico, esso con- teneva una proposta di organizzazione politico-istituzionale degli Stati italiani che, più che essere il fedele specchio dell’ideologia politica angeloniana – già da tempo chiara- mente arroccata su posizioni democratiche e repubblicane –, era invece il frutto del suo pragmatico realismo politico, finalizzato a redigere «un programma minimo che avesse qualche probabilità, anche remota, di influire sugli orientamenti del congresso di Vien- na».6 Pertanto, ponendosi quale obiettivo prioritario la garanzia dell’indipendenza degli

Stati italiani, l’Angeloni accoglieva l’idea di attuare una Restaurazione rispettosa del principio di legittimità, in base al quale sarebbero ritornate sui rispettivi troni tutte le vecchie dinastie. Ciò premesso, la sua originale proposta era quella di costituire, fra tut- ti gli Stati della penisola, un saldo vincolo federale, tale da metterla in grado di difende- re la propria autonomia. Condizione essenziale del suo progetto era pertanto l’esclusione dell’Austria e della Francia da qualunque ingerenza politica sull’Italia e, al fine di limitare quanto più possibile l’influenza delle due potenze, egli proponeva da un lato il rafforzamento dei poteri del re di Sardegna e, dall’altro, l’ingrandimento territo- riale del ducato di Modena fino a comprendere il Veneto e la Lombardia, in modo da creare un contrappeso dalla parte dei confini orientali. Gli Stati di tale federazione avrebbero dovuto essere retti da ordinamenti liberali e costituzionali posti sotto il con- trollo di una Dieta nazionale dotata di poteri decisionali in politica estera e della facoltà di esercitare un controllo sugli stessi sovrani, in modo da garantire la libertà dei cittadi- ni. Già in questo suo primo scritto del ’14, l’Angeloni, pur prospettando per gli Stati italiani un assetto di tipo monarchico-federale – considerato dall’esule un obiettivo di più facile realizzazione a breve termine –, non nascondeva, però, la sua personale prefe- renza per la forma di governo repubblicana, e, in particolare, per l’ordinamento repub- blicano e federale americano che diverrà oggetto delle appassionate lodi dell’esule fru- sinate nei due volumi dell’opera Dell’Italia. Tale scritto esordiva con una dura requisi- toria verso le decisioni assunte dalle potenze europee riunite a Vienna, le quali, oltre a non aver tenuto in alcun conto le legittime aspirazioni delle popolazioni, non erano pe- raltro riuscite a realizzare una politica di equilibrio. Quest’ultimo, a suo avviso, sarebbe stato garantito con ben maggiore efficacia da un’Italia lasciata immune dalle domina- zioni straniere e tenuta «in stretta colleganza». L’Angeloni, dunque, riprendeva in que- sto scritto le sue tesi del ’14, ma dichiarando in modo ben più esplicito di allora – ben- ché egli continuasse a non escludere a priori la possibilità di conservare le monarchie esistenti – che la migliore forma di governo tra tutte quelle esistenti fosse quella degli Stati Uniti d’America, vale a dire un governo in cui le varie parti del Paese erano colle- gate federalmente, con organi legislativi propri esercitanti un controllo reciproco e vigi- lanti affinché l’esecutivo non eccedesse i limiti delle proprie competenze. Anche sotto-

5 Della Peruta, Luigi Angeloni, p. 7. 6 Della Peruta, Luigi Angeloni, p. 7.

La federazione degli Stati italiani 151 ponendo a un’attenta comparazione i due grandi modelli liberal-costituzionali del tem- po, quello inglese e quello americano, egli non esitava a confermare la sua predilezione verso la giovane democrazia americana che, garantendo una più equa distribuzione del- le ricchezze, offriva un maggior livello di «democraticità» rispetto agli assetti politici del vecchio continente.

Le riflessioni dell’Angeloni ebbero una notevole diffusione nei circuiti dell’emigrazione politica italiana in Francia, soprattutto presso quegli ambienti cospirativi parigini di cui lo stesso Angeloni era un elemento di punta. Gli anni successivi, del resto, coincisero con il momento di massima fortuna del modello americano in Francia,7 ove – soprattut-

to in seguito grazie al viaggio negli Stati Uniti compiuto dal Lafayette e alla nascita della «Revue Américaine» di Armand de Carrel – assumeva consistenza sempre più ampia presso l’opinione pubblica l’idea che l’esperienza americana rappresentasse il più fulgido esempio di una «rivoluzione riuscita», cioè di una compiuta realizzazione di quell’ordinamento democratico che invece, in Francia, si era rapidamente dissolto dan- do luogo al Terrore e alla dittatura militare. È ormai opinione consolidata8 che la mag-

gior parte degli esuli italiani in Francia legati agli ambienti del settarismo – tra cui Giocchino Prati,9 solo per citare uno dei più noti e attivi fra costoro – fosse in

quell’epoca schierata su posizioni federaliste, ritenendo che tale assetto fosse sia più fa- cilmente realizzabile in quel particolare momento storico rispetto alla soluzione unita- ria, sia più confacente alle caratteristiche storico-politiche italiane.

Un’opera contenente una nuova e originale proposta di soluzione monarchico- federale al problema italiano era stata pubblicata, nel 1821, ad opera di uno degli ele- menti più in vista dell’esulato italiano a Parigi, il calabrese Francesco Saverio Salfi10

con il titolo L’Italie au dix-neuvième siècle, ou de la nécessité d’accorder en Italie le

pouvoir avec la liberté. Nell’Italie il Salfi – intellettuale illuminista particolarmente

impegnato, a Napoli, sul terreno della polemica anticuriale, celebre autore del teatro giacobino milanese durante il triennio repubblicano, membro, in seguito, del governo provvisorio della Repubblica napoletana del ’99 e, infine, figura carismatica all’interno delle istituzioni culturali del napoleonico Regno d’Italia – esponeva un proprio progetto costituzionale, applicabile a tutti gli Stati italiani e garante del principio di legittimità, in virtù del quale si sarebbero conservate tutte le dinastie allora regnanti. In tal modo si sarebbero rispettati i principi cari alla Santa Alleanza senza rinunciare alla realizzazione

7 Al riguardo, cfr. R. Rémond, Les Etats-Unis devant l’opinion française (1815-1852), Paris, 1962.

8 Cfr., in particolare, A. Saitta, Filippo Buonarroti. Contributi alla storia della sua vita e del suo pensiero, 2

voll., Roma, 1950; A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837), nuova edizione ampliata, Torino, 1972 e, da ultimo, M. Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale

liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari, 2011.

9 Ancora nel 1830, così si esprimeva il Prati in una lettera indirizzata a Giacomo De Meester: «Parmi eziandio

cosa assai prudenziale il non parlare per ora della forma di governo da darsi all’Italia, quantunque io sia intimamente convinto, che per unire le diverse parti nelle quali l’Italia è divisa, non vi ha altro mezzo che quello d’una repubblica federativa» (cfr. Galante Garrone, Filippo Buonarroti, p. 189).

10 Su tale figura, cfr., fra gli altri, C. Nardi, La vita e le opere di Francesco Saverio Salfi (1759-1832),

Genova, 1925; R. Frojo (a cura di), Salfi tra Napoli e Parigi. Carteggio 1792-1832, Napoli, 1997; V. Ferrari,

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della «perfettibilità delle nazioni».11 Sintetizzando il proprio progetto in 8 punti, il Salfi

prevedeva l’attribuzione al sovrano del potere esecutivo, ma anche di una parte rilevan- te di quello legislativo. La rappresentanza nazionale, in numero proporzionale a quello dei cittadini e preposta alla redazione dei progetti di legge, avrebbe dovuto essere divisa in due camere, elettiva una e vitalizia – ma non ereditaria – l’altra.

Altri punti fermi del progetto salfiano erano il pieno riconoscimento dell’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini; la libertà individuale; quella di pensiero e di stampa, e, con- dizioni essenziali di tale assetto costituzionale, l’indipendenza del potere giudiziario e il principio della responsabilità dei ministri.

Le caratteristiche di tale federazione erano puntualmente illustrate nel decimo capi- tolo dell’Italie, titolato Progetto di una costituzione federativa per gli Stati d’Italia. Dopo aver ribadito il rispetto del principio di legittimità, il Salfi affermava la necessità di un vincolo federale assai stretto, al fine di garantire la difesa dell’indipendenza na- zionale. Del tutto assente è, però, il mito americano tanto caro all’Angeloni: egli, infat- ti, sosteneva che il modello di federazione da cui trarre ispirazione per gli Stati italiani non fosse né quello elvetico, né quello olandese e nemmeno quello degli Stati Uniti d’America, bensì il sistema della federazione germanica. Inoltre, egli affermava la ne- cessità di considerare il papa come un semplice principe secolare il quale, al pari dell’imperatore d’Austria, non poteva pretendere alcun privilegio derivante dalla sua al- ta carica. Altro elemento qualificante del progetto di federazione era la designazione di una città, situata al centro dell’Italia, ove inviare un rappresentante di ciascuno Stato e nella quale, almeno una volta all’anno, avrebbero dovuto riunirsi i principi stessi per tu- telare gli interessi nazionali.

L’analisi salfiana volgeva infine il suo sguardo agli equilibri politici europei, al fi- ne di comprendere quali fossero le condizioni più idonee a garantire un futuro di pace. Nella mente dell’esule, la confederazione degli Stati italiani poteva costituire il punto d’avvio di un ben più ampio disegno: la creazione di una confederazione degli Stati mediterranei che, coalizzatisi in virtù delle loro affinità storico-culturali, avrebbero po- tuto bilanciare la potenza militare degli Stati dell’Europa centro-settentrionale (in primo luogo, Austria e Gran Bretagna) realizzando in tal modo un maggiore e più duraturo equilibrio nel continente europeo.

In relazione alla genesi di questo scritto, ritengo che siano parzialmente valide le stesse considerazioni fatte in merito all’opuscolo angeloniano del ’14: anche il contenu- to di tale opera sembra infatti essere originato più che altro da un’esigenza di opportu- nità politica, giacché non sembra essere casuale il fatto che tale opera sia stata messa a punto, peraltro in forma anonima, nel momento in cui la sopravvivenza del regime co- stituzionale introdotto nel regno delle Due Sicilie nel luglio del 1820 era gravemente minacciata dall’azione diplomatica – che non tardò a divenire anche militare – delle po- tenze della Santa Alleanza riunite a Lubiana. Il Salfi, inoltre, sia precedentemente che successivamente la pubblicazione dell’Italie, ebbe modo di pronunciarsi in varie occa- sioni a favore di un ordinamento ben più avanzato sul piano democratico, non nascon-

11 F.S. Salfi, L’Italia nel diciannovesimo secolo e della necessità di accordare in Italia il potere con la libertà, trad. it. di F. Canonico Scaglione, a cura di M. Del Gaudio, Cosenza, 1990, p. 69.

La federazione degli Stati italiani 153 dendo peraltro una spiccata propensione verso la forma di Stato repubblicana.12 Sia il

Salfi che l’Angeloni, dunque, in momenti di grave congiuntura politica, seppero rinun- ciare all’intransigenza ideologica nella speranza di poter vedere realizzate talune impre- scindibili priorità, quali l’indipendenza della penisola dalle influenze straniere e l’introduzione, negli Stati italiani, di un regime liberal-costituzionale. L’atteggiamento «possibilista» e incline alla mediazione che si celava dietro tale apparente svolta mode- rata costò peraltro al Salfi numerose critiche e aperte inimicizie negli ambienti dell’esulato, culminate con la definitiva «scomunica» del Mazzini che, nel 1831, giunse a esprimere la necessità di escludere l’esule cosentino dai piani cospirativi allora in atto essendo egli «la moderazione in persona».13

Nel corso degli anni Venti, comunque, l’ipotesi del modello federale quale possibi- le futuro assetto degli Stati italiani continuò a riscuotere numerosi consensi e altre pro- poste in tal senso emersero anche al di fuori del circuito dell’esulato italiano in Francia. Tra queste, degne di menzione furono quella del direttore dell’«Antologia», Gian Pietro Vieusseux, il quale, ricalcando il progetto salfiano, proponeva la creazione di una con- federazione formata da nove Stati rappresentati da una Dieta formata da 75 membri scelti dai principi e presieduta dal papa, che avrebbe dovuto riunirsi a Roma una volta all’anno per decidere sulle questioni relative alla politica estera, all’esercito federale e ai bilanci;14 quella elaborata nel 1822 a Londra dal calabrese Francesco Romeo in uno

scritto dal titolo Federative Constitution for Italy. Project for its Regeneration, ove proponeva una confederazione di Stati costituzionali retti da un ordinamento modellato sull’esempio inglese15 e, infine, quella contenuta nella Dichiarazione di principi della

Vendita di carbonari italiani in Londra nel 1823, quasi certamente redatta dall’Angeloni che, espulso dalla Francia nei primi mesi dello stesso anno a causa della sua attività co- spirativa, aveva trovato rifugio nella capitale britannica. Essa infatti conteneva la pro- posta di presentare agli esuli quale modello da cui trarre esempio non più la Francia e la Spagna, ma un altro Paese che aveva conquistato la propria indipendenza e si reggeva democraticamente: gli Stati Uniti d’America.

Degne di una più attenta analisi sono poi le riflessioni di un altro rifugiato italiano in Francia, l’esule piemontese del ’21 Giovan Battista Marochetti,16 il quale, in uno

scritto del 1826 dal titolo Le congrès bienfaisant (ripubblicato in forma ampliata nel 1830 con il titolo Indépendance de l’Italie), riprendendo alcune considerazioni presenti nelle opere dell’Angeloni, cercava d’inquadrare il problema italiano in quello più gene- rale dell’equilibrio politico europeo. Come l’esule frusinate, anche il Marochetti pren- deva le mosse da una critica alle decisioni assunte nel Congresso di Vienna e affermava la necessità di provvedere con urgenza alla soluzione di taluni impellenti problemi. Tra questi, la necessità di affrettare la dissoluzione dell’Impero ottomano (impedendo, però,

12 Peraltro, nel 1831, l’anziano esule, in qualità di presidente della Giunta liberatrice italiana, sarà il primo

firmatario di un Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna, redatto da Filippo Buonarroti, d’ispirazione esplicitamente repubblicana e unitaria, (per il testo del Proclama, cfr. C. Spellanzon, Storia del Risorgimento

e dell’Unità d’Italia, Milano, 1934, p. 365). 13 Cfr. Ferrari, Civilisation, laïcité, liberté, p. 9.

14 Cfr. G.P. Vieusseux, Frammenti sull’Italia nel 1822, e progetto di Confederazione, Firenze, 1848. 15 Cfr., al riguardo, Mastellone, La Costituzione degli Stati Uniti d’America, p. 266.

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al tempo stesso, un eccessivo ingrandimento della Russia mediante lo spostamento del baricentro dell’impero asburgico verso est), dal cui crollo avrebbe dovuto sorgere un nuovo assetto europeo caratterizzato, tra l’altro, dall’assegnazione di Bulgaria, Serbia, Bosnia, Croazia, Albania settentrionale all’Austria che avrebbe a sua volta rinunciato al Lombardo-Veneto. Acquisita l’indipendenza, gli Stati italiani avrebbero dovuto dar vita a una federazione, poiché, sebbene l’ordinamento unitario fosse preferibile sul piano teorico, quello federale avrebbe goduto, a suo avviso, di una maggiore benevolenza da parte della diplomazia europea. Ritenendo che la costituzione di uno Stato libero fosse un obiettivo ben più rilevante rispetto al fatto che esso si chiamasse monarchia o repub- blica, l’esule piemontese suggeriva un assetto federativo articolato in tre Stati (uno al nord, uno al centro e uno al sud), con un papato ridotto a esercitare il potere temporale solo su Roma e sul territorio circostante e con l’attribuzione di una funzione egemonica alla dinastia sabauda.

Suggestioni federaliste erano contenute, inoltre, nei Pensées et souvenirs historiques

et contemporains,17 pubblicati a Parigi nel 1830 ad opera dell’esule siciliano Michele

Palmieri di Micciché.18 Convinto repubblicano e vicino agli ambienti più radicali

dell’opposizione alla monarchia orleanista, il Palmieri riteneva che un assetto di tipo unitario non fosse adatto all’Italia, giacché egli giudicava impossibile che «popoli senza lumi, e che per secoli non avevano respirato che il veleno dell’assolutismo» potessero rapidamente e senza scosse percorrere l’enorme «spazio morale» esistente tra il dispotismo e la repubblica. Pertanto, egli auspicava la creazione di un sistema di repubbliche federate che, a suo avviso, rispetto alla soluzione unitaria, era in grado di far fronte con maggiore efficacia all’eventuale instabilità politico-istituzionale che avrebbe potuto verificarsi in seguito alla concessione della libertà a «popoli poveri e senza grande istruzione».19

Fino al 1830, dunque, l’ipotesi federalista era preponderante nell’ambito dell’esulato italiano, i cui più insigni esponenti – talvolta per radicate convinzioni personali, più spesso per ragioni di opportunità politica – la giudicavano senza dubbio preferibile all’opzione unitaria, vista dai più come un obiettivo utopistico e, non secondariamente, poco rispettoso delle profonde differenze storiche e culturali esistenti nella penisola ita- liana. Un cambiamento di rotta si ebbe però a cominciare dall’inizio degli anni Trenta e, in particolar modo, allorché la svolta moderata attuata dalla monarchia orleanista do- po la rivoluzione di luglio e il fallimento delle iniziative rivoluzionarie tentate in Italia negli anni seguenti determinarono il sorgere di una profonda e lacerante crisi all’interno delle varie correnti dell’esulato italiano. Tale processo fu di certo accelerato dal ritorno a Parigi – dopo trentacinque anni di assenza dalla capitale francese – di Filippo Buonar-

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