Raffaella Gherardi, Università di Bologna
«Il n’y a qu’une bonne politique, comme il n’y a qu’une bonne physique; c’est l’expérimentale»; questa citazione di De Maistre è inserita in nota da Marco Minghetti in una delle pagine conclusive del suo ultimo significativo scritto politico: Il cittadino e
lo Stato1 (1885). A partire dalla recensione dell’opera di Spencer su L’individuo e lo
Stato, appena tradotta in italiano, Minghetti declina uno dei temi-chiave della sua rifles-
sione politica (e specificamente quello della libertà del cittadino di fronte ai nuovi com- piti che spettano allo Stato contemporaneo) secondo il suo credo metodologico di fon- do: uno sperimentalismo capace di coniugare princìpi e dottrine alla luce di una disin- cantata analisi dei ‘fatti’. Prendendo le distanze sia dalle utopie sovvertitrici dei sociali- sti che dal liberismo più oltranzista di coloro che si richiamano al postulato delle cosid- dette «armonie economiche», Minghetti, pur tenendo fermo ai princìpi-cardine del libe- ralismo e della fiducia nel mercato e nella libera concorrenza, si propone di indagare da vicino il ruolo positivo che spetta oggi allo Stato in alcuni settori: per esempio in tema di servizi pubblici e relativamente alle più urgenti questioni che i paesi ‘civili’, Italia compresa, si trovano a dover affrontare. Fra queste la questione sociale diviene oggetto di particolare attenzione in una linea di ideale continuità con un altro organico interven- to, di pochi anni precedente, dedicato a La legislazione sociale2 (1882). Quest’ultimo
scritto viene del resto specificamente richiamato da Minghetti ne Il cittadino e lo Stato,3
anche nella terza e ultima parte, laddove egli si propone di trarre concrete indicazioni
1 M. Minghetti, Il cittadino e lo Stato, in M. Minghetti, Il cittadino e lo Stato e altri scritti, a cura di
R. Gherardi, Brescia, 2011, p. 76, nota 13. Si tratta di un articolo che Minghetti pubblica sulla «Nuova Antologia» un anno prima della sua morte. Benché non possa certo essere paragonato, quanto ad ampiezza, alle sue grandi opere politiche precedenti (Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col
diritto, pubblicata nel 1859; Stato e Chiesa, pubblicata nel 1878 e I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, pubblicata nel 1881; tutti questi scritti sono editi in M. Minghetti, Scritti politici, a cura di R. Gherardi, Roma, 1986), questo scritto è molto importante perché tratta di uno dei temi-
chiave della sua riflessione politica: quello del rapporto fra Stato e cittadino alla luce delle trasformazioni attuali del Rechtsstaat. Per la bibliografia di e su Minghetti (1818-1886) e sui lineamenti generali della sua figura come statista (fra i maggiori esponenti della Destra storica, più volte Ministro e due volte Presidente del Consiglio) e pensatore politico mi sia consentito rinviare alla voce Minghetti, Marco da me fatta per il
Dizionario biografico degli italiani, vol. 74, 2010, pp. 614-620.
2 Anche questo scritto su La legislazione sociale, è pubblicato in Minghetti, Il cittadino e lo Stato e altri scritti, pp. 99-136.
3 A questo scritto Minghetti dedica anche una nota specifica (la n. 10) poco prima della citazione di De
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sul problema affrontato dal punto di vista della politica attuale (e il confronto fra il mo- dello inglese e il modello tedesco di legislazione sociale è significativo in tal senso). Prima di procedere a delineare le diverse vie della odierna «ingerenza governativa» egli ribadisce la prospettiva generale della sua analisi:
Io credo che la determinazione dei limiti della libertà del cittadino e della ingerenza dello Stato non si possa fare a priori, ma che si debba esaminare ogni speciale que- stione, pesare e notare ogni circostanza, procedere insomma sperimentalmente. È questa la conseguenza naturale del principio che io posi sin dalle prime parole di questo scritto, cioè che il problema non si può sciogliere in modo assoluto, ma rela- tivamente alle condizioni di tempo, di luogo, di civiltà di un popolo. Laonde sarebbe impossibile lo stabilire una massima che valga sempre e dovunque, o almeno essa sarebbe troppo generale e troppo remota dalle sue applicazioni pratiche.4
Convinto che la somma degli interessi dei singoli individui non corrisponda sempre ne- cessariamente a quell’interesse generale che è compito dello Stato non perdere mai di vista, Minghetti specifica bene come il criterio della «necessità ed utilità pubblica» debba fare da costante pietra di paragone di ciò che in tempi e luoghi diversi attiene ai cittadini e alle loro associazioni o al pubblico:
Ben si può asserire che lo Stato non deve intervenire se non quando sia evidente che i privati cittadini, e le associazioni libere di essi non bastano a provvedere ad una necessità d’interesse generale; come pur può asserirsi che lo Stato non solo dee aver cura di non porre ostacoli all’iniziativa dei privati, e di non attenuarne l’efficacia, ma deve al contrario mirare ad accrescerla, cosicché la propria azione, giustificata ora dalla necessità ed utilità pubblica, possa col tempo e col progredire della civiltà scemare, e anche venire meno in quelle parti della vita civile, alle quali basti il valo- re dei cittadini singoli, o delle loro associazioni.
Del resto anche nelle sue grandi opere politiche, egli aveva costantemente tenuto fede ai princìpi appena messi in evidenza, sia che si trattasse di esaminare i compiti della eco- nomia e delle sue «attinenze colla morale e col diritto», sia i rapporti fra Stato e Chiesa, sia le indebite «ingerenze» dei partiti politici nella giustizia e nell’amministrazione. Anche per le problematiche appena richiamate Minghetti aveva poi fatto riferimento non solo al dibattito italiano e internazionale dal punto di vista teorico, ma aveva preso in esame e posto a confronto i diversi modelli politici vigenti nei più importanti paesi occidentali relativamente alle diverse questioni in campo. La necessità di declinare il tema dei rapporti fra il cittadino e lo Stato alla luce «di un esame particolareggiato dei fatti e delle circostanze nelle quali trovansi al nostro tempo le nazioni civili d’Europa» viene posta in risalto da Minghetti, al fine di poterne poi concludere «in quali parti e come la ingerenza dello Stato oggidì sia possibile e desiderabile». Egli sottolinea:
La politica sperimentale di Minghetti 161 Ma è chiaro che una simigliante trattazione oltrepasserebbe di gran lunga i termini di questo saggio, ed anzi non le basterebbe un libro. Però mi contenterò di citare bre- vemente alcuni esempi principali, come tessera che indichi il mio modo di giudicare la questione anche nella sua parte pratica e positiva.
Se in nota, a conclusione del brano appena riportato, Minghetti cita la sua confe- renza su La legislazione sociale, in perfetta sintonia con le dettagliate considerazioni che ne Il cittadino e lo Stato verranno svolte su tale tema (sia in relazione all’Italia sia ad altri paesi europei), vale la pena richiamare la priorità che egli innanzitutto indica come meritevole di essere immediatamente trattata; si tratta infatti del problema della imposizione fiscale, ritenuto fondamentale e in tema di redistribuzione delle ricchezze e nel- le sue implicazioni generali:
E comincierò dall’imposta; parendomi che nel modo di assettarla, lo Stato eserciti una influenza notevole sulla distribuzione della ricchezza. Là dove talune fonti di ricchezza non sono colpite da imposte, ed altre lo sono esorbitantemente; dove l’imposta, ancorché colpisca tutti gli abbienti, è sperequata, ivi la disuguaglianza prodotta artificialmente dallo Stato apparisce manifestamente ingiusta. Inoltre una parte delle imposte colpisce gli averi, una parte i consumi che non corrispondono in tutto ad una ricchezza, ma piuttosto ad un bisogno. Se non che tale e tanta è la diffi- coltà di congegnare una struttura di prese, onde ciaschedun cittadino dia allo Stato in ragione delle sue facoltà, che non si può sperar di conseguirlo in modo perfetto, ma solo approssimativamente; e ciò mediante la varietà e complicazione dei balzelli.5
Ora se è vero che come esponente di primo piano del pensiero politico liberale italiano Minghetti non dedica opere di grande rilievo teorico al tema delle finanze e delle impo- ste,6 occorre considerare che nella sua veste di uomo politico egli aveva costantemente
richiamato l’attenzione sulla centralità della «questione finanziaria», particolarmente in Italia, una volta portato a termine il processo di unificazione nazionale. Nella duplice veste di Presidente del Consiglio e Ministro delle Finanze egli poté dare l’annuncio del raggiungimento del pareggio nel bilancio, pochi giorni prima della cosiddetta «rivolu- zione parlamentare» del marzo 1876 che portò la Sinistra al potere. Anche successiva- mente, quando in Italia gli sembra venuto meno «il pericolo dell’odioso disavanzo» e completato «il periodo del risorgimento finanziario, duro, angoscioso, ma non senza gloria presso le generazioni future»,7 Minghetti non si stancherà mai di sottolineare
5 Il cittadino e lo Stato, pp. 73-74.
6 Alcuni suoi scritti in proposito sono tuttavia degni di nota. Cfr. in tal senso M. Minghetti, Saggio di provvedimenti di Finanza, Firenze, 1866; M. Minghetti, Dell’ordinamento delle imposte dirette in Italia;
quest’ultimo scritto, originariamente pubblicato in tre fascicoli successivi dalla «Nuova Antologia», fra 1869 e 1870, venne poi riedito dallo stesso Minghetti negli Opuscoli letterari ed economici, Firenze, 1872, pp. 329- 450.
7 Cfr. M. Minghetti, La legislazione sociale, in Il cittadino e lo Stato e altri scritti, pp. 133-134.
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l’imprescindibilità, per l’Italia come per ogni Paese civile, di un solido assetto finanzia- rio, garanzia-prima di un pacifico progresso economico e sociale, dato che «attraverso alle sdruscite finanze passano le rivoluzioni luride e sanguinose».
Tornando a Il cittadino e lo Stato e specificamente al tema delle imposte, ritenuto da Minghetti prioritario rispetto alla questione in oggetto «anche nella sua parte pratica e positiva», vale la pena sottolineare come anche a tale proposito ribadisca quella che è la sua convinzione metodologica generale: l’impossibilità, dal mero punto di vista della teoria, delle dottrine o sia pur anche della scienza, di trovare una univoca ricetta, utile alla risoluzione conclusiva dei molteplici problemi in campo. Così l’obiettivo di far sì che il «cittadino dia allo Stato in ragione delle sue facoltà» non potrà mai essere conse- guito perfettamente ma solo per approssimazione, a partire dalla concreta varietà e complicazione «dei balzelli». Minghetti tiene innanzitutto a sgombrare il campo da una male intesa idea di semplificazione, destinata a non reggere alla prova dei fatti, e speci- fica quanto segue:
Quello che a prima giunta si presenta alle menti anche più volgari come equo e suf- ficiente, cioè un’imposta unica sull’entrata di ciascheduno, alla prova fallisce. Però sono ammessi come canoni presso le nazioni civili che le imposte dirette debbano colpire ogni maniera di rendita, o venga dalla terra, o dal capitale, o dall’arte, o dall’industria, o dal lavoro, e debbano colpirla proporzionalmente; e che le imposte indirette o i dazii debbano colpire il meno possibile le derrate necessarie a mantenere la vita e di uso più comune, alquanto maggiormente le derrate utili, che arguiscono un tenor di vita agiato, in massimo grado quelle che gli Inglesi chiamano voluttuose, cioè quelle che noi cerchiamo a diletto, e che servono non a mantenere, ma ad abbel- lire la vita.8
L’esempio delle «nazioni civili» viene dunque invocato, così come in tema di legisla- zione sociale, anche per quanto riguarda le imposte dirette (e l’opzione per la propor- zionale) e indirette e i criteri di fondo cui queste ultime debbono ispirarsi. Ma a questo punto Minghetti si ritrova di fronte ad uno dei cavalli di battaglia della «scuola sociali- sta» e nella fattispecie la proposta, da parte di quest’ultima, di un’imposta progressiva. Ancora una volta, secondo il metodo che gli è proprio, egli non la respinge tanto sulla base del principio che ne sta alla base (anche se nello scritto e in tutta la sua opera egli combatte l’idea di un astratto egualitarismo e dello Stato come potente Deus ex machi-
na che si proponga di perseguire tale obiettivo), quanto per gli effetti concreti che essa
finanziari, anche in considerazione dell’interesse per le nuove scienze politiche e per la scienza delle finanze in particolare cfr. R. Gherardi, L’Italia del «risorgimento finanziario» tra scienza, dottrine e costituzione, in L. Blanco (a cura di), Dottrine e istituzioni in Occidente, Bologna, 2011, pp. 129-150. Che Minghetti fosse profondamente interessato a studi a carattere finanziario è testimoniato anche dai suoi manoscritti, conservati presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (Bcab). Il cartone n. 102, per esempio porta il titolo Studi finanziari e raccoglie appunti e studi sulle finanze e per una storia della finanza italiana (cfr. Bcab, Mss. Minghetti, n. 102, Studi finanziari).
La politica sperimentale di Minghetti 163 produce (o meglio: non produce in positivo dal punto di vista finanziario ed economico generale):
Però sulle tasse dirette la scuola socialista invoca una maggiore ingerenza dello Sta- to, a fine di eguaglianza, e vorrebbe che la tassa fosse progressiva, cioè si raggua- gliasse non già alla entità dei beni colpiti, ma alla ricchezza di chi li possiede, cre- scendo l’aliquota d’imposta secondo la scala delle ricchezza medesima. Havvi a prima giunta, e dentro limiti temperati, qualcosa di equo in questa proposta. Ma forti e varie ragioni vi si contrappongono. In primo luogo la imposta fondiaria, essendo compenso della protezione e difesa sociale dei beni, li colpisce in sé stessi, in quanto producono un reddito, non già per la qualità di essere riuniti o divisi, né per la forma dell’aggruppamento o dell’appartenenza loro, per guisa che la progressione sarebbe essenzialmente contraria alla sua natura. In secondo luogo i redditi opulenti, quelli sui quali si vorrebbe far pesare il massimo tributo, sono scarsissimi e non rappresen- tano che una minima parte del patrimonio sociale, onde l’effetto delle tasse progres- sive è finanziariamente di poco valore, o nullo. In terzo luogo se la tassa si reca ad un grado un po’elevato, riesce a spegnere lo stimolo dell’attività personale, e inaridi- sce nelle sue fonti il risparmio, e l’accumularsi dei capitali che fecondano la produ- zione, sicché è contraria al progresso e al miglioramento economico della nazione.9
Disposto a riconoscere, «a prima giunta», un certo grado di equità alla imposta progres- siva, a patto che la si applichi «dentro limiti temperati», Minghetti, pur dopo aver preso in esame le ragioni che ne sconsigliano l’applicazione dal punto di vista degli effetti pratici, porta ancora una volta alla ribalta il criterio della «esperienza», non perdendo mai di vista l’Italia. Così se da una parte egli si fa forte (a seguito del richiamo alla esperienza quale «vera e sola maestra») della citazione in nota della frase di De Mai- stre, da me richiamata in apertura, dall’altra ricorre all’esempio specifico degli Stati Uniti e della Svizzera; si tratta infatti di mostrare le misure improntate a moderazione attraverso le quali la imposta progressiva è stata effettivamente applicata nell’ambito dei paesi ‘civili’ e porre al tempo stesso in rilievo i timori che vi ha generato:
Piuttosto se vogliamo prendere la esperienza a guida, ed è la vera e sola maestra, giova volger gli occhi alla Repubblica americana ed alla Svizzera. Imperocché taluni Stati nella prima, e parecchi cantoni nella seconda hanno stanziato la imposta pro- gressiva. Quivi nondimeno essa è mite, e tale qualità le toglie molto di sua asprezza e dei suoi tristi effetti, imperocché partendosi dall’1 o dal 2 per cento va progreden- do sino al 7 o all’8 sulle maggiori fortune; in nessun luogo oltrepassa il dieci per cento, sicché a noi che abbiamo sulla ricchezza mobile il 13.20 per cento apparrebbe anche per i più colpiti un benefizio. E nondimeno nella Svizzera stessa un forte ti-
8 Il cittadino e lo Stato, p. 74.
9 Il cittadino e lo Stato, pp. 74-75. A proposito dello scarso numero di «redditi opulenti» in Italia, Minghetti
specifica in nota: «I contributi privati per ricchezza mobile in Italia, che oltrepassano il reddito annuo di lire 3000, rappresentano poco più di tre ogni mille contribuenti per detta tassa».
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more eccitato da taluni esempi s’è diffuso, che le industrie più fiorenti, per ciò solo si trasferissero a qui cantoni dove la tassa non era progressiva. E codesto timore, ge- nerato dagli interessi economici, ha siffattamente reagito contro la tendenza demo- cratica livellatrice, che in quegli stessi luoghi dove la tassa è conservata, si stempera nell’applicazione e riesce quasi inefficace.10
Prima delle considerazioni specifiche sul tema delle imposte dirette (e all’interno di queste dell’imposta progressiva) e indirette, svolte nella terza e ultima parte del suo scritto, Minghetti, già nella seconda parte dello stesso, aveva affrontato, in via generale, la «questione dell’imposta». Prima di passare dettagliatamente in rassegna le tesi soste- nute, per quanto concerne «l’azione del cittadino e l’ingerenza dello Stato», da «eco- nomisti ortodossi» (artefici del «lasciar fare, lasciar passare»), socialisti (che contrap- pongono alle «armonie economiche le antinomie») e seguaci della «scuola che s’intitola positiva», in apertura del secondo capitolo, egli sottolinea i compiti fondamentali che spettano allo Stato di diritto, e che giustificano, agli occhi del cittadino, il fatto che lo Stato stesso debba ricorrere alle imposte per potere effettivamente ottemperare a essi:
Nessuno dubita che allo Stato si appartenga la dichiarazione e la tutela dei diritti dei cittadini. In questo tutte le scuole si accordano; quindi allo Stato attribuiscono la giustizia civile e penale, la difesa esterna ed interna dell’ordine, l’esercito, la marine- ria, la diplomazia; e come conseguenza di tutto ciò la facoltà di levare una parte dei suoi averi a titolo d’imposta.11
Ma di fronte alle nuove funzioni degli Stati contemporanei che, ai fini dello «svolgimento della vita civile», rendono necessaria una «spesa comune»,12 Minghetti mette bene in evi-
denza come il prelievo fiscale sia destinato a crescere; si tratta infatti di sostenere i costi dell’intervento, da parte degli stessi Stati, nelle sfere della sanità e dell’istruzione, di «isti- tuti di previdenza» e sul terreno della legislazione sociale in senso lato:
Innanzitutto giova fermamente ammettere che in tutte queste categorie di uffici, lo Stato si propone un fine che trapassa la tutela del diritto; ed è quello di aiutare e sol- levare i poveri di avere o di spirito, dirimpetto a quelli che dell’uno e dell’altro sono
10 Il cittadino e lo Stato, pp. 76-77. 11 Il cittadino e lo Stato, p. 47.
12 Scrive Minghetti: «Allo svolgimento della vita civile si oppongono forti ostacoli dalla natura; né questi
possono sempre dai cittadini singoli o anche dalle associazioni loro essere superati; ed allora, se non da tutti, certamente dai più si concede che lo Stato possa rimuovere tali ostacoli a benefizio e spesa comune. Da ciò vengono i lavori pubblici, come porti, strade, risanamento di luoghi paludosi e via dicendo. Similmente, allo svolgimento della vita civile occorrono certe notizie, che nessun altro che lo Stato può fornire, sì per l’autorità che possiede di richiedere dette notizie, sì perché essendo centro della società, esso solo può da ogni parte di essa raccoglierle e compararle. Nessun privato e nessuna associazione libera potrebbe riunire e pubblicare tutti qui dati di statistica meteorologica, sanitaria, commerciale, finanziaria, civile, onde ogni cittadino si trova quotidianamente, e dai quali trae indirizzo o consiglio alle sue opere per fine di utilità» (Il cittadino e lo
La politica sperimentale di Minghetti 165 abbondevoli; e giova chiarire che lo Stato non avendo una ricchezza sua propria si serve di mezzi prelevati mediante l’imposta dai cittadini contribuenti. Adunque il compito suo in tutti questi punti potrebbe definirsi così: un conato (nei limiti del giu- sto e del possibile) verso la eguaglianza dei cittadini per due modi, cioè positiva- mente e negativamente: positivamente, sollevando e aiutando i bisognosi, negativa- mente, scemando i profitti dei facoltosi col togliere loro mercé l’imposta una parte dei beni onde abbondano, per provvedere ai fini sopra indicati.13
Più avanti Minghetti ribadirà le critiche dei liberisti ortodossi, secondo i quali (tenuto conto che lo Stato «nei tempi moderni non ha più un patrimonio, come aveva nel medio