Michele Amari e l’Unità d’Italia: annessione e autonomia
5. Verso l’unitarismo: annessione e autonomia
La dura esperienza quarantottesca e il monito lanciato dagli ultimi difensori in Sicilia, a Roma e a Venezia spingono Amari a rivedere il suo progetto politico. Si convince ormai che l’ondata rivoluzionaria in Europa si deve svolgere senza compromessi con il passato
29 Romeo, Michele Amari, pp. 177-178.
30 Crisantino, Introduzione agli «Studii su la storia di Sicilia della metà del XVIII secolo al 1820», pp. 288 ss. 31 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. I, p. 571, Amari a Mariano Stabile, Parigi, 14 maggio 1849. 32 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. I, p. 582, Amari a Giovanni Arrivabene, Parigi, 6 agosto
1849.
33 Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, pp. 321-322. Cfr. anche S. Lupo, Regione e nazione nel «Risorgimento in Sicilia», «Storica», 8 (2002), n. 24, pp. 7-30.
Michele Amari e l’Unità d’Italia 19 e che per l’Italia ciò significa unitarismo democratico al di là dei particolarismi regionali, e anzitutto di quello siciliano. Nell’acquisita persuasione che non c’è più margine per il principio di autorità rappresentato dalle monarchie, sia pure costituzionali, Amari si avvi- cina al mazzinianesimo e contribuisce alla sua diffusione con la redazione di vari scritti destinati a circolare clandestinamente. Il più importante è il Manifesto dell’associazione generale italiana, il Comitato siciliano, nel quale lo storico, esaminata la questione se l’Italia debba essere uno Stato unitario o una federazione, risponde che la decisione è de- mandata all’Assemblea costituente composta dai rappresentanti di tutti i popoli italiani. La sua propensione è verso forme federative, che ha espresso in maniera cauta nel 1847 al momento della pubblicazione del saggio di Palmeri. Ora vi ritorna con il conforto e la co- noscenza meno superficiale delle vicende della Federazione americana. Nella introduzio- ne, compilata nel 1854, all’edizione della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America di Carlo Botta (Firenze 1856), Amari vede nel repubblicanesimo federa- lista il nuovo sbocco del problema siciliano.34
Frustrato dalla disavventura del 1848-49, Amari vuole chiudere la sua battaglia poli- tica contro i Borbone di Napoli. Meglio se questa fosse finita con il binomio Italia e Re- pubblica, dopo la parentesi Sicilia e Costituzione. Se gli eventi avessero dimostrato, come dimostreranno, la possibilità della distruzione del regime borbonico con un assetto mo- narchico, egli sarebbe stato disponibile. Dotato di senso pragmatico, Amari negli anni successivi abbandona l’utopismo dottrinario e aderisce alla prospettiva unitaria sotto la guida di Cavour per realizzare «una patria che si è allargata di confini».35
Negli Appunti autobiografici Amari fa risalire la svolta al 1858, dopo aver conosciu- to «le disposizioni dei popoli e i preparamenti del Piemonte».36 Sempre in questo anno
Alessandro D’Ancona assume il patrocinio per la sua sistemazione a Torino con l’assegnazione di un insegnamento universitario. Agli inizi del 1859 la Società ligure di Storia patria a Genova nomina l’esule siciliano socio onorario. In questa città si trova l’altro Michele Amari, il conte di S. Adriano, vicino al circolo di Cavour e alla Corte, che da qualche tempo ha infittito la corrispondenza con il suo omonimo. Ambedue ormai si trovano sulle stesse posizioni: unità e forti autonomie per la Sicilia.37 Nel maggio lo stori-
co ottiene dal governo provvisorio di Toscana la cattedra di Lingua e Storia araba all’Università di Pisa e nel dicembre il trasferimento all’Istituto di studi superiori e di per- fezionamento di Firenze.
Nonostante gli ammonimenti dei moderati di non iniziare alcun movimento, il 4 apri- le scoppia a Palermo l’insurrezione della Gancia. Intanto a Genova, a Pisa e a Firenze si costituiscono dei comitati per aiutare il movimento insurrezionale. Di quello fiorentino Amari è segretario e cassiere, accettando la linea unitaria di La Farina ma non rompendo con il fronte degli autonomisti siciliani.
Il 13 giugno, da Firenze, lo storico comunica al conte Amari la decisione di partire per la Sicilia e l’atteggiamento duttile sul problema delle autonomie: «Una volta in Sici-
34 G. Astuto, Garibaldi e la rivoluzione del 1860. Il Piemonte costituzionale, la crisi del Regno delle Due Sicilie e la spedizione dei Mille, Acireale-Roma, 2011, pp. 39 ss.
35 G. Grassi Bertazzi, Vita intima. Lettere inedite di Lionardo Vigo e di alcuni illustri suoi contemporanei,
Catania, 1896, p. 162, Amari a Vigo, Parigi, 3 maggio 1856.
36 Amari, Diari e appunti autobiografici inediti, p. 179.
37 S.F. Romano, Amari Michele, conte di S. Adriano, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. III, Roma,
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lia, – scrive – dirò il parer mio, che tu sai: annessione al Piemonte; le franchigie munici- pali simili alla vantata autonomia toscana mi premono poco, ma non le respingo al tutto, perché voglio l’Italia una, ma senza amministrazione accentrata».38
La lettera s’incontra con l’altra del cugino Amari che lo invita a recarsi a Torino, ove il ministro Farini desidera vederlo e presentarlo a Cavour (presso il quale egli stesso ritie- ne di avere ascolto).39 Il conte durante l’incontro avanza la proposta di convocare il Par-
lamento siciliano, perché lo ritiene uno strumento conforme alla legalità e ben accetto all’Inghilterra, ma lo storico paventa i pericoli di questa iniziativa, sostenendo l’annes- sione per plebiscito, «non immediata come procacciava la Società nazionale», ma dopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria.40 Cavour, con molta probabilità, lo avrà incoraggiato a
impegnarsi per l’esecuzione di questo progetto. Da qui deriva l’abbandono del proposito che si è ripromesso di non coprire cariche pubbliche («Gli attori buoni o cattivi del 1848 non debbono tornare in su la scena se non chiamati»).41 Il 10 luglio, dopo l’espulsione di
La Farina e le dimissioni del governo, Garibaldi lo invita ad assumere la guida di un mi- nistero. Di fronte al suo rifiuto e di altri rappresentanti, il dittatore «disse loro apertamen- te che avrebbe composto un ministero coi suoi ufficiali di Stato maggiore».42 Piegatosi
alle sollecitazioni del dittatore, lo storico accetta di guidare, prima, il ministero della Pub- blica Istruzione e poi quello degli Esteri.
Proprio in quei caldi mesi dell’estate memorabile, Amari dà alle stampe un saggio storico-politico per spiegare il suo programma ad un pubblico più vasto. Vi riafferma la necessità dell’unità della Sicilia alle province emancipate dell’Italia, ma ammonisce che la causa prima della rivoluzione del 1860, come già nel 1820 e nel 1848, è stato l’odio profondo verso il centralismo napoletano. Nella lotta i Siciliani venuti da molte parti dell’isola hanno visto «il soldato regio per bersaglio [...] e la cacciata della Polizia»: «in atto – scrive – erano i regi che combattevano, i loro nemici di un secolo, e tanto era ba- stevole per animarli e, purché potessero metterli in fuga, l’avvenire comunque si presen- tava, era sempre migliore. Questo sentimento era non solo generoso ma utile».43
Per queste ragioni Garibaldi ha avuto tanta presa, tanta carismatica ascendenza sulle popolazioni non politicizzate. Cosa vuole la Sicilia da Napoli? Secondo Amari, questa chiede amministrazione separata e rappresentanza regia con i poteri connessi, che il go- verno napoletano ha ostinatamente respinto. Da qui è derivata la rivoluzione. Non si rica-
38 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. II, Torino 1896, pp. 94-95, Amari al conte Michele Amari, 13
giugno 1860.
39 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. II, Torino 1896, p. 95, il conte Michele Amari ad Amari,
Torino, 14 giugno 1860.
40 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. III, Torino 1907, p. 231, Amari a [?], Firenze, 10 gennaio
1862. Negli Appunti autobiografici così Amari ricostruisce l’incontro con Cavour: «Ai primi avvisi dell’entrata di Garibaldi in Palermo ci eravamo trovati appositamente pochissimi siciliani in Torino e invitati da Cavour si era tenuta una conferenza in casa sua: oltre La Farina v’era Francesco Perez, il principe di San Giuseppe ed altri. Cavour poneva il partito di conservare il Parlamento siciliano secondo la forma del 1812 o del 1848: questa forma legale egli diceva non poteva non piacere al governo inglese. Lo dicesse da senno o per tastare le acque, molti l’approvavano, io sursi contro acerbamente mostrando i pericoli di una Assemblea così composta la quale sarebbe stata mossa da false idee locali anzi che dal vasto concetto della nazione italiana. E Cavour assentì» (Amari, Diari e appunti autobiografici inediti, p. 181).
41 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. II, p. 95, Amari al conte Michele Amari, 13 giugno 1860. 42 D’Ancona, Carteggio di Michele Amari, vol. II, Elogio di Michele Amari, letto da A. D’Antona
nell’adunanza della R. Accademia della Crusca (21 dicembre 1890), p. 361.
Michele Amari e l’Unità d’Italia 21 da nello stesso errore – ammonisce Amari –, non si sostituisca al centralismo napoletano quello piemontese. Il centralismo può andare bene per le regioni continentali d’Italia, specie quelle a Nord dell’Appennino che possono annettersi indiscriminatamente al Pie- monte, perché in tal caso la fusione è legata alla realtà geografica. Non è auspicabile in Sicilia che per la sua topografica posizione, per la natura e i costumi, presenta condizioni e leggi diverse.
La Sicilia – scrive Amari – potrà bene aggregarsi, ma non mai fondersi col conti- nente italiano. [...] Per quanto vuol supporsi potente il sentimento della nazionalità, dico meglio di aggregazione, che debbono avere i popoli di una stessa geografica divisione, noi Siciliani non saremo mai i primi a posporlo a quello della propria au- tonomia quando questa autonomia si è posseduta per secoli ed è stato per noi un vanto più illustre di nostra storia.
[...] Ora se egli è vero che l’indipendenza sia il nostro bisogno, il nostro interesse, mentre al contrario si è l’annessione al Piemonte la condizione sottintesa dell’aiuto prestatoci, la combinazione politica che solo può liberarci dalla prossima temuta in- vasione, una sola combinazione vi ha che l’uno e l’altro interesse può conciliare. Se la confederazione è impossibile, per come ormai si crede comunemente, conservia- mo almeno nell’annetterci al Piemonte quella nostra intera autonomia che tanto ge- losamente tentammo sinora di custodire: in altri termini offriamo al Piemonte solo quel tanto che è indispensabile per l’unità politica della monarchia che in altri tempi avremmo tollerato che Napoli avesse avuto.44
L’atteggiamento di Amari a favore dell’autonomismo o della separazione amministrativa è netto. Il centralismo, viceversa, costituisce una mortificazione per le aspirazioni profon- de dei Siciliani. E perciò esorta: «se è pur mestieri che la corona di Ruggiero, di Federico, di Pietro d’Aragona non più posi in Sicilia nella Reggia dei Normanni, conserviamo al- meno le leggi nostre, la nostra rappresentanza, la truppa ancora se è possibile».45 Solo una
struttura statale articolata può risolvere il problema italiano. Per unità non si deve far rife- rimento ad unico centro, bensì all’unione di popoli diversi i quali, avendo lo stesso fine della difesa comune, si uniscono in tutto quanto può costituire una tale difesa per avere una forte rappresentanza tra le potenze europee: «L’Italia potrà essere forte, indipendente, una ancora se si vuole, senza che per questo sia necessario che il Parlamento residente in Torino, detti le leggi da osservarsi in Sicilia, e un ministro da quella capitale ne sorvegli l’adempimento».46 Affermata la necessità dell’autonomia, Amari propone di votare
l’annessione ma tramite l’intervento di un’Assemblea nazionale che «stabilisca i patti sot- to i quali una tale annessione dovrà effettuarsi»: «ogni altra votazione, – così termina lo scritto – per la laconicità della sua formula non potrebbe giammai rendere netti ed interi i desideri del popolo».47 Con questo programma, il ministro Amari è entrato a far parte del
governo dittatoriale.
44 Amari, Sulla annessione e l’autonomia, pp. 53-54. 45 Amari, Sulla annessione e l’autonomia, p. 57. 46 Amari, Sulla annessione e l’autonomia, p. 55. 47 Amari, Sulla annessione e l’autonomia, pp. 56-57.
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