i comuni contro l’«omnibus» finanziario di Sella
2. L’«omnibus» finanziario Sella e l’uso delle petizion
Nel marzo del 1870 Quintino Sella, all’epoca ministro delle Finanze nel governo Lan- za, presentò alla Camera dei deputati, con il rendiconto finanziario dal 1862 al 1867 e la situazione di tesoreria per gli anni 1868 e 1869, una serie di misure per ottenere il pareggio del bilancio.13 Quello che fu definito ‘l’omnibus finanziario Sella’ prevedeva
– tra l’altro – la riduzione delle spese militari e civili, un maggior gettito dalla tassa sul macinato e dalle tasse di registro e di bollo, l’aumento della tariffa del dazio consumo governativo e dell’aliquota erariale applicata ai redditi di ricchezza mobile.
Se le finanze locali, regolate dall’articolo 118 della legge comunale e provinciale del 1865, avevano trovato la loro principale fonte d’entrata nella sovrimposizione a contribuzioni statali – la fondiaria (terreni e fabbricati), la ricchezza mobile e i dazi di consumo14 –, la terza guerra d’indipendenza, prima, la necessità di raggiungere il pa-
reggio del bilancio, poi, avevano indotto i governi ad addossare agli enti locali spese che sarebbero dovute rientrare nella competenza dello stato e, inoltre, ad avocare allo stato stesso importanti voci di reddito. A questo riguardo, dopo avere ripetutamente ri- dotto i centesimi addizionali che comuni e province potevano complessivamente so- vrimporre alla tassa di ricchezza mobile, i provvedimenti finanziari proposti da Sella intendevano togliere definitivamente la facoltà di tale sovrimposizione,15 andando a col-
pire soprattutto i comuni urbani, dove maggiori erano gli introiti.
Contro quest’ultima disposizione, confluita in un progetto di legge distribuito ai deputati nella seduta del 28 marzo, numerosi municipi reagirono inviando al parlamen- to petizioni in nome collettivo, perché i sindaci o le giunte le sottoscrivevano per conto dei consigli comunali e, quindi, dell’intero elettorato.
13 Cfr. Atti ufficiali del Parlamento italiano. Camera dei deputati, legislatura X, Firenze, s.d. [d’ora in avanti Atti Camera], tornate 10-11 marzo, pp. 211 ss. Sulla politica fiscale negli anni considerati si rimanda a
G. Marongiu, Storia del Fisco in Italia, I, Torino, 1995 e a G. Marongiu, La politica fiscale dell’Italia
liberale dall’unità alla crisi di fine secolo, Firenze, 2010.
14 I comuni, oltre a istituire dazi di consumo in aggiunta a quelli governativi, potevano imporre modesti
tributi autonomi. Sulla fiscalità locale si veda, da ultimo, G. Marongiu, Storia dei tributi degli enti locali
(1861-2000), Padova, 2001, pp. 13 ss.
15 Nel 1866, l’addizionale sovrimponibile ai redditi di ricchezza mobile era stata contenuta a 50 centesimi.
Inoltre, l’introduzione della riscossione per via di ritenuta, limitatamente a pensioni, stipendi e assegni a carico dello stato, aveva diminuito l’imponibile su cui gli enti locali potevano sovrimporre. L’anno successivo, per giunta, il provvedimento fu esteso agli stipendi degli impiegati comunali e provinciali. Nel 1868, poi, l’addizionale era ridotta da 50 a 40 centesimi e i titoli di debito pubblico assoggettati a ritenuta alla fonte, contraendo ulteriormente le basi imponibili di sovrimposizione locale. Va ricordato, peraltro, che nel 1866 era stata accordata ai comuni la facoltà di imporre addizionali alle imposte (all’epoca governative) su vetture e domestici e di attivare un’imposta sul valore locativo, mentre nel 1868 i comuni furono autorizzati ad applicare le imposte di famiglia e sul bestiame.
Elisabetta Colombo 108
Lo Statuto, in effetti, non operava una distinzione fra la petizione-plainte e quella su oggetti generali o pubblici. Pertanto, che fossero i primi cittadini in nome di intere collettività a presentare petizioni, non comportava alcuna differenza sul piano formale. Furono semmai la quantità e la species delle petizioni redatte a costituire un formidabi- le atto di pressione, sia per il numero dei soggetti rappresentati dai petenti sia per le specifiche competenze tecniche dei firmatari, qualificati dall’incarico amministrativo ricoperto.
Quanto ai destinatari, sebbene lo Statuto ammettesse l’invio di petizioni a entram- be le assemblee legislative, in nessun caso le petizioni potevano passare da una camera all’altra e venivano vagliate dal ramo del parlamento a cui erano state consegnate.
Di fatto, pochissimi comuni inviarono una petizione al Senato,16 limitandosi i più –
anche nel caso di petizioni genericamente indirizzate al parlamento – alla sola trasmis- sione alla camera elettiva. Non pesò, evidentemente, la considerazione che il Senato si dedicasse con costanza all’esame delle petizioni, mentre la Camera non riusciva a smaltire gli arretrati, forse anche perché, per prassi, non archiviava le petizioni al chiu- dersi della sezione (come all’opposto faceva il Senato) e informava direttamente i fir- matari delle deliberazioni assunte dall’assemblea.17
Che, nel corso degli anni, i firmatari avessero accordato la loro preferenza alla Camera dei deputati piuttosto che al Senato è attestato dai numeri. Nel primo cinquantennio del re- gime statutario, infatti, il Senato ricevette 6.528 petizioni, la Camera quattro volte di più.18
Analoga scelta operarono i comuni nel 1870. Sulla scelta influirono, probabilmen- te, gli esempi offerti dai municipi di Parma e di Milano, a cui – come si dirà – molte delle petizioni si richiamarono, ma soprattutto la preminenza della camera rappresenta- tiva rispetto a quella di nomina regia, e – non meno importante – la circostanza che il progetto di legge fosse allo studio nella prima.
La giuspubblicistica ha rilevato come proprio le petizioni «che tend[eva]no a so- stenere o combattere disegni di legge in corso di studio o particolari soluzioni nei me- desimi, [fossero] le più fortunate, in quanto sopraggiung[eva]no sempre in un momento propizio e ri[usciva]no perciò a spiegare un certo influsso sopra l’opera della Camera», così da potere «riuscire di somma utilità e [pervenire] più di tutte le altre a fermare l’attenzione della Camera» stessa,19 che infatti riferiva regolarmente delle petizioni re-
lative a disegni di legge durante la loro discussione.
Come rimarcato, l’articolo 57 dello Statuto riservava particolare evidenza alla pro- cedura d’esame delle petizioni da parte delle camere. La cura a definire norme procedu- rali – in una carta che si connotava per la sua brevità – sembrerebbe attestare il rilievo
16 Al Senato fu data lettura in sunto delle petizioni: del sindaco del Comune di Genova (n. 4305) il 30 marzo;
del Comune di Palermo (n. 4314) (Petizione a stampa mancante dell’autenticità della firma) il 26 aprile; della giunta municipale di Livorno (n. 4319) il 3 maggio; dei consigli comunali di Serra-Capriola (n. 4322) il 9 maggio, di Parabita (n. 4324) il 27 maggio, di Reggello (n. 4332) il 31 maggio, di Monte San Savino (n. 4334) e di Bagno a Ripoli (n. 4335) il 1° giugno. Cfr. Atti parlamentari. Senato del Regno, legislatura X, II sessione [d’ora in avanti Atti Senato], pp. 267, 307, 351, 368, 387 e 395.
17 Su tali profili si rimanda a F. Racioppi e I. Brunelli, Nozione, fondamento, importanza odierna del diritto di petizione, in Commento allo Statuto del Regno, III, 1, Torino, 1909, pp. 138 ss.
18 I dati sono ripresi in Commento allo Statuto del Regno, III, 1, pp. 140-141. 19 Commento allo Statuto del Regno, III, 1, p. 145.
Le petizioni in nome collettivo 109 politico-sociale connesso al diritto. Nel dettaglio, il vaglio delle petizioni era affidato a una giunta permanente, che doveva riferirne all’assemblea perché decidesse se prender- le in considerazione.
In pratica, l’obbligo dell’esame si limitò spesso a una mera deliberazione di ordine del giorno,20 ossia a una semplice presa d’atto che, depotenziando il diritto di petizione,
lo privava di effetti pratici e gli attribuiva una funzione meramente strumentale e suggeritiva. Viceversa, la presa in esame poteva concretarsi in una valutazione nel merito. In tal caso, le petizioni che richiedevano provvedimenti legislativi non di prossima pre- sentazione erano depositate negli uffici «per gli opportuni riguardi»,21 mentre quelle
che si riferivano a un progetto di legge allo studio dovevano essere rinviate alla com- missione chiamata ad esaminare il progetto stesso.22 Ancora, le petizioni relative a ma-
terie spettanti all’esecutivo, su cui il governo stava per legiferare o su cui le camere de- sideravano si legiferasse con sollecitudine, dovevano essere consegnate al ministro competente.
Ulteriori modalità procedurali erano contemplate nei regolamenti delle camere. All’inizio di ogni tornata, in particolare, dopo la lettura del processo verbale e le co- municazioni della presidenza, un segretario doveva compendiare i contenuti delle peti- zioni presentate dopo l’ultima seduta. Terminato l’annuncio, ciascun parlamentare po- teva richiedere una dichiarazione d’urgenza, che però – è stato scritto –, sovente con- cessa, «non [aveva] la minima portata pratica» e, dunque, costituiva un «semplice atto di cortesia verso i postulanti».23