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DAVANTI AL TRIBUNALE

2. Il rinvio alla disciplina dell’appello nel rito ordinario

L’art. 20 rinvia al codice di rito per quanto riguarda la forma dell’appello, i ter- mini per impugnare, il giudice ed il procedimento.

Il 1° e il 2° co. della disposizione richiamano infatti gli artt. 325 ss. c.p.c. e, in quanto compatibili, gli artt. 341 ss. c.p.c.2.

1Secondo RONCO, sub art. 20, d.lgs. 5/2003, in CHIARLONI(a cura di), Il nuovo processo societa-

rio, Bologna, 2004, par. 1, la circostanza che la legge di delega non abbia dettato alcun principio di-

rettivo in merito ed anzi non abbia neppure mai menzionato il giudizio di secondo grado, rende so- spetta di incostituzionalità per contrasto con l’art. 76 Cost. la scelta di aver dettato modifiche, sia pur piccole, rispetto alla normativa sull’appello dettata dal codice di rito. Sarebbe però da salvare «l’al- largamento degli spazi di praticabilità del ricorso per cassazione immediato» operato dal 4° co. del- l’art. 20 «a quello scopo di “più rapida ed efficace definizione dei procedimenti” che il 1° co. dell’art. 12 della legge delega indica come obiettivo principale delle norme sul processo societario: è infatti evidente che la riduzione dei gradi di merito della controversia ad uno soltanto contrae (almeno in linea di massima o tipologicamente) i tempi per la formazione della cosa giudicata».

2La commissione parlamentare incaricata di redigere la relazione sullo schema di decreto

approvato dal Consiglio dei Ministri in data 30 settembre 2002, aveva espresso, al punto 26), pa- rere contrario, in relazione all’art. 20, 1° e 2° co., suggerendo la loro riformulazione nei termini seguenti: «1. Si applicano all’appello i termini e le disposizioni di cui agli artt. 325 ss. e 342 ss. c.p.c.». Il Governo ha però ritenuto di non seguire l’indicazione, tanto che il testo approvato dal

Ciò significa che il gravame deve proporsi alla corte d’appello, notificando all’appellato atto di citazione entro trenta giorni da quando questi abbia notifi- cato all’appellante la sentenza di primo grado o, in mancanza, entro un anno dal deposito di questa in cancelleria. Così instaurato, il giudizio di appello dovrà poi svolgersi secondo le regole oggi vigenti per il rito ordinario, compresa quella del divieto, tendenzialmente assoluto, di domande, eccezioni e prove nuove sancita all’art. 345 c.p.c. dalla riforma del 19903. Questo, nonostante che il progetto di

riforma complessiva del codice di procedura civile elaborato dalla Commissione Vaccarella auspichi, per il rito ordinario, la revisione del «regime delle novità, escludendo in linea di principio le nuove domande, ed ammettendo le nuove al- legazioni e le nuove prove»4, con conseguente ripristino del sistema dell’«appel-

lo aperto», ferma restando la sola preclusione a nuove domande5.

Nessun cenno si trova in ordine all’applicabilità dell’art. 283 c.p.c., in tema di inibitoria alla provvisoria esecuzione della sentenza appellata, di collocazio- ne eccentrica rispetto alle norme sulle impugnazioni e sull’appello. Ma pare in- dubbio che, per quanto non espressamente richiamata, la disciplina secondo cui il giudice dell’appello, su istanza di parte, proposta con l’impugnazione, quando ricorrono gravi motivi, sospende in tutto o in parte l’efficacia esecuti- va o l’esecuzione della sentenza impugnata, sia applicabile in forza del richia- Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 2003 non si discosta da quello approvato il 30 settembre 2002 se non per il giusto rinvio anche all’art. 341 c.p.c., la cui opportunità non era stata peraltro colta in sede parlamentare. La differenza tra il testo suggerito dalla commissione parlamentare, più sinte- tico, e quello adottato dal Governo, pare ad ogni modo di mero stile, in quanto comunque, anche omettendo la relativa clausola, difficilmente non si sarebbe potuto tener conto della riserva di compatibilità nel richiamare le disposizioni del codice di rito.

3In proposito, VACCARELLA, La riforma del processo societario: risposta ad un editoriale, in

Corr. giur., 2003, 262, ha precisato che «l’introduzione dei nova in appello era ben difficile in as-

senza di qualsiasi riferimento all’appello da parte della legge delega».

4Cfr. la lett. f) del punto 32) della proposta presentata alla stampa il 12 luglio 2002, oggi rece-

pita nella lett. f) dell’art. 30 del d.d.l. delega C. 4578/XIV.

5Nelle note illustrative al progetto, la Commissione Vaccarella spiega che la scelta, sul tema dei

nova in appello, del ritorno, sostanzialmente, alla disciplina antecedente alla riforma del 1990 «è

motivata dalla profonda convinzione che la figura del litigante, il quale volutamente riserva le sue armi migliori all’appello, esiste solo nella fantasia di chi non ha mai praticato le aule della giustizia. Oltretutto, l’esecutività ex lege delle sentenze di condanna pronunciate in primo grado costituisce il miglior argomento contro l’opinione che ritiene necessario – al fine di “valorizzare” il processo di primo grado – restringere l’ambito delle novità proponibili in appello. Né, infine, ha pregio l’argo- mento, secondo il quale la presenza di preclusioni in primo grado impedisce logicamente che sia possibile fare in appello ciò che non si può più fare nella precedente fase: infatti, ben è possibile concepire che il processo di primo grado, giunto ad un certo stadio, si chiuda alle novità, ma che tali novità tornino proponibili, una volta che si apra il processo di appello. Tale fenomeno esisteva, sen- za che nessuno ne abbia menato scandalo, anche nel processo di primo grado antecedentemente al- la riforma del 1990: con la precisazione delle conclusioni si precludevano le ulteriori allegazioni e ri- chieste istruttorie, le quali tornavano ad essere proponibili in appello. Se, dunque, una delle parti – presumibilmente quella che è rimasta soccombente – vuole proporre in appello nuove allegazioni o nuove prove, non si vede perché mai ciò debba esserle impedito: salva, ovviamente la possibilità di tener conto della tardività ai fini delle spese».

mo generale alle disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compa- tibili, operato, per quanto non diversamente disciplinato, dal 4° co. dell’art. 1.

Grazie al medesimo rinvio generale alle norme del codice di rito, debbono inoltre ritenersi applicabili (nonostante il fatto che il 2° co. dell’art. 20 richiami gli artt. 341 ss., trascurando così le disposizioni immediatamente precedenti) pure il 2° co. dell’art. 339 e, almeno in parte, l’art. 340 c.p.c.

Se infatti ha un senso escludere l’applicabilità del 1° e del 3° co. dell’art. 339 c.p.c., che si riferiscono, rispettivamente, ad una regolamentazione sostituita dalla specifica disciplina del ricorso per cassazione omisso medio dettata dal 4° co. dell’art. 20 e alle sentenze del giudice di pace, nessuna giustificazione avrebbe togliere di mezzo il 2° co. dell’art. 339 c.p.c., rendendo così appellabili le sentenze pronunciate secondo equità su richiesta delle parti. Ciò entrerebbe anzi in contrasto con i principi di rapida ed efficace definizione dei processi e di concentrazione voluti dall’art. 12 della legge delega6.

Quanto poi all’art. 340 c.p.c., se può apparire ragionevole escludere la riserva facoltativa d’appello contro le sentenze non definitive in relazione alle «ordi- nanze», espressamente qualificate come «non impugnabili»7, pronunciate su do-

manda congiunta delle parti ex art. 11, 2° co., non si capisce perché mai non per- mettere l’operatività dell’istituto del differimento dell’impugnazione quando, come consentito dal 4° co. dell’art. 16, all’udienza di discussione il giudice abbia subito assunto in decisione, a norma dell’art. 187, 2° e 3° co., c.p.c., questioni pre- giudiziali di rito, come quelle attinenti alla giurisdizione o alla competenza, pro- nunciando sentenza parziale8.

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