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C.M. – Stefano Rossi poeta o ex poeta milanese, questo lo scopriremo, carissimo amico. Raccontami della tua biografia poetica.

S.R. – La cosa è molto vasta, per la verità, ma non la farò troppo lunga. Io fin da bambino, diciamo dalla quinta elementare, in realtà anche prima, ero fra i pochissimi che nella classe scrivevano poesie. In maniera abbastanza costante, anche se non ero l'unico. Era una cosa ben accettata da una maestra, molto molto brava

La cosa è cominciata lì e aveva, soprattutto in quinta una certa costanza e continuità, che è stata persa nell'arco di età dai 10 ai 15 anni. È venuta meno la costanza e la continuità non – in senso in assoluto – lo scrivere poesia. L'origine in questo momento non la ricordo, ma la colloco abbastanza bene nell’ambito di quelle che già allora consideravo come le mie prime poesie: in seconda elementare.

Poesie tristissime. Una si concludeva dicendo “Quel lume di speranza che non mi lascerà. Io trovo nelle cose più piccole innocenti quel lume di speranza che mi fa stare restare uomo”. Non ricordo il pezzo iniziale.

Non era qualcosa da genio di baraccone, era una cosa che alcuni bambini della classe facevano. La maestra mi incoraggiava, come incoraggiava anche altri.

C.M. – Com'è possibile che un bambino di, grosso modo, otto anni si metta a scrivere poesie? C'è un maestro, un ambiente culturale che valorizza questo gesto, qualcuno che lo incoraggia?

S.R. – Che lo valorizza, sì. Che lo incoraggia, anche, ma secondo me in maniera molto indiretta. Che si leggessero poesie direi proprio di no. Cose simili ad esercizi di scrittura poetica meno che mai, assolutamente. C'era certo un'atmosfera d'assieme assolutamente molto molto vitale. Molto valorizzante. C'era il tempo pieno per cui la scuola occupava una parte forte della mia vita. Anche il sabato si andava al mattino.

Alle elementari c'era un riconoscimento pubblico, anche se soltanto all'interno della classe. Si usava il sistema della tecnica Freinet per cui c'era la stampa e venivano stampate tante cose. Ovviamente le cose più belle pensieri, temi eccetera e, fra queste, spesso le mie poesie. Per cui me le ritrovavo stampate.

Poi c'è stata questa interruzione, ti ripeto, parziale. Dopodiché intorno ai 14–15 anni la cosa è ripresa in maniera direi costante, per cui di fatto ho cominciato a scrivere su quadernini, quaderni che conservo tutt'ora dal primo all'ultimo, e la cosa è diventata veramente una costante della mia vita. Scrivevo ogni mese almeno 6–7 poesie; a volte di più a volte di meno. Dopo di che c'era anche un senso critico, limitato e relativo, però di quello che scrivevo io stesso dicevo subito: "alcune cose mi piacciono altre molto meno, alcune anche per niente." Era un modo di esprimermi costante, era per me una grossa certezza.

Questa costanza è ritornata alle scuole superiori. Ho fatto il classico, però non l'ho finito, ho preso una maturità magistrale. Ho fatto però quattro anni di liceo classico.

C.M. – Era anche in questo caso un ambiente che stimolava la produzione poetica?

S.R. – No assolutamente. Molto spesso allora la poesia si rivolgeva contro la situazione. Mi ricordo una poesia, che non mi piace adesso, non mi piaceva particolarmente neanche allora, però la tenevo come testimonianza. Parlando della professoressa di latino greco diceva: "Era come una cagna, morsicava prati e nuvole rosa. Per mille labirinti impazziti correva il suo cervello malato, ma il guaio è che col contatto elettrico ci ha trasmesso un male sordo antico: il suo odio che si tingeva di fumo".

Questa poesia non mi è mai piaciuta molto. In un'ipotetica selezione non l'avrei mai inserita, però mi rendevo conto che faceva bene, me la dicevo con soddisfazione rivolta contro questa persona.

C.M. – Vorrei soffermarmi su questo periodo. Alle scuole superiori, così come in parte alle medie, c'è in teoria l'incontro con la poesia prevista dai programmi didattici. È stata alimentata la tua passione da questi incontri o era solo un aspetto scolastico? Hai incontrato e approfondito grande poeti?

S.R. – No, direi che al 90% è stata una cosa esclusivamente scolastica. A parte proprio due o tre testi che già allora mi piacevano molto e che amavo ripetere, di Dino Campana e di Montale.

C.M. – Quindi la tua passione, la tua formazione alla poesia è andata tutto sommato piuttosto parallela alla scuola, a parte le scuole elementari dove in qualche modo è stata accolta e alimentata?

S.R. – Sì, sicuramente! Alle scuole elementari è stata accolta e alimentata, alle scuole medie abbastanza ignorata, e alle superiori decisamente in contrapposizione. Poco dopo questa ripresa costante personale della scrittura io ho conosciuto il poeta che più ho amato e che stato per me un riferimento. Con problemi di valutazione. Perché mi sono detto: "non faccio che scopiazzare questo poeta, sono un vero disastro". Insomma tutta la tematica della valutazione e dell'autovalutazione. Il legame strettissimo era con un singolo poeta, che è Sandro Penna. Ho letto le sue poesie con vero entusiasmo. Ricordo benissimo il libricino, che stato il primo attraverso cui ho conosciuto Sandro Penna. Non son sicuro ma credo sia stato un regalo di Natale dei miei genitori.

C.M. – Come interagiva questo tuo canale parallelo, che si dedicava alla poesia parallelamente alla formazione scolastica, con librerie, associazioni, lettura di riviste... Cioè come veniva alimentata? Esisteva una vita culturale collettiva o era un'attività più o meno solitaria?

S.R. – Questo è un punto molto triste, nel senso che il mio piacere nel leggere la poesia è stato sempre limitato. Non inesistente, ma limitato. Mi sono molto fustigato però di fatto è così. C'era una conoscenza molto limitata. Leggevo Penna, in primis, poi certo anche Montale, Ungaretti, o capitavano altri poeti, casualmente però.

C.M. – Ho l'impressione che rispetto alla prosa, nei lettori di poesia ci sia un maggiore rapporto privilegiato. Cioè ti piace leggere "quel poeta", non la poesia in senso più generale.

S.R. – Sì, il paragone che fai è veramente centrato, almeno rispetto al mio caso. Se io penso a quanta prosa ho letto, diciamo racconti e romanzi, anche se in modo caotico e poco sistematico, di fatto ho letto e leggo molto. Se la mettiamo sul piano pratico sono sempre impegnato a leggere un romanzo o dei racconti. Se lo mettiamo sul piano della conoscenza, anche se in modo caotico e confuso, i grandi classici li ho letti tutti. Non così per i poeti. Raramente sto leggendo libro di poesia. Trovavo dei poeti che mi davano anche un grande piacere, però rimaneva una cosa limitata.

Intendiamoci, si tende a assolutizzare le cose. Si dice che tutti scrivono e non leggono niente e io dico no, non è proprio così. Però è vero, che una conoscenza più o meno decente della poesia in generale io non ce l'ho. Se faccio il paragone con la prosa, se la mia conoscenza della prosa vale dieci, quella della poesia vale due.

Dopodiché c'è stato il grande momento, anche se diluito nel tempo, della fine dell'adolescenza o della prima gioventù. Una grossa cosa che continuavo a sentir dire in modo ossessivo era: "tutti ragazzini scrivono, tutti gli adolescenti scrivono, però nessuno legge e poi smettono". Quando, invece, io non ho smesso, è stato per me un grande piacere ed è stato in qualche modo anche una grossa vittoria. Con l'idea, anche se mi davo io stesso spesso del presuntuoso, di valere qualcosa. Appunto perché, mi dicevo che tutti dicono che dopo l’adolescenza si smette e per me, di fatto, non è capitato. La cosa continuava essere un punto importante e costante, centrale, direi della mia vita. Molto privato, quasi totalmente privato, anche questo è un punto importante.

C.M. – Mi viene spontanea una domanda: Che cosa dava, se è possibile dirlo, che cosa offriva la poesia alla tua vita?

S.R. – Diciamo che lo scrivere era un grosso piacere, che in qualche modo sentivo nascere. C'erano circostanze in cui sentivo nascere questo sentimento e che non sempre si trasformava in una poesia, ma per me era comunque un grosso piacere. Come se quello che io avevo vissuto, nel momento in cui ne poteva nascere o meglio ancora ne nasceva una poesia, acquisisse maggior peso, maggior valore, e anche maggiore bellezza, per me. L'insieme era anche una sorta di sicurezza e di grande motivo di autostima.

Arriva poi un certo momento, il cui inizio non ricordo bene, in cui c'è stata anche una dimensione diciamo pubblica: corsi di scrittura, corsi di poesia, cui ho partecipato come allievo; non in modo costante, convinto, però a volte anche con molta soddisfazione

Dove però, in realtà, era una cosa parallela. Come dire, la mia effettiva produzione poetica restava al 90% ai margini. Lì si studiava la poesia ufficiale, o si facevano esercizi e cose anche piacevoli, che però, secondo me, non avevano niente a che vedere con la produzione poetica, che a me veramente interessava.

La cosa di fondo, che li rendeva assolutamente su un altro piano, era il fatto che fossero imposti al momento, con l'idea che la poesia nasca non per ispirazione. Cosa che per me non stava né in cielo né in terra.

C.M. – Quali sono le persone della tua vita che hanno alimentato e accolto questa tua passione?

S.R. – Direi quasi nessuno, che ha alimentato. Soddisfazione mi ha dato l'accoglienza dei mie amici. Poi le pubblicazioni. Ma alimentato, proprio nessuno.

C.M. – Attualmente quali sono i poeti che ami di più, oltre Sandro Penna?

S.R. – Potrei dire certi italiani del secolo scorso: Ungaretti, Montale, Saba. Per un periodo ho avuto un vero entusiasmo, iniziato già alle scuole medie, per un poeta meno noto, Sinisgalli.

C.M. – Rimanendo su Penna, perché Penna? Cosa ti dà Penna?

S.R. – Beh, c'è un'intensità emotiva. Ragionando e riflettendo vedo che è data da certe capacità formali di sintesi fulminante, di disposizione dei versi, di enjambement particolarmente felici. La prima cosa è però il fatto che è forse l'unico poeta che in tutta la sua produzione, anche se con alti e bassi, mi dà quest'intensità. Non posso dirlo insomma, dell'ultimo Montale e neanche di un certo Ungaretti, barocco, prolisso.

C.M. – Secondo te rispetto alla prosa, qual è la caratteristica della poesia, la sua forza, la sua qualità? Ciò che la prosa non può dare, per cui esiste la poesia.

S.R. – Mi vengono in mente due cose. Partiamo da una prosa di qualità. Che cosa distingue questa prosa dalla poesia? Partendo dal presupposto che questa distinzione si possa fare, mentre alcuni la negano. Secondo me due cose. Uno, la disposizione dei versi, per cui il ritmo sulla pagina è già qualcosa di diverso, che acquista un valore aggiunto con l'enjambement, stacco fra suono e senso. Dopo di che un altro aspetto è certamente il ritmo e il suono. La stessa rima, se ben usata, ha un grosso fascino. Anche se non c'è la rima, nella poesia, ci sono una seria di fenomeni fonici – assonanza, allitterazione, ecc. – che la distinguono dalla prosa. Questi sono i due aspetti; oltre, naturalmente, certe puntualità estreme dal punto di vista lessicale, più frequenti più intense, che certamente si possono aver anche nella prosa, però nella poesia sono determinanti.

C.M. – Hai una spiegazione di come mai abbiano questa forza?

S.R. – Questa è una ragione profonda del nostro sentire. Perché ci fa piacere sentire una filastrocca, un ritmo? La poesia molto spesso, sopratutto quando non c'è la rima, presenta queste cose senza farle notare. È, secondo me, la grandezza della poesia. A volte uso questo meccanismo anche con la mia poesia. Quando una mia poesia mi piace molto e dopo la guardo, vedo che c'è una serie di anafore, allitterazioni ecc. Così mi dico, effettivamente avevo ragione, è bella. Costruisci queste cose involontariamente, per lo meno io, ma non credo neanche “il poeta”, stia li a mettersi a studiare "adesso faccio un'assonanza". Anche nel lettore sono recepite a livello in gran parte inconsapevole.

C.M. – Lavori molto sul testo? Esce di getto? Raccontami dei processi produttivi della poesia. Come avviene che un'esperienza si trasforma in parola poetica?

S.R. – È un punto delicato. Tocca la ragione per cui non sono un poeta. Ci lavoro pochissimo. Non nasce propriamente di getto. Non bisogna essere così assolutisti, o bianco o nero. C'è, nel momento in cui sta per nascere una grossa tensione, una grossa elaborazione. Però ha tempi rapidi. Non c'è quella revisione, quel tornare, quel rifare che invece – secondo la critica antiromantica – è necessaria e indispensabile per fare poesia. A volte, è raro, ma non rarissimo, la cosa nasce in dormiveglia. Nel dormiveglia, percepisco un'impressione di poesia e appena sveglio la elaboro e poi la scrivo.

Una condizione di isolamento è privilegiata. Ma non è strettamente necessaria. Mi capita andando in giro che mi vengano in mente. Le elaboro, poi le annoto. Però è molto raro. Di solito nel momento in cui c'è non è rimandata. La ripeto nella mente, la scrivo.

C.M. – Quali erano i temi delle tue poesie alle scuole elementari?

S.R. – Un tema abbastanza forte, sicuramente non unico, era la pace e la guerra. La maestra ce ne parlava molto. Emotivamente eravamo un po' tutti coinvolti da questa cosa e a me capitava di trasformarla in poesia. L'antitesi fra fratellanza e guerra.

Ho notato come due tipologie di poesie. Una più emotiva e una più sentenziosa e ironica. Quella più emotiva è quella che mi piace di più, di gran lunga prevalente. Però non è una scelta assoluta. Quelle ironiche sono anche feroci, pesantemente ironiche verso le persone, verso le cose, le idee che non mi piacciono.

C.M. – Cosa ne pensi della questione, tecnica verso spontaneità nella poesia.

S.R. – Ti posso dire come l'ho vissuta io finché scrivevo, che adesso non è più. Di tecnica mi sono un po' infarcito, ma non credo che abbia condizionato molto la mia poesia. Mi capita di contare un verso, se viene un endecasillabo mi fa piacere. Ma questo contare è un puro vezzo, non cambia niente. Ho anche studiato bene interi libri di metrica. Però, quello era un discorso e dall'altra parte c'era la mia poesia. Quanto, di fatto, questo abbia influito non lo so. A mio modo di vedere sono due discorsi separati.

Più che la tecnica, vedo un legame, anche se forse non un rapporto diretto, con le letture dei grandi classici italiani: Dante, Petrarca, Ariosto. Lì si, ho l'impressione di aver ricevuto molto. Una lettura che faccio con un po' di fatica, ma che faccio molto volentieri. Il discorso "leggo poca poesia perché mi annoia", vale meno per i classici, ovviamente non vale per Leopardi.

C.M. – Parliamo della dimensione sociale della tua poesia. Hai organizzato belle serate fra amici a cui ho partecipato. Che senso hanno avuto?

S.R. – Beh, è stato un grosso piacere. Che è rimasto molto molto isolato. Presto un po' dimenticato.

C.M. – A un certo punto hai deciso di smettere di scrivere poesie. Un atto di volontà.

S.R. – Quasi. Il discorso è molto complicato. A un certo punto, circa un anno e mezzo fa ho frequentato un corso, alla fine c'era l'invito a far vedere le poesie, da parte del conduttore, il poeta Milo De Angelis. Ho fatto vedere le mie poesie, rispetto alle quali Milo De Angelis, ha dato un parere sostanzialmente negativo. Ricevuto questo parere io ho avuto una specie di scatto improvviso e ho deciso di non scrivere più. Lasciamo perdere per adesso il perché di questa decisione, che non so neanch'io. È chiaro che c'entra col parere negativo. Questa decisione non è stata così assoluta, nel senso che da allora io non abbia più scritto. Però è stata una decisione. La quantità delle poesie è molto molto diminuita. Non è più stata una presenza costante e continua. Decisamente. La sua presenza nella mia vita si è diradata.

C.M. – Avverti la mancanza della poesia?

S.R. – Direttamente non sento questa mancanza. Certo, c’è il dubbio che nell’insieme della vita, questa mancanza contribuisca ai momenti di angoscia. Che nei momenti di angoscia questa mancanza faccia la sua parte. Un senso di perdita che non è avvertito direttamente ma che influenza in qualche modo l’insieme della mia vita.

C.M. – Nel senso che potrebbe aumentare il carico di angoscia e viceversa la poesia è in grado di abbassare questa angoscia?

S.R. – Beh, si. Diciamo che c’era una mia vita in cui la poesia era una presenza costante. Ora il fatto di averla persa, mi fa dire: “Mi abituo a tutto. Non sento questa mancanza”. Però resta il dubbio che influenzi il tutto.

C.M. – Non mi hai citato poeti stranieri.

S.R. – Non te ne ho citati, perché in modo un minimo sistematico non ne conosco. Non posso fare un paragone rispetto a Montale o Ungaretti. Però certo… mi viene in mente Paul Celan, i grandi francesi, Baudelaire, Rimbaud, ecc. li conosco anche abbastanza sistematicamente.

C.M. – Per finire una domanda, che valuterai tu se è sensata o meno. Che cosa educa la poesia?

S.R. – Ho una risposta che parte da una mia esperienza molto personale, però è forse anche ampliabile. Personalmente ho l’impressione che mi abbia educato a una soddisfazione indiretta,

rispetto a cose che mi possono dare tristezza o frustrazione. La cosa è ampliabile. La poesia per me può fare apprezzare una soddisfazione mediata e indiretta.

C.M. – Del rapporto con la voce, come mi puoi dire. Che ne pensi dell’idea che la poesia richiede una voce interiore. Per apprezzate una poesia devi ripetere bene in suoni nella tua mente. Ha un rapporto diretto con la voce ancora più che la prosa.

S.R. – Io apprezzo la poesia scritta, molto più che recitata, anche se una serata di poesia con qualcuno che recita non mi vede contrario. È vero che a me piace, rispetto alle poesie che mi piacciono di più, dirmele, anche a voce bassissima, fra me e me.

C.M. – Raccontami delle esperienze che hai fatto a scuola, con i bambini.

S.R. – Sostanzialmente sono stati due i punti di riferimento, un testo di un poeta americano Kenneth Koch, che insegna a scrivere poesie ai bambini, un testo classico, Desideri, sogni, bugie. Bellissimo. L’ho usato parecchio. Sia per la lettura che per la scrittura. Questo titolo Desideri, sogni, bugie, dice molto, lavora su questi tre aspetti. Invece una cosa che ho un po’ inventato io, è il lavoro sull’haiku, che secondo me è un tipo di poesia, che ispira moltissimo i bambini. Piace molto e favorisce la creatività e lo scrivere. Sono esperienze di cui ho un bel ricordo. In un caso, su insistenza di un amico insegnante, ho letto anche mie poesie, ed è andata bene. Ai bambini entusiasmava l’idea che io avessi scritto delle cose.

C.M. – Il rapporto con l’haiku è molto presente nella tua poesia.

S.R. – Si, si. È molto presente. Il libro dell’haiku con la prefazione di Andrea Zanzotto, Cento haiku, l’ho letto che ero ragazzino. Non ci pensavo, ma direi che in qualche modo insieme a Sandro Penna è stato il punto di riferimento più costante, mi ha accompagnato per anni e anni nel corso dello scrivere.

C.M. – Ci fermiamo qui. Concludiamo con una poesia di Stefano. Una delle mie preferite.

Forse la bellezza È un’illusione

Quasi un colpo di sole al caldo estivo È l’allucinazione di cui vivo