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In psicologia il contributo recente forse più noto, è quello di Jerome Bruner, che propone il concetto di “Sé narrativo”.

Tale nozione, nota Bruner, fa già la sua comparsa in psicologia fra gli anni settanta e ottanta. Fra i primi a contribuire in maniera rilevante in questa direzione, lo psicanalista Donald Spence che approfondisce il problema del racconto del ricordo nella pratica analitica. Il paziente appare come un archeologo, recupera oggetti sepolti e li collega fra loro per ricostruire i significati di ere passate, ma quanto questi racconti portino con sé la verità del passato non è possibile, e tutto sommato neppure utile all’analisi, stabilirlo. L’Io recita una parte, quella di un narratore che racconta storie su di sé. Il racconto è sempre un compromesso, il ricordo è una ricostruzione, appare ciò che è raccontabile. Ciò che importa è la verità narrativa, cioè la capacità del racconto di accordarsi con la verità del paziente, con il problema – mai pienamente esplicitabile – che il paziente porta con sé. L’analista aiuta il paziente a costruire questa narrazione162.

Un’ulteriore elaborazione del concetto di un sé narrativo è stata operata da Roy Schafer163 che attribuisce importanza anche allo stile del racconto. Noi raccontiamo costantemente noi stessi agli altri e parimenti a noi stessi. Il sé è un raccontatore che in ogni storia racchiude altre storie (anche gli altri sono narrati). Le forme del racconto variano a seconda dei contesti e del pubblico (pubblico reale o immaginario, sempre implicato nell’atto di raccontare, di cui facciamo noi stessi). Per rendere possibile un cambiamento, l’analista accompagna il paziente a riformulare il racconto, concentrandosi anche sullo stile della narrazione (l’azione della narrazione), che diventa oggetto di analisi.

Jerome Bruner sviluppa queste e altre tendenze verso una concezione narrativa del Sé sulla base della sua delusione verso le tendenze più recenti della psicologia cognitiva – corrente da cui proviene – che, a sua parere, è stata tecnicizzata fino al punto da vanificare l’impulso rivoluzionario da cui è nata164.

L'introduzione dell'immagine dell'intelligenza artificiale codme metafora per comprendere i processi mentali ha causato lo spostamento dell'attenzione dalla "costruzione del significato"

160 Si veda, Gadamer, H., Verita e metodo, (1960), Milano, Bompiani, 1988.

161 Ricœur P., Filosofia e linguaggio, Op. cit., pp.184-5.

162 Spence D., Verità narrativa e verità storica: significato e interpretazione in psicoanalisi, (1984), Firenze, Martinelli, 1987.

163 Si veda, Schafer R. “Narration in the Psychoanalytic Dialogue”, in, Mitchell W.J.T., (Eds) On Narrative, Chicago, University of Chicago Press, 1980.

all'"elaborazione dell'informazione"165, due cose radicalmente differenti; la "computabilità" ha finito con l'essere il criterio teorico per la validità. Ma, nota Bruner:

Per l'informazione non è rilevante il significato. In termini computazionali, l'informazione contiene un messaggio precodificato nel sistema. Il significato è assegnato a priori ai messaggi. Non è un esito del calcolo, e non è rilevante ai fini del calcolo stesso, tranne che nel momento dell'assegnazione di valori arbitrari ai simboli [...] Al sistema che mette in opera tutte queste procedure è del tutto indifferente se ciò che viene immagazzinato sono parole tratte dai sonetti di Shakespeare o invece numeri provenienti da una tabella di numeri casuali.[...] Un tale sistema non può affrontare l'indeterminazione, la polisemia, i collegamenti di tipo metaforico o connotativo.166

Per Bruner, i successi delle metodologie sperimentali sono stati costruiti su un concetto “disumanizzato” di mente, senza alcun dialogo con le altre scienze umane, come la filosofia, la sociologia, l’antropologia, la letteratura, dove si andavano nello stesso tempo affermando "l'antipositivismo, il transazionalismo, l'importanza del contesto"167. Ciò ha allontanato la psicologica cognitiva dalle altre scienze umane168. L'isolamento, sostenuto da una visione antifilosofica, le ha impedito di collaborare con le discipline dell'essere umano. Invece di arrivare a una definizione condivisa d’idee centrali per lo studio dell'uomo – quali "mente", "sè", "intelligenza", "cultura" – si è preferito basarsi sui paradigmi standardizzati della ricerca computazionale, che hanno finito con il coincidere con le definizioni dei concetti indagati. Nota ironicamente Bruner che per la psicologia cognitiva: "L'intelligenza è ciò che i test di intelligenza misurano"169.

Egli, con la sua proposta di una “psicologia culturale”, propone di tornare a una scienza della mente fondata sul concetto di significato e sui processi attraverso i quali i significati vengono creati e scambiati per creare le comunità. Questi processi hanno una logica narrativa: "senza la capacità di raccontare storie su noi stessi non esisterebbe una cosa come l’identità […] La costruzione dell’identità, sembra, non può proseguire senza la capacità di narrare"170.

Bruner apre al dialogo con le altre discipline dell'essere umano e muove da una dimensione transazionale171: il sé è una relazione fra un parlante e un altro, è "dialogo–dipendente"172. Una dimensione che è anche implicitamente contestualista: ogni azione, per poter essere spiegata, deve essere contestualizzata173.

Il concetto assume così una logica "distributiva". Il Sé non è localizzato solo nell'interiorità, ma è una costruzione che si muove dall'interno verso l'esterno e viceversa. Dalla mente verso la cultura e dalla cultura verso la mente. La costruzione del Sé è condizionata anche dalla dimensione storico– temporale, che dal passato, porta al presente, e si apre sul futuro.

Una concezione che permette il superamento dell'universalità della nozione etnocentrico occidentale del Sé. Quel Sé pensato come "chiuso nella "fortezza della coscienza", (di cartesiana memoria), oggetto di tanta psicologia, è in fondo una costruzione storica, non un dato acquisito, valido per tutte le regioni, tutte le epoche, tutte le persone.

Una parte del Sé e certamente innata, ha caratteristiche specie specifiche, come la percezione di permeanza di sé nel tempo e nello spazio, o la percezione propriocettiva di noi stessi, ma un'altra

165 Idem, p. 22. 166 Ibidem. 167 Idem, 102. 168 Idem, 19. 169 Idem, 101.

170 Bruner J., La fabbrica delle storie: diritto, letteratura, vita, Roma, Laterza, 2002, pp. 98-99.

171 I riferimenti di Bruner rimandano all'interazionismo simbolico e all'etnometodologia transazionale

172 Bruner J., La ricerca del significato, Op. cit., p. 100.

173 Nel momento in cui scrive, negli anni 90 Bruner ritiene, di dover proporre una "rivoluzione contestualista", dopo la rivoluzione cognitivista del '56. Si veda, Bruner J., La ricerca del significato, Op. cit.

parte è fondata su fonti esterne, sulla stima degli altri, sulle attese che alimentiamo, spesso inconsapevolmente, in base alla cultura che ci circonda. La disposizione narrativa è anch'essa una caratteristica specie specifica, ma è al tempo stesso alimentata e arricchita dal materiale culturale. Memorie, sentimenti, idee si organizzano in forme narrative, dunque la creazione del Sé è "un’arte narrativa", un’arte che non è rinchiusa nella nostra interiorità. L'identità, dice Bruner, "diventa res publica, anche quando parliamo a noi di noi stessi"174, a causa delle implicazioni culturali e sociali contenute nei materiali narrativi e simbolici che usiamo nella costruzione del Sé.

Per comprendere l'uomo ci si deve rivolgere al “modo in cui le sue esperienze e le sue azioni vengono plasmate dai suoi stati intenzionali"175, ma questi stati intenzionali hanno una forma organizzata dai sistemi simbolici della cultura di cui facciamo parte. "La cultura concorre anche a formare la mente"176.

Di conseguenza la psicologia culturale è una psicologia interpretativa come la linguistica, l'antropologia, la storia: "Tutti i tentativi di comprendere la natura del Sé e la sua origine non sono quindi che sforzi interpretativi simili a quelli operati dallo storico o dall'antropologo che tentano di comprendere un "periodo" o un "popolo"177.

Dato che il Sé “narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia”178, uno degli strumenti privilegiati per il suo studio è l'autobiografia. Nell'autobiografia le persone costruiscono una versione longitudinale del Sé. Una costruzione che non è completamente "libera". Siamo agenti autonomi ma siamo anche creature della storia immersi nella cultura. Abbiamo l'incredibile capacità intellettuale di immaginare alternative, ma siamo vincolati da un lato dall'immenso deposito degli accadimenti passati e dall'altro dalle esigenze del racconto che vogliamo costruire per il pubblico a cui desideriamo rivolgerci.

L'autobiografia è il resoconto fatto da un narratore nel “qui e ora” che "riguarda un protagonista che porta il suo stesso nome e che è esistito nel «là ed allora», e la storia finisce nel presente, quando il protagonista si fonde con il narratore".179 Un racconto che non può mai essere completo; parla del Sé, ma sempre a partire da una prospettiva. Contiene sempre, implicitamente, un pubblico particolare a cui si rivolge. È una ricerca di coerenza fra parti di sé e possibilità narrative molto diverse, è una versione del Sé. Per questo è possibile, per Bruner, affermare che "L'autobiografia trasforma anche uno scrittore esperto in un Doppelgänger e i suoi lettori in segugi"180. La narrativa del Sé è sempre una dialettica fra ciò che è avvenuto e ciò che avremmo desiderato avvenisse. Pochi aspetti del Sé si sottraggono alla disposizione innata alla narrazione e, nel racconto, non siamo semplicemente interessati a chi e che cosa siamo, ma anche a chi e che cosa avremmo potuto essere, aspettative che sottostanno alle leggi della memoria e alle imposizioni della cultura, legami che non appaiono facilmente alle coscienza.

La configurazione della nostra vita è comprensibile, a noi stessi e agli altri, grazie ai sistemi culturali con cui viene interpretata. Di conseguenza, per Bruner, "Non esiste un'unica «spiegazione» dell'uomo, né in senso biologico, né in altro senso. In conclusione, nemmeno le più convincenti spiegazioni causali della condizione umana possono avere un senso plausibile se non vengono interpretate alla luce del mondo simbolico che costituisce la cultura umana"181.

Jerome Bruner individua almeno quattro caratteristiche che qualificano la narrazione e la rendono efficace:

174 Bruner J., La ricerca del significato, Op. cit., p. 113, p. 75.

175 Idem, p. 46. 176 Ibidem. 177 Idem, p. 108. 178 Idem, p. 109. 179 Idem, p. 117. 180 Idem, p. 84. 181 Idem, p. 131.

1) Sé agente 2) Sequenzialità

3) Congiuntivizzazione della realtà 4) Prospettiva del narratore 182

A suo parere queste caratteristiche appaiono precocemente nello sviluppo del bambino e lo dotano di un ampio armamentario di mezzi narrativi. Questa predisposizione innata per la struttura narrativa viene alimentata fin dai primi passi dalla cultura, che ci fornisce gli strumenti e i contenuti elaborati dalla tradizione e ci apre nuove capacità e nuove possibilità.

Attraverso la caratteristica del sé agente (1), Bruner ci presenta il fatto che ogni narrazione richiede la presenza di un’azione umana, in relazione a determinati scopi, un’azione di cui si può attribuire la responsabilità a qualcuno, che ricade in qualche forma sotto il controllo di un agente individuabile, un autore.

L'altra proprietà che caratterizza la narrazione è la sua intrinseca sequenzialità (2): "una narrazione è composta da una particolare sequenza di eventi, stati mentali, avvenimenti che coinvolgono gli essere umani come personaggi e come attori"183. La sequenzialità richiede che l'ordine sia stabilito e reso riconoscibile, che gli eventi si dispongano in modo che dalla loro ubicazione scaturisca un significato. Il senso delle varie parti deriva da una trama. La comprensione della narrazione prevede dunque un duplice atto: per cogliere il significato delle varie parti bisogna aver presente la trama e mettere ogni parte in relazione con la trama, ma la trama è costruita dalla sequenza delle varie parti, per cui per cogliere la trama bisogna seguire e tenere in mente le varie parti. Il rapporto fra il significato della narrazione e il “riferimento esterno” al racconto è di tipo particolare. La trama comporta che la narrazione possa “essere «reale» o «immaginaria» senza che la sua forza come racconto abbia a soffrirne”184. La forza di un racconto non deriva dal suo statuto di verità, ma dalla validità della sequenza delle frasi che ne costituiscono la trama.

Con congiuntivizzazione (3), Bruner identifica la capacità del racconto di stabilire relazioni fra “l’eccezionale” e “l’ordinario”. Quando nel racconto accadde qualcosa di fuori dall'ordinario, se “si domanda a qualcuno che cosa stia succedendo, questi dà praticamente sempre una versione contenente delle ragioni.”185. La funzione della buona narrazione sembra sia quella di alleviare o per lo meno di far comprendere le ragioni delle deviazioni dalla norma. Un buon racconto ha bisogno di un certo grado di variazioni e d’incertezza; grazie alla congiuntivizzazione, sono presenti molte indeterminazioni e, di conseguenza, è più facile identificarsi. Quest’effetto è ottenuto attraverso precise forme linguistiche. La congiuntivizzazione dipende fortemente dall’uso “dei traslati, dalla metafora, dalla metonimia, dalla sineddoche, dall'implicazione, eccetera”186. In queste modo la narrazione ha la forza di allargare “l’orizzonte delle possibilità”, di esplorare tutto l’ampio paesaggio delle relazioni fra l’ordinario, lo straordinario, l’eccezionale.

Infine, l'ultima implicazione della narrazione che Bruner propone, che è anche legata all'effetto di congiuntivizzazione, è la caratteristica della prospettiva del narratore (4). Gli eventi del racconto esprimono sempre una posizione proveniente dalla voce narrante, sono visti attraverso lo sguardo del narratore, che può diventare – il romanzo moderno accentua in senso stilistico quest'aspetto – un prisma di sguardi. Anche qualora si trattasse di “storie vere”, il loro statuto si colloca a metà fra il reale e l’immaginario poiché ci presenta la ricostruzione del reale del narratore. Un racconto non può essere "privo di voce", in senso narratologico, e quindi contiene sempre la prospettiva del narratore.

Queste qualità, che ritroviamo nei romanzi, sono anche le modalità tipiche attraverso cui strutturiamo ogni esperienza e il ricordo che abbiamo di essa. A tale proposito, nota Bruner "Ciò

182 Idem, pp. 81-2. 183 Idem, pp. 54-5. 184 Idem, p. 55. 185 Idem, p. 59. 186 Idem, p. 68.

che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato"187. Quando ricordiamo, gli elementi si dispongono attraverso stati emotivi, ricordiamo "che «quella cosa» era spiacevole, produceva una sensazione di imbarazzo, eccitazione. L'affetto è come un'impronta dello schema generale da ricostruire"188. Sia nel ricordo che nel racconto della realtà e di noi stessi, non possiamo sottrarci alla dimensione narrativa, che è la forma con la quale traduciamo la nostra esperienza del mondo e trasformino in simboli i vari elementi della nostra vita (agenti, azioni, scene, scopi, strumenti, problemi), proprio come il racconto storico trasforma i fatti in simboli, che vengono poi fatti propri dai romanzi: "Schweitzer diventa «la compassione» Talleyrand «la scaltrezza», la campagna di Russia di Napoleone la tragedia dell'ambizione incontrollata, il Congresso di Vienna un esercizio di gestione d'affari a livello imperiale."189.