I ricordi scolatici, come detto, sono molto vivi, per certi versi sembrano ancora palpitanti. Il pensiero si muove senza troppo esitazione verso episodi precisi. Il quadro che ne esce per la pedagogia scolastica non è confortante, ci sono buone, anzi ottime esperienze. Ma colpisce la crudezza e l’abbondanza di quelle negative.
Sul primo incontro con la poesia, Ilaria C., ironicamente, ci parla di un “omicidio”.
“San Martino” di Giosuè Carducci è stata la prima poesia, che io ricordi, della quale ho assistito al brutale assassinio. Ero in seconda elementare e la maestra [Cognome della maestra, N.d.R.], la spietata mandante della feroce uccisione, ci aveva assegnato per la prima volta una poesia da imparare a memoria per la lezione di italiano della settimana successiva, durante la quale avremmo dovuto – senza mai guardare il foglio – recitarne i versi davanti a tutta la classe. Solo chi non avesse fatto nemmeno un errore sarebbe riuscito ad ottenere sul proprio diario l’ambitissimo “Ottimo!”, con tanto di faccina sorridente annessa.
Era il primo ambizioso salto dalle filastrocche alla poesia. Quella vera. Quella dei grandi.
Ricordo di aver preso quel compito molto seriamente e, una volta a casa, di aver comunicato a mia madre, con l’aria fiera e solenne di chi è stato chiamato a compiere un’impresa leggendaria, che da quella sera in avanti avrebbe dovuto interrogarmi sulla poesia San Martino: da sapere precisamente, perfettamente, fluidamente, maniacalmente a memoria.
Fu una settimana terrificante. Per me.
Per mia madre.
469 La brevità minima del testo è motivata dal proposito di non appesantire l’atelier attaverso una richiesta d’ingresso troppo performante. Dato che di trattava di una situazione di “presa di contatto”, in un contesto già caratterizzato dall’obbligatorietà, mi è parso opportuno dare un segnale di un luogo accogliente, in cui fosse possibile aderire con un buon margine di diversità personale, nonché evolvere spontaneamente nella partecipazione. In media gli scritti autobiografici ricevuti superavano la pagina.
Nelle parole di Ilaria, (che per evidenziare il paradosso usa gli “a capo”, simbolo della scrittura in versi) vediamo il contrasto fra il sentimento di libertà che la poesia comporta e l’imposizione scolastica. In un testo, di Moreira, troviamo addirittura la poesia usata come “punizione”.
Il periodo dell’adolescenza non porta con sé dei ricordi piacevoli sulla poesia: andavano analizzate, sviscerate, spezzate. Non mi piaceva che qualcuno mi dicesse come leggerla, che mi privasse della libertà di farla mia, che ne limitasse la mia interpretazione. Detestavo che qualcuno gli desse un senso differente dal mio, privandomi di un po’ di libertà. Come se non bastasse il mio insegnante d’italiano delle medie, le utilizzava come punizione. Iniziai ad odiare la poesia, non la volevo nella mia vita. Per cui osservai diversi poeti, i più conosciuti, ma li tenni a distanza.
Il termine stesso di “poesia” si associa penosamente, in Gessica, con il periodo scolastico.
Il termine poesia evoca in me gli anni trascorsi a scuola. Inizialmente alle elementari, quando mi davano una poesia da imparare a memoria e successivamente alle superiori, quando il professore mi faceva analizzare tutti i versi, con espressioni tecniche, tralasciando i sentimenti che si possono provare nel leggere una poesia.
I professori mi hanno sempre fatto disprezzare la poesia.
Colpisce l’uso del termine “disprezzare” nella proposizione, che ci presenta in maniera forte il vissuto generato dall’insegnamento della poesia.
La scuola appare perfino come il motivo per il quale non si leggono poesie. L’esercizio scolastico può avere come risultato una sorta di imprinting negativo, che soffoca il piacere della lettura. È quello che ci racconta Nicola.
Attualmente, purtroppo, non sono un lettore abituale di poesie “classiche”. Il motivo, forse banale, è legato ai ricordi negativi che ho dell’uso della poesia durante la scuola dell’obbligo. Spesso, infatti, dovevamo studiare delle poesie a memoria e poi, secondariamente, raccontarla ad alta voce in classe per poi essere valutati dal professore.
[…] mi ha lasciato un brutto ricordo della poesia, poiché la collego automaticamente a quegli esercizi e, di conseguenza, non riesco a godermi la lettura.
Sara denuncia lo studio della poesia che passa subito all’approccio d’astratto, che propone la conoscenza della metrica e delle figure retoriche, ma fa svanire, nella teoria, un piacere iniziale che pure è presente.
Il mio primo approccio con la poesia è stato a scuola e le mie preferite erano quelle corte. Non mi piaceva essere costretta a doverle studiare a memoria, nemmeno il fatto di sapere il nome di tantissime figure retoriche e ricordarmi il significato di ciascuna di esse. Per non parlare del numero delle sillabe e tutte quelle cose così teoriche. Mi è sempre sembrata troppo astratta, non riuscivo a toccarla.
Il risultato paradossale delle prime esperienze scolastiche è che la poesia, una delle forme usate da sempre dall’umanità per rappresentare passioni e emozioni, è associata al sentimento della noia; come ci racconta Diana.
Penso al liceo, alle analisi dei versi dell'inferno dantesco o della malinconica e triste 10 Agosto del Pascoli e lo stato emozionale che emerge a questi ricordi non è del tutto piacevole e mi pervade immediatamente un senso di noia.
Quella che traspare è una frattura fra il senso esistenziale della creazione estetico–letteraria e il senso pedagogico, scollamento evidente nei modi in cui il componimento poetico viene proposto nel percorso di apprendimento.
Paradossalmente anche la poesia del Carducci (versi che trovano radici nel suo animo inquieto, nella sua passione profonda per la natura, nel suo interrogarsi ribelle sull’esistenza, nel suo sentimento per la vita) diventa incubo per molti allievi, con buona pace del grande amore che il
poeta aveva per l’insegnamento. Se ci collochiamo nel paesaggio emotivo di San Martino, nei suoi contrasti e nelle sue sfumature, ne percepiamo il delicato affetto per il mondo circostante, come i turbamenti esistenziali che traspaiono. Non possiamo, allora, che restare basiti di fronte a proposte pedagogiche che sembrano aver perso ogni rapporto con il senso dell’opera e la rendono un’esperienza emotivamente penosa. Ci racconta Ilaria R.
Ricordo che la prima poesia con la quale mi confrontai fu “San Martino” di Giosuè Carducci; dovetti impararla a memoria per la materia di italiano e ricordo di non aver mai fatto tanta fatica a studiare qualcosa! Alla fine la imparai entro la data prestabilita, ma quando la docente mi chiese di recitarla, fui un disastro totale. Era l’emozione.
Ad altre sedi sembra affidata l’istanza formativa, il vero incontro educativo con la poesia, capace di far risuonare l’emozione del lettore con l’animo del poeta, di generare quel processo empatico e trasformativo che abbiamo mostrato nei capitoli precedenti. Un processo in grado di dare nomi alle pulsioni, di avvicinare affetti contrastanti, di dare voce al dolore, di farci entrare in sintonia con la moltitudine dei sentimenti, di farci sentire parte di un’unica umanità. L’educazione a tutto questo, – tramite la poesia – sembra affidata alle culture famigliari, agli incontri fortuiti, alla pura predisposizione personale.
Per fortuna, incontriamo anche ricordi scolastici che ci raccontano del contrario, e attestano che un’altra educazione alla poesia è possibile. Seguiamo questo racconto di Claudia V.
Ad essere sincera non ricordo il momento esatto di quando è iniziata la mia relazione con la poesia. Credo che la prima volta che sono entrata a contatto con lei è stata alle medie. In quel periodo non avevo granché interesse per la scuola... Diciamo che avevo altre cose per la testa... Quello che ricordo, però, è che mi piaceva moltissimo la lezione di italiano e che mi piaceva moltissimo anche la professoressa. Fare lezione era piacevole e con lei avevo instaurato un buon rapporto. Un giorno ci diede come compito quello di imparare la poesia di Leopardi “l’Infinito” a memoria perché poi avremmo dovuto esporla davanti a tutti. Non ero felice di questo compito perché mi chiedevo come potessi imparare a memoria un così lungo testo, ma posso giurare che me la ricordo ancora oggi come se l’avessi imparata qualche giorno fa. Non mi era molto chiaro quale fosse lo scopo di questo compito, ma mi ricordo che io e la mia migliore amica ci mettemmo molto impegno e fu anche divertente. Per ricordarci i versi ci inventavamo mille modi, mille riferimenti, disegni.. Insomma sfruttammo la nostra immaginazione e probabilmente era proprio quello lo scopo di tale esercizio.
Claudia ci parla di un’insegnante capace di instaurare un “buon rapporto”, capace di creare piacere nell’esperienza di apprendimento e nella relazione. L’attività che ci presenta è simile alle altre, mandare a memoria una poesia. Attività, che sappiamo essere prassi diffusa e sul cui senso pedagogico si potrebbe aprire una discussione, ma non è questo luogo. Proprio il fatto che anche in questo caso si tratta di recitare una poesia a memoria ci racconta quanto sia cruciale la postura pedagogica. Il clima creato, lo stile educativo, generano un rapporto di fiducia e dedizione nei confronti della richiesta: “Non mi era molto chiaro quale fosse lo scopo di questo compito, ma mi ricordo che io e la mia migliore amica ci mettemmo molto impegno e fu anche divertente”. Un vissuto opposto a quello creato dalla poesia usata come punizione, nell’episodio che abbiamo letto più sopra.
Anche in questo caso però, come abbiamo visto in Monica del gruppo di Pavia, notiamo che c’è qualcosa fuori dall’ordinario. Il passaggio di Claudia V.: “Mi piaceva moltissimo la lezione di italiano”, rimanda per contrasto ad altre lezioni che non riscuotevano lo stesso entusiasmo.
In un successivo passaggio, Claudia V., racconta del proseguimento del rapporto con la poesia e ci mostra attenzione e sensibilità nel mettersi in relazioni con l’animo dell’autore.
Al liceo ho incontrato tanti altri autori. Tra questi ricordo che sono stata particolarmente affascinata dalle poesie di Ungaretti per la loro profondità, per il toccante argomento delle sue poesie, quale la guerra. Anche Montale mi piaceva molto, pur essendo qualche volta troppo pessimista, a mio parere.
Capacità che Claudia V., ha sviluppato forse per predisposizione personale, certamente anche grazie all’incontro con la professoressa delle medie, forse anche grazie all’insegnante del liceo (di cui però non parla). Non è possibile indagarne le cause, ma dobbiamo comunque prendere atto del possibile contributo che la scuola può offrire all’evoluzione di queste capacità.
Rileviamo dagli scritti, che molto spesso la “buona esperienza” è associata alla evocazione della figura dell’insegnante. Abbiamo già visto:
mi piaceva moltissimo anche la professoressa. Fare lezione era piacevole e con lei avevo instaurato un buon rapporto (Claudia V.,)
una giovane e sensibile insegnante di Lettere mi ha fatto appassionare (Monica, gruppo di Pavia)
Ecco ora Gessica, che di tutti i docenti ne salva uno.
I professori mi hanno sempre fatto disprezzare la poesia, tranne uno. Ricordo perfettamente ancora il suo modo di insegnare, ci metteva passione e la poesia anche se letta sotto forma molto teorica, assumeva una visione diversa.
Ed ecco Marika, che ha aperto lo scritto con una poesia di Saba, e subito dopo aggiunge:
Ho scelto di citare Il ritratto della mia bambina perché è la prima poesia di cui mi sono innamorata. L’ho incontrata sui banchi di scuola, andavo in quarta elementare, la mia maestra si chiamava Cristina e lei come me riconosceva in Umberto Saba un gran talento.
Osserviamo i lemmi e i sintagmi che fanno da contorno all’evocazione del personaggio docente dei passi precedenti: “piacere, buon rapporto, sensibilità, passione, innamoramento, lei come me, si chiamava Cristina”. Anche in questo caso constatiamo l’omogeneità isotopica. Tali lemmi costruiscono tutti un eros narrativo che riveste il personaggio docente e l’esperienza d’apprendimento. Mettono in scena una qualità dell’esperienza in sintonia con l’oggetto di studio. La scelta dei significanti narrativi ci invita a immaginare che questo eros nasca dalla passione del docente verso la propria professione e verso la poesia. Leggendo, è facile pensare che il personaggio rappresentato sia un adulto che ha interiorizzato la “lezione” della creazione poetica e sia capace di trasmetterla ai propri allievi.
Nel racconto di Marika, possiamo cogliere la sensibilità dell’insegnante anche dal testo poetico presentato. Il poema di Umberto Saba parla di temi che hanno senso per una bambina di quarta elementare: l’amore del padre per la figlia, le atmosfere dell’infanzia. Immagini che assumono un naturale interesse esistenziale per i piccoli lettori. Questo il testo:
La mia bambina con la palla in mano, con gli occhi grandi colore del cielo e dell’estiva vesticciola: "Babbo – mi disse – voglio uscire oggi con te" Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma che sull’onde biancheggia, a quella scia ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde; anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo; e ad altre cose leggere e vaganti