IL DIRITTO COME PRATICA DELIBERATIVA, ESPRESSIVA ED AGONISTICA, TRA GIOCO LINGUISTICO E DEONTIC SCOREKEEPING
2. LA “PROMESSA DEL DIRITTO”: IL CONTRIBUTO DI THOMAS MORAWETZ
Thomas Morawetz è certamente da annoverare tra i teorici del diritto che hanno maggiormente tratto ispirazione dal pensiero del “secondo” Wittgenstein, la cui interpretazione ed assimilazione si è tradotta in una serie di contributi, raccolti nel volume Law's Premises and Law's Promise318.
In particolare, nel saggio The Rules Of Law And The Point Of Law del 1973319, egli espone la
propria posizione circa la natura della pratica giuridica, assumendo, sullo sfondo, la concezione wittgensteiniana delle pratiche linguistiche.
Morawetz distingue, innanzitutto, due tipi di pratica, che definisce, rispettivamente, “aperta” e “chiusa”320. Una pratica chiusa si caratterizza per il fatto che ogni istanza della pratica possiede
un inizio ed una fine, come accade nei giochi o nelle competizioni sportive. Inoltre, i partecipanti
317 Ivi pp. 40-1.
318 MORAWETZ, Thomas, Law's Premises and Law's Promise: Jurisprudence After Wittgenstein, Ashgate Pub Ltd,
2000. Si veda su Morawetz: EISELE, Thomas D., Tom Morawetz’s “Robust Enterprise”: Jurisprudence After
Wittgenstein, “Philosophical Investigations”, Vol. 29, N. 2, 2006, pp. 140-179.
319 MORAWETZ, Thomas, The Rules Of Law And The Point Of Law, in ID., Law's Premises and Law's Promise:
Jurisprudence After Wittgenstein, cit., pp. 3-17. Si veda anche nello stesso volume, pp. 19-36, The Concept Of A Practice (1973), che affronta lo stesso tema con alcune variazioni, appoggiandosi a Della Certezza di Wittgenstein.
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ad una pratica chiusa sono tali in quanto conoscono le regole che costituiscono la pratica; queste poi possono essere elencate in modo più o meno esaustivo.
Le regole di una pratica aperta, per contro, non possono essere date attraverso un elenco comprensivo in quanto sono illimitate ovvero perché si evolvono costantemente, anche in virtù di regole istituzionalizzate che ne definiscono le modalità di trasformazione ammissibili.
I partecipanti ad una pratica aperta, a differenza di quanto accade in una pratica chiusa, non devono necessariamente essere a conoscenza delle regole particolari che governano la pratica medesima e le singole mosse all’interno di essa. Ancora, la partecipazione non si esaurisce nel perseguimento di un particolare risultato, essendo la pratica open ended, mentre questa non ha, di norma, carattere agonistico.
Secondo Morawetz, sia il diritto che il linguaggio sono esempi eminenti di pratica aperta: in entrambi i casi, le regole esibiscono una open texture, tratto che distingue le regole della pratica aperta dalle regole della pratica chiusa, le quali disciplinano puntualmente e senza residui le situazioni con cui si confrontano i partecipanti321.
Morawetz, seguendo Wittgenstein, prende in considerazione la questione del “punto” o Witz delle pratiche, ritenendo che, per quanto concerne le pratiche aperte, esso non sia dato attraverso le regole: esso, piuttosto, deve essere preso a riferimento prima delle regole, giacché conferisce alla pratica medesima la sua ragion d’essere.
Nelle pratiche chiuse, invece, il “punto” può individuarsi attraverso il riferimento alle regole, che forniscono la giustificazione di un certa spiegazione di esso, ovvero riportandosi alle ragioni che spingono, ad esempio, ad intraprendere un certo gioco.
Trasposti sul piano giusfilosofico, gli argomenti di Morawetz ammontano alla tesi secondo la quale il diritto si può comprendere solo ponderando congiuntamente le sue regole ed il suo “punto”: per quanto egli non fornisca una caratterizzazione di quest’ultimo, fornisce nondimeno alcuni spunti di riflessione, puntando l’attenzione sul ruolo che svolge il diritto nell’incrementare le possibilità di azione per gli individui, ovvero nel limitarle per il bene comune.
Nelle parole dell’autore: “The point is to limit permissible human activity in a general way so as to attain a greater general good that would otherwise be unattainable. Law can be justified only if it is admitted that this kind of justification can arise and that individuals can be benefited by limiting their options – when such a limitation is general”322.
Pur nella latitudine e genericità della definizione, il “punto” del diritto, nella visione di Morawetz, emerge nella pratica attraverso le strategie dei partecipanti e le giustificazioni che essi articolano rispetto alle mosse che vengono poste in essere. In primo luogo, il “punto” è un modo per rappresentare ad un livello maggiore di astrazione le ragioni offerte all’interno della pratica
321 Ivi p. 6. 322 Ivi p. 9.
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per giustificare e criticare le leggi. In secondo luogo, chi non fornisce una giustificazione nei termini del bene comune può essere accusato dagli altri partecipanti di non avere, in realtà, alcuna giustificazione ragionevole, per quanto sia ammissibile una pluralità di opinioni su cosa sia il bene comune. D’altronde, sottolinea Morawetz, il “punto” non porta in ogni caso all’identificazione del diritto, e questo perché esso possiede un carattere aperto, una open texture, ma è comunque importante, per la coerenza ed, in definitiva, per l’identità della pratica che vi sia una uniformità nel tipo di ragioni che vengono invocate in sede di applicazione ed interpretazione delle regole323.
Di notevole interesse ai nostri fini risultano le argomentazioni sviluppate nel successivo saggio Understanding Disagreement324, nel quale Morawetz discute una concezione del diritto come
pratica deliberativa, a partire dalla metafora del gioco, che finisce, però, per rifiutare.
Per l’autore, una pratica deliberativa consiste in quel tipo di discorso che ha lo scopo la formazione e la giustificazione dei giudizi, come accade nella sfera estetica e morale, o nelle discipline storiche, oltre che nell’ambito della decisione giudiziale: in tutti questi casi, ed in molti altri consimili, si riscontra, quale carattere che li accomuna, l’interesse verso problemi astratti che costituiscono l’oggetto di attività condivise ed istituzioni sociali.
Nelle pratiche deliberative il peso delle idiosincrasie è maggiore rispetto ad altri tipi di pratiche: le differenze nelle conoscenze, cultura, capacità personali, strategie di ragionamento e interpretazione della realtà sono alla base delle notevoli divergenze di giudizio. Questo fenomeno emerge in particolare rispetto al tipo di ragioni che ognuno ritiene di dovere porre a fondamento di una certa valutazione: così, ad esempio in materia morale, si possono avere giudizi basati su considerazioni utilitaristiche, edonistiche o strettamente deontologiche325.
Nondimeno, le pratiche in discorso sono rese possibili dal sussistere di un senso comune rispetto all’individuazione delle ragioni rilevanti all’interno della pratica, che si concreta nel mutuo riconoscimento delle argomentazioni avanzate dai partecipanti e nel tacito accordo, per lo più inconsapevole, intorno alle considerazioni da ritenere, volta per volta, irrilevanti: ciò consente ai partecipanti di anticipare le mosse degli altri “giocatori”, e questo perché, precisamente, “[t]he practice consists in the recognition of a family of reasoning strategies that allow for a spectrum of judgements”326.
Pertanto, secondo Morawetz, un parte significativa dell’attività connessa alla pratica consiste nel ponderare le strategie primariamente utilizzate dagli altri partecipanti, unitamente al valutare
323 Ivi pp. 11-2.
324 MORAWETZ, Thomas, Understanding Disagreement: The Root Issue Of Jurisprudence (1992), in ID., Law's
Premises and Law's Promise: Jurisprudence After Wittgenstein, cit., pp. 109-194, in particolare pp. 136 ss.
325 Ivi pp. 136-9. 326 Ivi p. 138.
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riflessivamente i limiti delle proprie strategie argomentative nell’incontro, sempre aperto, con le strategie argomentative altrui, cercando al contempo una composizione delle varie posizioni in un processo dialogico privo di carattere ultimativo.
La parità in linea di principio dei partecipanti ad una pratica deliberativa e delle mosse che possono eseguire nel contesto di questa discende dalla mancanza di un canone oggettivo o naturale che fornisca un criterio ordinatore delle ragioni e delle giustificazioni: ne discende, quale ulteriore corollario, che spetta in definitiva agli individui la libera scelta degli argomenti da utilizzare.
Secondo Morawetz, ogni giudizio reca con sé l’affermazione implicita delle strategie argomentative profonde, sicché con il formularlo ed esprimerlo si cerca, a ben vedere, di persuadere l’uditorio sia del giudizio in sé sia dello stile giustificativo sottostante, ed è anche in virtù dei meccanismi della persuasione che le pratiche deliberative si evolvono, al livello dei giudizi e delle giustificazioni condivise327.
Egli individua, inoltre, due tipi di eterogeneità nelle pratiche deliberative: la prima riguarda i processi argomentativi individuali che possono variare in base alle questioni da affrontare; la seconda concerne le differenze interindividuali nelle strategie giustificative, pur nella cornice condivisa di cui si è detto, che limita gli argomenti ammissibili nella pratica. L’eterogeneità, nei termini anzidetti, è una caratteristica che si riscontra anche in quel particolare tipo di pratica deliberativa costituita dalla decisione giudiziale.
Morawetz ritiene che, sebbene i teorici del diritto prendano in considerazione il fatto “bruto” del disaccordo tra i giudici, tanto sul piano delle decisioni, quanto sulla giustificazione di una medesima decisione, essi trascurano un terzo e più profondo genere di disaccordo che coinvolge costoro, i quali dissentono: “in their ways of structuring information – counting some kinds of propositions as evidence for other propositions and resting their arguments on one kind of proposition rather that another because the former is conclusive in their particular way of understanding experience”328. Così, una decisione giudiziale potrebbe essere basata, poniamo, su
un certo assetto sociale, sugli effetti psicologici che essa avrebbe, sulle conseguenze di natura economica, ovvero politica, o, ancora, sulla implementazione di un certo schema di valori.
Se, dunque, il disaccordo tra i giudici è espressione irriducibile del disaccordo che innerva e, financo, struttura tutte le pratiche deliberative, occorre cercare di comprendere, quanto più perspicuamente, i tratti del dialogo tra di essi, che costituisce un dato immanente alla pratica.
327 Ivi pp. 139-40.
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In primo luogo, come si è visto a proposito della pratica deliberativa in generale, anche la pratica deliberativa giudiziale ruota attorno ad un insieme di strategie argomentative condivise: ogni giudice riconoscerà e sarà in grado di prevedere le mosse giustificative degli altri giudici, limitando la propria aspettativa agli argomenti ammessi nella pratica, ed essendo in grado di spiegarne in certa misura le decisioni329.
La chiave, per Morawetz, risiede nelle caratteristiche della partecipazione alla pratica e nel senso che hanno le mosse al suo interno per i partecipanti: non si tratta di semplici azioni linguistiche, per quanto complesse, bensì, piuttosto, di manifestazioni di uno sforzo di comprendere il mondo, lungo la dimensione causale, assiologica e teleologica, e questo modo di strutturare l’esperienza assume un ruolo cruciale affinché l’identità degli individui si mantenga stabile nel tempo330.
Come scrive l’autore: “[D]ebates within deliberative practices are perpetuated by the need to assert both solutions to hard and disputed questions and particular ways of arriving at such solutions. The attempt to persuade others to ‘see’ the world in the same way as one sees it oneself is parasitic upon the habit of giving structure to one’s own experience, of deploying one’s strategies of thinking”331. Va, peraltro, rimarcato con forza che, nell’impostazione di Morawetz,
le strategie cognitive ed argomentative dei partecipanti esibiscono carattere “ricorsivo”, essendo suscettibili di modificazione nell’incontro dialogico con gli altri partecipanti, e questo, a sua volta, determina l’evoluzione della pratica nel suo complesso.
Il problema del disaccordo tra i giudici non è, dunque, teorizzabile nei termini di un differente insieme di regole seguito da ciascuno di essi: essi, invece, riconoscono le strategie giustificative degli altri e ne sono influenzati, condividendo gli standard di rilevanza che definiscono le attività all’interno della pratica, mantenendo, tuttavia, le proprie idiosincrasie ed in particolare il proprio modo di organizzare l’esperienza, e, proprio sotto questo profilo, l’invocare per ciascun partecipante un insieme di regole appare privo di senso. A differenza di quanto accade nei giochi, metafora pertanto priva di valenza euristica nel contesto in esame, non possono essere formulate esplicitamente, e così sottoposte alla coscienza, delle regole sul modo in cui si ha esperienza della realtà.
329 Il punto è illustrato nei seguenti termini da Morawetz: “The practice involves a family of ways of structuring and
ordering relevant evidence for decision-making. Each judge recognizes that other judges reason in certain ways, recognizes how they reason, and can give some account of why they reason as they do. The practice is bounded not by a single shared style of reasoning but by familiar, if unspecifiable, criteria for the kinds of reasoning that count. In the absence of such criteria, the practice would fall part. Yet the criteria are malleable, and the line between included and excluded ways of thinking and of justifying decisions is not sharp”. Ivi p. 144.
330 Ivi pp. 145-6. 331 Ivi pp. 146-7.
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La decisione giudiziale resta una pratica condivisa, pur a fronte del disaccordo, in quanto esibisce i tratti della pratica in generale. In primo luogo, il carattere pubblico: l’appropriazione da parte dell’individuo di certi aspetti di una pratica presuppone che essa esista e che, inoltre, ammetta le differenze individuali. Inoltre, il carattere individuale: quegli aspetti della pratica condivisa, oggetto di appropriazione, sono declinati dal singolo partecipante secondo le proprie peculiarità e conformemente alla propria storia. Infine, l’immediatezza che deriva dal fatto che le mosse all’interno di una pratica deliberativa sono eo ipso un modo per ordinare l’esperienza, per entrare in contatto con la realtà. In questo senso, acquisire consapevolezza delle proprie strutture esperienziali può costituire la precondizione per il loro mutamento.
Normalmente le deliberazioni hanno ad oggetto il mondo e non la prospettiva o lo schermo attraverso il quale si interpreta la realtà: nondimeno, manteniamo un certo grado di consapevolezza dell’esistenza di questa cornice attraverso la ponderazione delle strutture esperienziali degli altri partecipanti. Secondo Morawetz: “This means that any philosophical reflection about reasoning sensitizes us to a kind of tension between the certainty that attaches to what is most familiar, to the ways of thinking that are second nature, and to the sense that such certainty is ungrounded. Others with a different stake in reality […] and with different ways of thinking may be fellow conversant in our practices”332.
La concezione della decisione giudiziale come pratica deliberativa ha delle importanti ricadute sul piano metateorico: infatti, una teoria del ragionamento giuridico deve tenere in debito conto sia dell’eterogeneità della giustificazione che del carattere idiosincratico delle strategie individuali e, soprattutto, non può adottare un punto di vista assolutamente neutrale sulla pratica, in quanto è in gioco il rapporto dei singoli partecipanti col mondo333.