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APPRENDIMENTO E RIFLESSIONE NELL’INDIVIDUO E NELLE ORGANIZZAZION

2.6. RIPENSARE LA FORMAZIONE NEL NUOVO RAPPORTO TRA TEORIA E PRATICA

2.6.2. Modelli e metodologie riflessive nello sviluppo professionale

Tra le metodologie didattiche della formazione che guidano la pratica riflessiva, che assumono cioè la riflessività come mediatore per conoscere l’esperienza e per costruire un sapere che viene dall’esperienza, le più rilevanti per il presente lavoro sono le metodologie riflessive per lo sviluppo professionale, che partono dal seguente presupposto: è necessario, affinché l’esperienza si attivi, che il soggetto percepisca lo stato di dubbio, teorizzato da Dewey (1933), che produce la riflessività. In quest’ultima accezione la riflessività è una competenza che matura in forza di un processo di formazione Long Life Learning: gli elementi comuni che contraddistinguono tali metodologie sono il superamento dell’oggettivismo tipico della razionalità tecnica, la promozione della capacità di rappresentare i propri pensieri le proprie teorie implicite per “vederle”, le pratiche agite o in cui si è coinvolti.

Pratica e riflessività spingono a proporre nuove modalità di sviluppo professionale, quali ad esempio i molteplici modelli di analisi riflessiva utilizzati in una prospettiva di esplicitazione, di analisi critica o di identificazione delle competenze per favorire l’apprendimento e il cambiamento.

Tra i numerosi esistenti evidenziamo il modello reflective practioner di Schön e il modello dell’apprendimento esperienziale di D.A. Kolb. Entrambi sono metodi utilizzati sia nelle pratiche riflessive individuali che all’interno delle organizzazioni, nell’ambito dell’apprendimento organizzativo.

Apprendimento e riflessività spingono a proporre nuove modalità di sviluppo professionale quali quelle offerte dall’ipotesi del professionista riflessivo (Schön, 1983; 1987). In molti contesti questo riferimento può rappresentare un importante stimolo per l’emersione di contenuti evolutivi già presenti nelle pratiche degli attori ma ancora non sufficientemente portati alla consapevolezza degli attori stessi.

L’osservazione condotta da Schön sulle modalità di lavoro di diversi tipi di professionisti ha mostrato la riflessività come funzione che va oltre le forme strettamente tecniche della razionalità legate a corpi di conoscenza codificati e a tradizioni di tipo disciplinare/professionale orientate a forme standard di soluzione dei problemi.

Prima ancora del problem-solving, usualmente assunto come l’attività chiave in ogni lavoro altamente qualificato, Schön ha mostrato l’importanza del problem setting, ossia del processo attraverso cui il professionista definisce quali decisioni vadano intese come rilevanti, quali siano i fini da raggiungere ed i mezzi necessari.

Essere competenti, da questo punto di vista, significa saper mettere in atto processi riflessivi strettamente intrecciati con le pratiche, attraverso i quali si riesce a venire a capo di situazioni complesse e contraddittorie: processi riflessivi nei quali vengono azionati saperi pratici impliciti, la cui essenza si coglie nel momento stesso dell’applicazione e che possono quindi essere definiti in termini di reflection-in-action, nel vivo dell’azione, più che di, equivalente a una valutazione ex-post dell’azione stessa e dei suoi risultati.

Le due forme di riflessione presentano caratteristiche diverse: la reflection-on-action è quell’attività retrospettiva di pensiero attivo che si sviluppa sulla pratica professionale, ma si colloca esternamente a questa, ovvero in un momento diverso. In altre parole, si ha reflection- on-action quando ci si ferma per ragionare su quanto realizzato in modo da poter poi riprendere l’attività dopo aver meglio chiarito come procedere nell’azione con migliori risultati. Consiste in gran parte nel ricordare e valutare quanto già eseguito per poi focalizzare con maggior precisione obiettivi da perseguire e strategie correlate. Il professionista dunque volge lo sguardo indietro sulla strada percorsa per poi guardare avanti prima di riprendere il cammino.

La reflection-in-action si sviluppa invece durante l’azione; essa appare prossima a sfere di attività cognitive legate all’intuito, a quelle capacità di valutare nel corso dell’azione che Polanyi, parlando di abilità, ritiene essere proprie di coloro che spesso vengono definiti intenditori. La riflessione nel corso dell’azione genera la conoscenza nell’azione (knowing in action) e avviene proficuamente soprattutto quando l’azione non viene interrotta e quando il procedere, ma non solo, per tentativi ed errori, non avviene nella casualità, ma piuttosto nella continuità, cioè legando ogni prova a quella che l’ha preceduta incorporandone l’esito parziale.

A tale modo di procedere si perviene spesso quando l’agire routinario viene interrotto dall’irrompere di un risultato inatteso, che giunge quale segnale dell’inadeguatezza della teoria in uso sottesa all’azione. Il senso di sorpresa conduce a interrogarsi non solo sulla natura del fenomeno inaspettato ma anche, spesso molto proficuamente, sulle strategie di soluzione che si stanno impiegando (come sto pensando per avvicinarmi alla soluzione del problema ?).

Il senso di disorientamento provato costituisce quindi una porta aperta verso nuovi orizzonti conoscitivi.

L'apprendimento esperienziale si è diffuso grazie al contributo del teorico dell'educazione D.A. Kolb, (1984) che, insieme a John Fry, ha sviluppato la "teoria dell'apprendimento esperienziale”. Kolb ha realizzato una sintesi delle ricerche sul processo di apprendimento fondato sull’esperienza, appoggiandosi alle teorie di J. Dewey (1938), di Lewin (1961) e di Piaget (1971). Da queste, Kolb deriva la natura dell'apprendimento come processo dove la conoscenza si sviluppa mediante l'osservazione e la trasformazione dell'esperienza. Tale processo si compone di quattro fasi: 1) la fase delle esperienze concrete, in cui l'apprendimento avviene attraverso le percezioni e quindi come interpretazione personale di esperienze; 2) la fase dell'osservazione riflessiva, in cui l'apprendimento trae origine invece dalla comprensione dei significati tramite l'osservazione e l'ascolto; 3) la fase della concettualizzazione astratta, nella quale l'apprendimento deriva dall'analisi e dall'organizzazione logica dei flussi di informazioni; 4) la fase della sperimentazione attiva, in cui l'apprendimento è il risultato di azione, sperimentazione e verifica di funzionamento ai fini dell'evoluzione o di possibili cambiamenti.

Per Kolb, se l'apprendimento è un processo sociale, l'insegnamento, a sua volta non è più un’esclusiva della classe scolastica, ma proprietà della famiglia, del lavoro, delle situazioni di vita quotidiana. Si può apprendere in qualsiasi situazione, non solo in quelle designate per l'apprendimento. La tesi del lavoro di Kolb è che l'apprendimento dall'esperienza è il processo attraverso cui avviene lo sviluppo umano.

Lo studioso propone anche una tipologia degli stili individuali di apprendimento organizzati in un ciclo che ruota intorno a quattro assi: astratto/concreto; azione/riflessione

Il ciclo di Kolb può vertere sul singolo soggetto come un processo di auto-osservazione della propria esperienza che implica, tra gli altri aspetti: l’identificazione degli elementi comportamentali adottati e delle operazioni svolte per permettere la distinzione tra punti di forza e punti di debolezza, nonché il miglioramento delle performance attese; la riflessione sui comportamenti, le strategie, successi ed insuccessi propri, migliorando la consapevolezza di sé; la definizione degli obiettivi di apprendimento (learning goal e learning need); l’identificazione

della performance ideale; l’attivazione di un maggiore livello di attenzione e concentrazione nello svolgimento della nuova esperienza.

Il ciclo può svilupparsi anche in un gruppo-classe (cooperative learning), in particolare rispetto ai seguenti elementi: sentimenti e comportamenti di ciascuna persona coinvolta nell'attività; dinamiche di gruppo; modalità di utilizzo delle risorse a disposizione nel definire e nel raggiungere gli obiettivi comuni; relazioni personali dei membri del gruppo; elementi emotivi e comportamentali utilizzati nel superamento delle sfide personali, fisiche, emotive, affettive e cognitive, che caratterizzano il coinvolgimento personale richiesto dalla situazione.

Tra le metodologie e i metodi per l’analisi riflessiva citiamo, inoltre, il metodo Gruppo Balint (Balint, 1960), l’intervista di esplicitazione (Vermersch, 1994), il metodo di istruzione al sosia (Oddone, Re, Briante, & Clot, 1981), l’auto-confronto semplice (Theureau, 2006), l’autoconfronto incrociato (Clot, Faita, Fernandez e Scheller, 2001).

Questi ultimi dispositivi per la riflessività, che verranno analizzati in dettaglio nel cap. 3, sono orientati alla verbalizzazione riflessiva e orale attraverso l’uso del video, consentendo l’attivazione di processi di presa di coscienza retrospettiva attraverso l’auto-osservazione, l’analisi e la decodifica dei segni verbali e non verbali rivisti nel video.

Lo sviluppo delle pratiche riflessive nei contesti della formazione professionale continua

Condurre pratiche riflessive individualizzate e collettive in contesti di formazione professionale continua significa trasferirle dal mondo dell’educazione in cui sono state sinora prevalentemente sviluppate a quello della formazione che presenta alcune problematicità legate alla natura stessa dell’”insegnare” a fronte del “formare”. Tomassini (2006) sviluppa questo tema affermando “una differenza importante in termini di condizioni di lavoro: da un lato c’è l’archetipo della “porta chiusa” al di là della quale si svolge il lavoro nell’aula scolastica o universitaria, dall’altro c’è quello dell’open space del luogo di formazione e del luogo produttivo. Un’altra differenza riguarda il sistema di riferimenti per l’evoluzione delle competenze professionali. Nel caso dell’educazione le competenze evolvono essenzialmente in funzione del cambiamento delle discipline cui gli insegnanti afferiscono. Nel caso della formazione le competenze sono correlate a molto più rapidi cambiamenti dettati dal progresso tecnologico, dalle esigenze del mondo produttivo, dalla pressione delle policies e dei solo sostrati normativi-amministrativi. Esiste quindi una differenza complessiva di stili di azione tra formatore e insegnante, che vedono il primo sospinto da esigenze immediate, di tipo pratico riferite a obiettivi spesso largamente eterodeterminati, al contrario del secondo, che appare strutturalmente facilitato all’autoanalisi di attività allo stesso tempo stabili e aperte ai riflessi etici e coscienziali di un processo per sua natura aperto come l’educazione, dall’altro il formatore.

Fino a questo momento affrontare i concetti di apprendimento informale, le teorie dell’apprendimento e della conoscenza a partire dalla pratica, l’apprendimento nelle organizzazioni attraverso il fare, ci ha condotti a guardare i soggetti che vivono e lavorano in determinati contesti caratterizzati da culture e usi locali e linguistici come ad attori che intrecciano costantemente nelle loro pratiche operative relazioni di scambi, di mediazione, di conversazione. L’esito di questo processo conduce ad una trasformazione di tali conoscenze che, in funzione degli usi culturali, vengono tradotte, trasferite, spostate e diffuse dentro e fuori dal contesto di origine. Scaratti (2005), afferma che studiare la conoscenza all’interno delle organizzazioni nella prospettiva sociale delle comunità di pratiche, in cui le conoscenze risultano strutturalmente situate, socialmente costruite e traslate, significa avvicinarsi a contesti di azione caratterizzati da unicità, ambiguità provvisorietà e “misurarsi con un sapere pratico di tipo riflessivo, narrativo, orientato al futuro e contestuale depositato nelle conoscenze implicite e in azione dei soggetti”. Per Scaratti questo tipo di rapporto tra conoscenza-azione- traslazione si connette alle concezioni costruzioniste dell’organizing e del sense making di Weick (1993; 1997), per il quale negli interventi organizzativi emerge sempre più l’importanza del valore delle interazioni, che avvengono sulla base dei significati assegnati dagli individui alle situazioni sociali e al modo in cui essi ne parlano, ricreando significati in modo retrospettivo. In termini di formazione questo significa leggere gli eventi nei contesti organizzativi in termini di attribuzione di senso e di significato; in termini di ricerca significa però ridefinire gli oggetti di indagine come risultato dello scambio realizzato con gli interlocutori interni ai contesti organizzativi; infine, in termini di competenze del ricercatore che deve dosare in maniera equilibrata competenze tecnico-strumentali e competenze processuali nella gestione dei dispositivi di ricerca. Il tema delle competenze del ricercatore ci porterà nel paragrafo successivo ad affrontare in maniera mirata la tematica del rapporto tra formazione e ricerca, in particolare all’interno delle organizzazioni, approfondendo il metodo della ricerca-Intervento, adottato nel cap. 4.

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