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Segue La nozione nelle aree di armonizzazione coesiva

Proprio nella prima area di armonizzazione coesiva citata da Treu - più nello specifico in materia di parità retributiva - si è registrata la prima estensione della nozione di lavoratore subordinato derivante da Lawrie-Blum al di fuori dell’ambito di applicazione della libera circolazione. Ad una prima lettura, utile ai fini della trattazione, dell’art. 157 TFUE, comma 1 sulla parità retributiva, quest’ultima è assicurata per lavoratori di sesso maschile e femminile per uno stesso lavoro ovvero per lavori di un medesimo valore. Se il concetto di retribuzione o salario viene opportunamente descritto nel secondo comma di tale articolo, risulta assente, invece, qualsiasi definizione di chi, ai sensi dello stesso, sia o debba considerarsi un lavoratore. Tale impostazione richiama quanto già avvenuto in materia di libera circolazione, dove l’art. 45 TFUE non stabilisce alcuna nozione di lavoratore che ne condizioni il campo di applicazione. Dunque, anche nel caso della parità retributiva è stata chiamata ad intervenire la Corte di Giustizia Europea, la quale si è trovata a dover applicare l’unica nozione la cui applicazione potesse essere teleologicamente controllata: ovvero quella elaborata in Lawrie-Blum.

Già nel 1993 con la sentenza Nolte102, i Giudici del Lussemburgo avevano stabilito che la nozione di “lavoratore subordinato o assimilato”

101 Treu T., op. cit, pag. 33.

102-Corte di Giustizia Europea, 14 dicembre 1995, C-317/93, Nolte v.

32 derivante dall’art. 48 TCEE (oggi art. 45 TFUE) fosse applicabile anche all’allora art. 2 della direttiva 79/7/CEE relativa alla parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, in quanto l’unica in possesso dei caratteri e della portata comunitaria, anche se derivante da una materia diversa da quella in esame, come aveva provato far presente103 la ricorrente

nella sentenza in esame. La Corte ha avuto nuovamente la possibilità di sottolineare questa posizione in Allonby, successiva sentenza in materia di parità di trattamento retributivo, con la quale ha sfruttato l’occasione per suffragare e legittimare l’applicazione della nozione ex. art. 45 TFUE in tale disciplina. Il caso di specie riguardava il licenziamento di un certo numero di docenti da parte dell’Accrington & Rossendale College, tra cui la signora

Allonby, e la loro riassunzione come lavoratori autonomi attraverso un’Agenzia

specializzata nella somministrazione di insegnanti. Vedendo la propria posizione economica deteriore rispetto ad un docente di sesso maschile, subordinato, che svolgeva le stesse mansioni, la sig. Allonby ricorreva in quanto discriminata dal punto di vista retributivo. In tale dibattimento, la Corte ha prima di tutto evidenziato come l’espressione “lavoratore ai sensi dell’art. 141,

n. 1, CE [ora art. 157, comma 1, TFUE] non [sia] espressamente definita nel Trattato CE” e per “determinare il suo significato [sia] d’uopo avvalersi dei principi interpretativi generalmente ammessi”, richiamando quanto già definito

nella nota sentenza Unger e ritenendo il principio di uguaglianza tra uomo e donna, includendovi anche la parità retributiva sancita dall’art. 157 TFUE104 ,

come uno di quelli fondamentali all’interno dell’ordinamento giuridico europeo. Data tale centralità tra i principi comunitari, risulta chiaro come anche il termine lavoratore non possa essere lasciato all’autonomia decisionale degli Stati membri altrimenti una sua restrittiva definizione potrebbe minarne l’applicazione ed infatti è la Corte stessa ad importare il concetto derivante da

Lawrie-Blum direttamente nella disciplina della parità retributiva. Facendo ciò

essa ha sancito la portata euro-unitaria105 della nozione ex art. 45 TFUE, in

103 Ibid., para 20.

104 Corte di Giustizia Europea, 13 gennaio 2004, C-256/01, Allonby v. Accrington & Rossendale

College and Others, in Racc., 2004, p. 873, para. 64.

33 quanto applicata per la prima volta al di fuori dei suoi originari confini ed aprendo la strada ad una sua successiva estensione anche in altre materie.

Sebbene tale nozione, grazie a queste sentenze, abbia di fatto sconfinato la sua originaria sfera di applicazione, il suo utilizzo in materia di parità di trattamento è probabilmente da ritenersi ultroneo. Questa disciplina, al contrario di altre, si è da sempre caratterizzata per la propria natura universalistica, andando ben oltre il solo lavoro subordinato quale confine per l’applicazione delle tutele antidiscriminatorie. Difatti sin dalla prima direttiva per la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale - la Direttiva 79/7/CEE106 - tale disciplina era destinata non solo al lavoratore subordinato, ma a tutta la “popolazione attiva”, includendo in essa anche i lavoratori autonomi con l’unica eccezione di coloro che non hanno mai svolto alcuna attività lavorativa e, dunque, non economicamente rilevanti.

Al contrario, l’applicazione dell’unica nozione con valenza europea di lavoratore subordinato in materia di salute e sicurezza - più precisamente in ambito di tutela della maternità ed orario di lavoro - risulta essere decisamente più interessante. In tale disciplina non si rintracciano quei caratteri di tutela universalistica propri della parità di trattamento, ma essa è ancora ben ancorata al lavoratore subordinato come titolare unico di tali tutele. A maggior ragione, dunque, in questa materia si rintraccia, nuovamente, la volontà della Corte di Giustizia Europea di utilizzare l’unica nozione di portata comunitaria di lavoratore subordinato di cui dispone per evitare applicazioni non conformi a quanto disposto dal legislatore europeo o restringimenti dell’ambito di applicazione della disciplina. Inoltre, risulta necessario evidenziare come anche in questa materia non siano rintracciabili dei chiari contorni di chi sia un lavoratore, sia nei Trattati che nella lettura delle direttive. E proprio nella direttiva 89/391/CEE107 ritroviamo una definizione piuttosto ampia di chi, ai

106 La direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 10978, si occupa, tutt’ora, della

graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale. Questa segue lo stesso tenore della direttiva 76/207/CEE relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.

107 Direttiva 89/391/CEE del consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure

volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro.

34 sensi della stessa, debba essere un lavoratore tutelato, qualificabile in “qualsiasi

persona impiegata da un datore di lavoro, compresi i tirocinanti e gli apprendisti, ad esclusione dei domestici” come riportato dall’art. 3, lettera a)

della direttiva di cui sopra. Tale nebulosa nozione è anche il punto di partenza su cui sono state disposte le direttive successive in materia di salute e sicurezza, come la direttiva 92/85/CEE108 sulle lavoratrici gestanti, sulla quale si è dovuta pronunciare la Corte di Giustizia Europea per permetterne la piena realizzazione e applicazione.

La Corte si è pronunciata su tale questione, dapprima nel 2006 con la sentenza Kiiski, e successivamente con la ben più nota sentenza Danosa v. LKB

Lizings SIA109; quest’ultima interessante anche per l’introduzione di criteri

addizionali per qualificare un rapporto come subordinato, quali il potere di controllo e disciplinare da parte del datore di lavoro, l’integrazione nell’impresa del lavoratore e la possibilità di essere rimosso dal proprio incarico, come già anticipato nei paragrafi precedenti110.

Nella prima sentenza, la signora Kiiski richiedeva, ai sensi della direttiva 92/85/CEE, di essere riconosciuta come lavoratrice gestante, a seguito della scoperta di una seconda gravidanza, e quindi detentrice di tutto l’apparato protettivo della medesima, pur essendo già in congedo per educazione del suo primo figlio, come disposto dal diritto finlandese. La questione giunta dinanzi ai Giudici della Corte, si occupava, dunque, di un riconoscimento della nozione di “lavoratrice gestante” ad una cittadina finlandese, che già, a sua richiesta, era esonerata dallo svolgere le proprie prestazioni in quando titolare di un altro permesso per svolgere la propria funzione di genitore111. Alla luce della

108 Direttiva 92/85/CEE del Consiglio del 19 ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure

volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE).

109 Corte di Giustizia Europea, 11 novembre 2010, C-232/09, Dita Danosa v. LKB Lizings SIA,

in Racc., 2010, p. 11405.

110 Sul tema risulta di interesse anche la recente sentenza Balkaya, dove la Corte ha richiamato

questi criteri addizionali nel caso di un membro del consiglio di amministrazione di un’impresa in materia di licenziamenti collettivi. Corte di Giustizia Europea, 9 luglio 2015, C-229/14,

Balkaya v. Kiesel Abbruch- und Recycling Technik GmbH, in Racc., 2015, p. 455, para 37- 42.

111 L’interesse della signora Kiiski era quello di farsi riconoscere un congedo di natura diversa

da quello che stava già sfruttando, in quanto secondo il diritto finlandese, tale permesso poteva essere usufruito da un solo genitore per volta.

35 trattazione, però, risulta essere interessante l’intervento della Corte sull’ambito di applicazione della direttiva 92/85/CEE e sulla nozione di lavoratrice gestante. In primo luogo, va evidenziato che, ai sensi di tale direttiva, per lavoratrice gestante si intenda “ogni lavoratrice che informi del suo stato il proprio datore

di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali”. Qui si ritrova

il carattere sussidiario della materia, in quanto viene lasciato al legislatore nazionale la definizione delle modalità di informazione. Al contrario, però, non risulta essere lasciato a quest’ultimo alcun intervento sulla definizione di lavoratore gestante. Tale affermazione è supportata da quanto disposto dalla Corte nel paragrafo 24, sottolineando come il legislatore europeo avesse voluto fornire una “definizione comunitaria della nozione di lavoratrice gestante”. Tenendo conto delle ragioni suestese e rimarcando la costante giurisprudenza originatasi successivamente al caso Lawrie-Blum, la stessa ha voluto disporre anche per questa disciplina il richiamo alla nozione euro-unitaria elaborata in materia di libera circolazione, riprendendone i tre criteri utili per definire un lavoratore subordinato: prestazione economica, etero-direzione e remunerazione. Dunque, la Corte, per dare una definizione autonoma di lavoratore subordinato applicabile alla direttiva 92/85/CEE si è rifatta totalmente a quanto disposto in materia di art. 45 TFUE, dando ancora maggior valenza e diffusione a tale nozione.

Questo comportamento lo ritroviamo, sempre in materia di lavoratrici gestanti, nella sentenza Danosa, nella quale un membro di un consiglio di amministrazione è stato riconosciuto, ai sensi del diritto europeo in materia di puerperio, come titolare delle medesime tutele di una lavoratrice subordinata, nonostante la natura sui generis del rapporto di lavoro rispetto al diritto nazionale. Alla lettura della sentenza e delle precise parole selezionate dai Giudici della Corte, viene evidenziato il totale allargamento della sfera di utilizzo della nozione di lavoratore subordinato elaborata in materia di libera circolazione, in maniera diversa della sua semplice estensione avvenuta in

Kiiski. Difatti, al paragrafo 39112, questa nozione viene richiamata come

112 Corte di Giustizia Europea, 11 novembre 2010, C-232/09, Dita Danosa v. LKB Lizings SIA,

36 derivante dal “contesto della libera circolazione dei lavoratori e del principio

della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile”. Questo passaggio risulta essere determinante per una valutazione

effettiva di questa nozione, della sua portata e della sua possibile autonomia. Tanto è vero che, se fino a Danosa tale nozione era richiamata solo come propria dell’art. 45 TFUE e quindi applicata, forse, in maniera forzata in altre discipline, in questa sentenza la Corte ne riconosce l’effettiva espansione e la riconduce anche alla disciplina derivante dall’art. 157 TFUE. Tale affermazione ne legittima la portata e l’utilizzo, dunque non eccedente rispetto alla volontà del legislatore euro-unitario, anche in altre aree in cui non sia possibile rintracciare alcun riferimento al principio di sussidiarietà, come anche evidenziato nella sentenza Ekro BV Vee-en Vleeschandel v. Produktschap voor

Ve en Vlees113, dove i Giudici hanno rilevato che “tanto l’applicazione uniforme del diritto comunitario, quanto il principio di uguaglianza esigono che una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata – come nei casi di cui sopra – [debba] normalmente dar luogo, nell’intera comunità, ad una interpretazione autonoma ed uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e dello scopo perseguito dalla normativa”114. Alla luce di ciò, la sentenza Danosa risulta avere un impatto molto importante, se non cruciale, sulla nozione ex. art. 45 TFUE al di fuori del proprio ambito di applicazione, in quanto ne risulta rafforzata la sua essenza di unica definizione applicabile al di fuori della propria sfera originaria, pur venendo applicata solo quando l’interesse comunitario e la volontà del legislatore europeo devono essere salvaguardate da possibili applicazioni errate o limitanti di tale obiettivo.

Nel medesimo filone giurisprudenziale si inserisce anche la disciplina in tema di orario di lavoro, appartenente anch’essa all’ambito di salute e

113 Corte di Giustizia Europea, 18 gennaio 1984, C-327/82, Ekro BV Vee-en Vleeschandel v.

Produktschap voor Ve en Vlees, in Racc., 1984, p. 107.

114 Corte di Giustizia Europea, 18 gennaio 1984, C-327/82, Ekro BV Vee-en Vleeschandel v.

Produktschap voor Ve en Vlees, in Racc., 1984, p. 107., para. 11. Si veda anche Corte di

Giustizia Europea, 19 settembre 2000, C-287/98, Granducato del Lussemburgo v. Berthe

37 sicurezza per il lavoratore. Similmente a quanto avvenuto per la direttiva 92/85/CEE sulle lavoratrici gestanti, anche la direttiva 93/104/CE115 - ora abrogata dalla direttiva 2003/88/CE116 - in materia di orario di lavoro richiama nel terzo considerando la direttiva 89/391/CEE come sua base giuridica. Tale riferimento, per astratto, dovrebbe dunque riguardare anche l’ampia definizione di lavoratore ai sensi dell’art. 3, lett. a) di tale direttiva ma ciò non si concretizza con quanto effettivamente disposto dal legislatore europeo. Difatti, nella Direttiva 2003/88/CE, quest’ultimo, come anche fatto notare dalla Corte del Lussemburgo nella sentenza Union syndicale Solidaires Isere117, non ha effettuato alcun rinvio alla “disposizione della direttiva 89/391 [leggasi art. 3,

lett. a)], né alla definizione della nozione di lavoratore quale risultante dalle legislazioni e/o prassi nazionali”. In ragione di ciò, i Giudici della Corte,

riconoscendo la mancanza di una definizione di lavoratore propria della direttiva e l’assenza di richiami a suffragio di una di natura sussidiaria, hanno fatto ricorso alla medesima tecnica definitoria applicata per le direttive 89/391/CEE e 92/85/CEE, richiamando la nozione elaborata in materia di libera circolazione ex art. 45 TFUE e già estesa teleologicamente in altre aree di armonizzazione coesiva.

6. Lo sconfinamento della nozione euro-unitaria di lavoratore in una

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