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I collegi di probiviri sono comunemente riconosciuti – e lo furono già al momento della loro nascita – emblema della giurisdizione d’equità. Tale termine (“equità”) tuttavia non si rinviene in alcun articolo della legge 295 /1893, ma si evince dalla regole sul procedimento.

Anche nei lavori preparatori il riferimento all’equità, oltre che sottinteso nella denominazione stessa dell’organo “Collegi di probiviri”, si sostanzia nell’attribuzione ad essi della funzione di conciliare le parti e dirimere le controversie bonariamente, e nella stessa loro composizione di soggetti digiuni di diritto ed esperti di cognizioni tecniche concernenti l’industria di volta in volta interessata. I collegi, secondo l’ottica dei lavori preparatori e della dottrina coeva, non dovevano interpretare norme, bensì creare una giurisprudenza sul contratto di lavoro276. Decisioni che dovevano servire da

punto di partenza per una futura legislazione sul lavoro277.

La superiore ricostruzione, secondo una visione positivistica, rischia di essere equivoca nella misura in cui non tiene conto della sovrapposizione e dell’intreccio di tematiche differenti: la distinzione tra applicazione e creazione di norme e conseguentemente tra funzione giurisdizionale e legislativa; il rapporto tra equità e diritto; il contenuto precipuo della nozione d’equità.

L’attenzione posta sul giudice quale interprete della realtà sociale e delle diverse volontà delle parti potrebbe far propendere per l’accoglimento delle concezioni storiche e sociologiche che nascevano a fine Ottocento.

Come ha sapientemente sostenuto De Marini, tali dottrine portano alla negazione dello Stato e ad una riaffermazione della società, attraverso la valorizzazione del giudice, “in funzione della negazione della norma positiva, sia essa di produzione legislativa sia essa di produzione giudiziale; il giudice è valorizzato in quanto interprete delle esigenze attuali della società, non in quanto creatore, mediante l’autorità del

276 Istituzione dei collegi di probi-viri. Proposta di legge d’iniziativa del deputato Maffi Antonio presa in

considerazione nella seduta del 6 marzo 1890, in Atti Parlamentari. Camera dei deputati. Legislatura XVI. IV sessione1889-90. Disegni di legge e relazioni, doc. n. 129, p. 4 e Istituzione dei collegi di probi-viri. Relazione della Commissione sulla proposta di legge d’iniziativa del deputato Maffi Antonio presa in considerazione nella seduta del 6 marzo 1890, in Atti Parlamentari. Camera dei deputati. Legislatura XVI. IV sessione1889-90. Disegni di legge e relazioni, doc. n. 129-A, p. 2.

277 Al rapporto tra potere giurisdizionale e legislativo nel periodo qui considerato sono stati dedicati i due

volumi dei “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 2011, vol. 40. In particolare, al tomo II cfr. G. Cazzetta, Coscienza giuridica nazionale e giurisprudenza pratica nel primo Novecento italiano, pp.781-812; M. Meccarelli, Diritto giurisprudenziale e autonomia del diritto nelle strategie discorsive della scienza

giuridica tra Otto e Novecento, pp. 721-745 e A. Spinoza, «L’economia dei codici moderni». Legislazione e giurisprudenza nella dottrina italiana dell’Ottocento, pp. 747-780.

precedente (come avviene nella giurisprudenza anglo-sassone), di una norma positiva e duratura”278.

A ben vedere, con i probiviri siamo in piena concezione positivistica: lo Stato ha istituito nella sua organizzazione degli organi latamente giudiziali che risolvano singole controversie di lavoro, ma che pongano in tal modo le fondamenta di una futura legislazione da realizzare in sede parlamentare. Lungi dal legislatore l’idea di abbandonare la regolamentazione del fenomeno lavoro: lo Stato è parte stessa del problema e lo governa dall’interno, sebbene in via mediata279. E sono state viste,

sopra, le modalità attraverso le quali lo Stato partecipava alla formazione dei collegi. Lo Stato fa della giurisprudenza probivirale da un lato una fonte del diritto, nel senso che la sentenza diventa legge del caso deciso280, dall’altro un “laboratorio sperimentale

[...] fattore di promozione delle riforme legislative”281.

Lo strumento attraverso il quale i probiviri dovevano creare l’auspicata giurisprudenza sui rapporti tra capitale e lavoro era offerto dal sistema civilistico di diritto comune. L’articolo 1124 del codice civile 1865, statuendo che “i contratti debbono essere eseguiti di buona fede, ed obbligano non solo a quanto è nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso o la legge ne derivano”, autorizzava un giudizio non stricto iure ma sub specie aequitatis.

La differenza con i giudici ordinari, che potevano ben usufruire della stessa norma risiedeva nel fatto che l’equità alla quale i collegi avrebbero dovuto fare ricorso era, per così dire, di natura sociale, per mezzo della quale far penetrare nella regolazione del rapporto di lavoro le varie istanze delle parti in conflitto, al fine di sopperire alle

278 C.M. De Marini, Il giudizio di equità nel processo civile. Premesse teoriche, Padova, Cedam, 1959, p. 15. 279 Per il Wieacker, lo schema positivistico del rapporto tra giudice e legge e della configurazione dell’attività

di giudizio come sussunzione del fatto concreto entro la fattispecie normativa, tra Otto e Novecento, era già superato. L’Autore poneva in rilievo la necessità per il giudice di ricorrere a regole extralegali, nell’ambito delle quali un ruolo di primo piano spettava ai principi dell’aequitas. Ma questo riconoscimento avrebbe reso necessario per la dottrina una diversa impostazione del sistema delle fonti; cfr. F. Wieacker, Legge e arte

giudiziale. Sul problema dell’ordine giuridico extralegale, in Studi in memoria di Lorenzo Mossa, Padova, Cedam,

1961, vol. III, pp. 619-630. Il ripensamento delle fonti del diritto di cui parla il Wieacker, tuttavia, non sarebbe stato possibile in quel contesto storico, permeato da una profonda diffidenza verso la giurisprudenza e il legislatore (che interveniva con leggi speciali), giustificata dal timore della frammentazione dei principi del sistema civilistico; cfr. su questi argomenti G. Cazzetta, Codice civile e

identità giuridica nazionale, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 60-65.

280 Cfr. E. Piola Caselli, voce Giurisprudenza, nel Digesto Italiano, vol. XXV, p. 845.

281 G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Laterza, Bari, 2000, p. 206. Circa il ruolo e la

collocazione endo o extra statuale del probivirato, Romagnoli (Id., Il lavoro in Italia. Un giurista racconta, cit., p. 91) ha criticato le ricostruzioni del Cecchella (Id., L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano, 1990, p. 63) e della Castelevetri (Id., Il diritto del lavoro delle origini, Milano, 1994, p. 224) che avrebbero “restituito un’immagine di dubbia credibilità dei probiviri. con netto anticipo rispetto ai tempi, li raffigura(no) infatti a stregua di geniali autori del più onirico dei progetti: introdurre e stabilizzare un rapporto interattivo tra «diversi ordinamenti, quello intersindacale e quello statuale»; propensi, insomma, a reinterpretare la legge del 1893 come «un invito a modellare il diritto delle relazioni industriali secondo gli schemi autonomamente individuati all’interno di una compagine sociale diversa dallo Stato», che lo Stato – chissà perché, quando e come – si sarebbe impegnato a riconoscere”.

evidenti lacune dell’ordinamento in tema di contratto di lavoro. In questo modo, i collegi si ponevano quali conditores iuris e potevano essere assimilati, nel loro compito e modus operandi, al pretore romano282. In realtà la scienza giuridica non era sul punto

unanime283. Riportando le parole di Carlotta Latini, “i probiviri fecero un largo uso

di poteri equitativi ed i giuristi discussero a lungo sulla natura dei loro giudizi, se di diritto o di equità. In generale, è possibile dire che la scienza giuridica restò divisa sulla possibilità di inquadrare o meno i probiviri nell’ambito delle giurisdizioni di equità. Essi rimasero una figura assai discussa sempre in bilico tra il pretore di romanistica memoria ed il magistrato che è tenuto ad applicare la legge”284. Tali

diversità di convinzioni scientifiche derivavano in realtà dal contenuto che ciascun giurista dava all’equità e che aveva delle conseguenze in termini di categorizzazione dei collegi probivirali, e in generale del giudizio d’equità, nell’ambito delle funzioni legislativa o giurisdizionale285.

Il quadro risultava altresì complicato dalla relazione tra giudice e legge, nel senso che anche nei giudizi secondo diritto, com’è naturale, l’operatore giuridico non applicava passivamente la legge ma in parte la snaturava per adattarla alle circostanze specifiche286. Secondo il Mortara, funzione legislativa e giurisdizionale erano tra loro

282 Sulla Pretura cfr. E. Piola Caselli, voce Giurisprudenza, cit., pp. 834-835.

283 Cfr. per una rassegna delle più autorevoli opinioni dottrinali, C. Latini, «L’araba fenice». Specialità delle

giurisdizioni ed equità giudiziale nella riflessione dottrinale italiana tra Otto e Novecento, in “Quaderni fiorentini

per la storia del pensiero giuridico moderno”, 2006, pp. 680-695.

284 C. Latini, «L’araba fenice». Specialità delle giurisdizioni ed equità giudiziale nella riflessione dottrinale italiana tra

Otto e Novecento, cit., p. 692.

285 Sulle diverse posizioni dottrinali vedi, oltre al saggio della Latini sopra citato, vedi D. Corradini, Il criterio

della buona fede e la scienza del diritto privato, Milano, Giuffrè, 1970. Il De Marini ha dimostrato come sia nel

giudizio di diritto che nel giudizio di equità coesistano le attività di creazione e applicazione del diritto ed ha sottolineato come la differenza tra attività giurisdizionale e legislativa stia nel fatto che quest’ultima riguarda norme generali ed astratte, non direttamente adattantisi al caso concreto da regolare (cfr. C.M. De Marini, Il giudizio di equità nel processo civile. Premesse teoriche”, cit., in particolare pp. 253-269).

286 La vischiosità tra applicazione e creazione del diritto è stata quasi poeticamente raccontata da E. Piola

Caselli, voce Giurisprudenza, cit., p. 845:

“Gli è perciò che in tutti gli Stati civili si vede sempre formarsi accanto al santuario delle leggi e sotto la sorveglianza del legislatore, un deposito di massime, decisioni e dottrine che si epurano quotidianamente nella pratica e per il cozzo dei dibattiti giudiziari, che s’accresce continuamente di tutte le conoscenze acquisite e che è stato sempre considerato come un supplemento della legislazione. [Si tratta delle parole del Portalis nelle discussioni del codice napoleonico].

D’altra parte le leggi non fermano il corso della vita giuridica.

La evoluzione degli individui, della società e degli Stati, porta nuovi bisogni fisiologici, psicologici, morali, economici, sociali, politici, che devono essere regolati dal diritto. Di fronte a questi nuovi bisogni, la giurisprudenza è spinta o costretta a creare nuove norme di diritto, più o meno direttamente, coordinate colle norme del diritto vigente.

Ma la evoluzione stessa crea altresì bisogni contrari a quelli che esistevano all’epoca della formazione della legge.

Tali bisogni fanno sempre più difficile e fastidiosa l’applicazione della legge e finiscono per rendere la legge odiosa ed insopportabile. Si giunge a tale punto che la giurisprudenza è trascinata, consapevole o no, a smussare la forza della legge, a eluderla, ad abrogarla con mezzi indiretti e simulati”. Cfr. anche A. Majorana, L’evoluzione storica dei rapporti fra la legislazione e la giurisdizione, in “Archivio giuridico”, 1889, vol.

interdipendenti, la loro separazione era dovuta a ragioni di mera opportunità politica: la funzione giurisdizionale deve essere considerata sì attività limitatrice della legislativa, onde evitare l’arbitrio del legislatore nell’applicazione delle leggi, ma anche il suo necessario proseguimento, al fine di concretizzare in norme particolari le norme generali287.

Anche secondo Brugi, “il giudice continua poi, come ogni interprete, l’opera stessa del legislatore. [...] Sia che il giudice abbia già pronta una disposizione nella legge, sia che debba completar questa nelle sue lacune, ripercorre la stessa via del legislatore o continua a percorrerla dove il legislatore si è arrestato”288. Nel caso delle lacune del

diritto sarebbe stato lo stesso legislatore, attraverso l’articolo 3 delle Disposizioni preliminari al codice civile, a delegare al giudice la creazione della regola giuridica, nei limiti dei principi generali del diritto289.

Scialoja, nel criticare la scuola del diritto libero, precisava: “Questo non toglie che il legislatore debba tener conto delle correnti extralegali per farle diventare legali, quando il diritto formale non corrisponda alla realtà. Questa è giustizia. Ed è anche giustizia che il legislatore in certe materie lasci al magistrato una certa libertà quando la materia non sia ancora cristallizzata in linee nette nella coscienza giuridica. Noi lo abbiamo fatto in un largo campo del diritto, creando anche una magistratura speciale come i probiviri, e possiamo considerare vir probus anche il magistrato ordinario e lasciare a lui un campo libero, ma ben definito, ben circoscritto, perché non si perda per noi ogni libertà sociale”290. L’autore partiva dal presupposto che il diritto risponde

all’equità e che tra essi non possa esservi contraddizione. L’unica specie di equità utilizzabile nei giudizi dal magistrato era, infatti, quella penetrata nella coscienza comune che, come tale, non può mai essere contrapposta al diritto. La via che il giudice doveva seguire era quella tracciata dalle regole sull’interpretazione della legge (art. 3 disp. prel. c.c.). Anche per Scialoja il contenuto dell’equità (sociale) andava individuato nei principi generali del diritto, attraverso la ricerca, per mezzo di un percorso dialogico deduttivo-induttivo, della ratio legis. Pertanto, il brocardo “jus

legislatori, aequitas iudici magis convenit” avrebbe dovuto essere capovolto in “aequitas legislatori, ius iudici magis convenit”291.

43, p. 575 e P. Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, cit., pp. 14-20 (cito da M. Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche, cit.).

287 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, IV edizione, vol. I, pp.

75-76.

288 B. Brugi, L’analogia di diritto e il cosidetto giudice legislatore, in “Il diritto commerciale”, 1916, p. 265. 289 B. Brugi, L’analogia di diritto e il cosidetto giudice legislatore, cit., pp. 267-268. Così pure D. Donati, Il

problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910, p. 168. Per una critica al Donati vedi F. Marioni, L’equità e la sua funzione nei giudizi, in “Il Filangieri”, 1914, pp. 481-526 e, particolarmente, pp. 490-491.

290 V. Scialoja, Diritto pratico e diritto teorico, in “Rivista di diritto commerciale”, 1911, parte I, pp. 947-948. 291 cfr. V. Scialoja, Del diritto positivo e dell’equità, Tipografia Savini, Camerino, 1880, ora in Id., Scritti

Nell’interpretazione dello Scialoja, il giudice appare come un collaboratore del legislatore, come avrebbe espressamente sostenuto, qualche anno più tardi, Lodovico Barassi. “Spesso la legge nostra rinvia al prudente apprezzamento del giudice: ma qui è la stessa legge che dà un contenuto elastico alla norma, rimettendone l’ulteriore determinazione al giudice; ciò, si capisce, per la migliore adattabilità della norma al caso concreto. […] Altrove alla giurisprudenza è data facoltà di compromettere tra interessi cozzanti […]. Ora, in tutti questi casi il giudice non crea la norma; questa è prevista dalla legge, ma ha un contenuto largo, scindibile spesso in due o più norme alternativamente applicabili; la legge delega al giudice, di applicare quella regola che gli parrà, nei limiti posti dalla legge, più equa. È insomma il parziale rinvio all’equità; il giudice è l’organo dell’equità, nel limite in cui oggi è ammessa, così come il pretore romano; e in questi limiti lo si può intendere come un collaboratore del legislatore”292.

La formulazione della regola giuridica concreta, insomma, non equivale in questo stadio alla creazione di una norma giuridica. Occorre un ulteriore passaggio, comune anche alla Pretura romana, rappresentato dallo ius tralaticium, dal precedente nella cultura giuridica di common law293.

292 L. Barassi, Istituzioni di diritto privato, Milano, Giuffrè, 1933, p. 20. Per Barassi l’equità non è regola

d’interpretazione della legga in senso storico-evolutivo, ma è fonte di diritto oggettivo, è creatrice di norme adattantesi al caso concreto; ed il contenuto è determinato dal comune apprezzamento in relazione a quel determinato caso, in quel preciso luogo e in una data epoca. L’equità come fonte del diritto è tuttavia subordinata all’assenza di una norma scritta che disciplini quel caso e al richiamo esplicito di altra disposizione che ad essa rinvii (pp. 17-19).

293 In realtà è stato constatato, e studiato nelle sue diverse forme, che il precedente ha un certo valore

vincolante anche negli ordinamenti di civil law; cfr. M. Taruffo, Precedente ed esempio nella decisione

giudiziaria, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1994, pp. 19-36; Id., Dimensioni del precedente giudiziario, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1994, pp. 411-430 (dove, a p. 415, viene

osservato: “Rimane comunque fondata la constatazione che il precedente è fenomeno estremamente diffuso, presente ed importante anche negli ordinamenti di civil law. Pare però evidente l’inadeguatezza di una teoria generale del precedente che sia solo una versione adattata della teoria (o di una teoria) del precedente di common law. Una teoria del precedente che aspiri ad essere generale, e quindi ad avere qualche utilità euristica in più di un ordinamento, dovrebbe invece muovere dalla premessa che il precedente esiste in ordinamenti storicamente e strutturalmente diversi, e che esso presenta caratteri diversi nei vari ordinamenti. Tale teoria dovrebbe servirsi di concetti ampi e differenziati, capaci di ricondurre a relativa unità fenomeni che presentano molteplici peculiarità”), nonché Id., Precedente e giurisprudenza, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 2007, pp. 709-725. Vedi pure S. Chiarloni, Un mito

rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, in “Rivista di diritto processuale”, 2001,

pp. 614-632.

Per quel che riguarda il raffronto con il diritto inglese, appare più pertinente l’assimilazione tra l’equità dei probiviri e l’equity della Court of Chancery: “l’equity è storicamente emersa coi connotati di una giurisdizione discrezionale ed equitativa ispirata alla giustizia del singolo caso concreto e si è via via consolidata come un complesso di strumenti integrativi, correttivi o addirittura innovativi rispetto al sistema della common law e al suo formale rigorismo” (cfr. A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, Giuffrè, 1982, vol. I, p. 530).

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